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Memoria in conflitto: 28 Maggio, oltre la commemorazione

A quarant’anni dalla Strage fascista e di Stato di piazza della Loggia abbiamo deciso, senza pretese di sorta, di sperimentarci nella scrittura collettiva di quello che non vuole essere altro che un breve documento politico e informativo, non certo un lavoro di innovazione nell’inchiesta o nella ricerca storica. L’intenzione è quella di proporre in sintesi una lettura altra di quegli anni rispetto alla narrazione costruita e diffusa negli anni dai promotori delle commemorazioni ufficiali che, con la volontà di rendere la memoria un momento di pacificazione sociale, mistifica la storia rendendola un campo neutro e privandola del suo carattere conflittuale. La storia, pensiamo, in particolare quella degli anni Settanta italiani, non è mai terreno di conciliazione, ma teatro di un mondo in tensione. Riteniamo necessario riportare la memoria ad un esercizio critico che sia capace di mettere in discussione un’interpretazione, quella “ufficiale”, diventata verità assoluta grazie alla sua continua riproduzione e riproposizione. La stesura di questo “volantone” è stato un lavoro collettivo, a più mani. A ciò è riconducibile il cambio di stile di scrittura da un articolo all’altro.


 

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE


Gli anni ’60 erano iniziati con le giornate del Luglio genovese: nel capoluogo ligure l’intera popolazione insorse contro il convegno nazionale del Movimento Sociale Italiano. Diversi giorni di scontri portarono alla caduta del governo Tambroni, che aveva trovato un alleato fedele nei fascisti del Movimento Sociale.
Da allora le lotte sociali di operai e studenti erano cresciute anche se sarà il biennio ’68-’69 ad infiammare scuole e fabbriche di tutta Italia. Operai e studenti, nonostante alcune piccole concessioni da parte dei governi, non accennano a fermarsi continuando a pretendere miglioramenti salariali e delle condizioni di vita. L’impressione di padroni, fascisti e NATO è quella che oramai il “pericolo rosso” sia sempre più concreto e che si sia giunti ad un passo da una rivoluzione.
E infatti la risposta dello Stato non si fa attendere: una sempre più feroce repressione poliziesca provoca morti e feriti e porta a decine di migliaia di denunciati. Alla controffensiva in divisa si aggiunge l’offensiva mediatica che alimenta la paura verso i movimenti sostenendo un sistema autoritario e bollando le aggressioni fasciste come “risse fra balordi” nascondendone così la reale natura.
Nonostante ciò operai e studenti continuano a riempire le piazze arrivando ad una rottura profonda con le istituzioni. Per contro, lo Stato inizia ad elaborare una nuova risposta, cercando alleanze con organizzazioni neofasciste come, ad esempio, il gruppo Ordine Nuovo.
Il 12 dicembre 1969 alle ore 16.37 a Milano una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’ Agricoltura in piazza Fontana, dove ha anche sede il mercato degli agricoltori, diversi minuti dopo esplodono altre bombe nella Banca d’Italia, al pennone dell’altare della patria e nei pressi del museo del risorgimento. Una quinta verrà rinvenuta nella Banca Commerciale.
Il bilancio della Strage di Piazza Fontana è di 12 morti e 82 feriti.
A capo delle indagini vien messo il commissario capo dell’ufficio politico (attuale DIGOS) della Questura di Milano, Calabresi; lui ed il Questore Guida non hanno dubbi: i bombaroli sono anarchici, nonostante gli indizi portassero ai fascisti di Ordine Nuovo.
L’anarchico milanese Giuseppe Pinelli cadrà dal quarto piano della questura, dall’ufficio di Calabresi; Valpreda, insieme ad altri anarchici meneghini, rimarrà per anni recluso in carcere nonostante la sua innocenza fosse provata.
Tutte queste manovre (repressione poliziesca, offensiva mediatica e stragismo nero) rientrano in un’unica strategia di potere che è stata denominata “strategia della tensione”.
Un piano spietato che prevedeva una destabilizzazione stabilizzante: creare tensione e paura per legittimare una svolta autoritaria dello Stato reprimendo i movimenti rivoluzionari.
A conferma di questa tesi anche il tentato colpo di stato, condotto dal Fronte Nazionale guidato da Junio Valerio Borghese e passato alla storia con il nome di “golpe Borghese”, fra la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970. Il tentativo abortì all’ultimo momento, non senza però fare in modo che lo spargersi della voce alimentasse le tensioni e le paure già diffuse nel Paese.

 

L’ AMBIENTE NEOFASCISTA BRESCIANO, GLI ANTEFATTI DELLA STRAGE.


La città di Brescia, nel panorama nazionale delle espressioni dei fenomeni neofascisti, ebbe un ruolo preponderante, sin dagli inizi della strategia della tensione fino alla data del 28 Maggio, fase culminante dell’eversione nera in città.
Il primo attentato di rilievo è l’attacco dinamitardo contro la sede della Federazione provinciale del Psi avvenuto nella notte tra il 3 e il 4 Febbraio 1973; prima di allora vi era stata una fase costellata da provocazioni , intimidazioni e attacchi nei confronti di esponenti della sinistra in genere, quindi l’attacco alla sede del Psi è un’avvisaglia del “salto di qualità” che i fascisti compiranno di li a breve.
Sin dagli inizi dell’anno della Strage il clima in tutta la provincia era incandescente, a testimonianza di ciò il segretario provinciale a Brescia del Movimento Sociale Italiano Umberto Scaroni aveva fatto pervenire, con una circolare del 28 gennaio ai propri iscritti affermando che «al termine del primo semestre del `74, anche a prescindere dall’esito delle importanti competizioni elettorali (il referendum sul divorzio) è prevedibile il maturarsi di una situazione generale di estrema tensione.
Non abbiamo quindi tempo da perdere, perché in questi mesi dobbiamo preparare il partito ad ogni tipo di evenienze». Cominciano a susseguirsi così i numerosi attentati che segneranno irrimediabilmente quei giorni di confusione e tensione politica.
Nella notte tra il 15 e il 16 Febbraio, la “Coop “ di Viale Venezia, subisce un attentato dinamitardo che danneggia vetrine, saracinesche e le auto parcheggiate davanti ai locali del supermercato; questo viene subito rivendicato dalle Squadre di Azione Mussolini ( SAM) tramite dei volantini la cui massima è l’epiteto “viva Dachau”.
Il 27 Febbraio vengono fatti esplodere due ordigni incendiari contro la sede sindacale unitaria dei metalmeccanici di Lumezzane e all’arrivo degli inquirenti vengono trovati altri volantini delle SAM.
Si registrano sempre più casi in cui le bombe a mano vengono utilizzate per questi attentati, l’8 marzo di fronte alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie , il 26 Marzo altre cinque verranno rinvenute sotto al monumento a Giuseppe Cesare Abba e il 22 Aprile ne viene lanciata una contro la sede della Federazione Socialista.
Il 9 Marzo i Carabinieri guidati dall’allora capitano dell’Arma Francesco Delfino, tendono una trappola a due esponenti di “Avanguardia Nazionale” :Kim Borromeo e Giorgio Spedini. Alla ricerca di armi contattano Gianni Maifredi, ex-militante fascista divenuto informatore delle forze dell’ordine, il quale organizza la trama per la loro cattura.
I due trasportano sulla loro vettura 364 candelotti di tritolo e 8 chili di esplosivo plastico, ricevuti poco prima da Carlo Maria Fumagalli, personaggio di spicco nelle trame eversive che nel 1962 aveva fondato il “Movimento di Azione Rivoluzionaria” (MAR).Vengono fermati ad un posto di blocco e successivamente arrestati, nelle vicinanze di Sonico in Valle Camonica.
L’8 maggio viene rinvenuta una borsa, da giorni posta di fronte alla sede della CISL e al suo interno un ordigno che è mancato di esplodere per l’imperizia dei suoi fabbricanti.
A questo fatto produce un simbolico sciopero di dieci minuti nella giornata del 10 Maggio.
Il 9 maggio vengono arrestati numerosi esponenti del neofascismo bresciano, dei gruppi MAR, SAM e Avanguardia Nazionale, tra cui anche Carlo Maria Fumagalli da tempo ricercato.
Tra il 18 e il 19 Maggio, in piazza Mercato attorno alle ore 3, il giovane Silvio Ferrari, salta in aria mentre stava trasportando una bomba sulla sua Vespa, con la quale stava sfrecciando verso l’obiettivo prestabilito, forse la sede del Corriere della Sera o forse il Blue Note, locale inviso agli occhi dei fascisti bresciani; Ferrari muore dilaniato nell’esplosione e accanto al suo cadavere viene trovata una pistola “Beretta” con due caricatori, alcune copie del numero del 31 Gennaio di “Anno Zero”, testata della galassia neofascista attorno alla quale si sono uniti numerosi esponenti di “Ordine Nuovo”.
Silvio Ferrari, figlio di famiglia benestante, frequenta gli ambienti veronesi e sanbabilini, si ritrova con i camerati alla pizzeria Ariston, in viale Venezia e lì parla e discute con Ermano Buzzi, Fernando Ferrari e altri esponenti del neofascismo bresciano.
A poca distanza dal corpo smembrato, in Via Milano, alla medesima ora , un’ auto sulla quale viaggiano quattro neofascisti milanesi, si schianta contro un caseggiato, forse a causa di un colpo di sonno del guidatore, che rimane ucciso nell’impatto; trasportati d’urgenza all’ospedale, verranno trovati in possesso di coltelli, catene e tirapugni e nel bagagliaio dell’automobile , saranno rinvenuti altre armi, manifesti dell’MSI , vernici e arnesi per scasso.
I neofascisti appartengono e frequentano gli ambienti dello squadrismo lombardo.
Per il funerale di Ferrari, il 21 Maggio, tra le corone funebri, spicca quella donata da “i camerati di Anno Zero”, garofani bianchi che disegnano l’ascia bipenne di Ordine Nuovo, proveniente da Verona. Al termine delle celebrazioni, vengono fermati e arrestati cinque neofascisti veronesi, in possesso di pistole, coltelli ed altri oggetti atti ad offendere.
Se ai tanti, la causa della morte di Ferrari, in tutte le sue sfumature, risulta ancora oscura, per gli ambienti neofascisti, i responsabili sono subito chiari: essi non tarderanno ad attribuire ai fatti di piazza Mercato, i connotati di un regolamento di conti da parte di esponenti della sinistra, creando così l’icona di Silvio Ferrari , martire del fascismo, vilmente ucciso dall’eversione rossa.
Il 21 Maggio appare appunto un volantino firmato “Partito Nazionale Fascista” il quale attribuisce l’uccisione del ragazzo “ai rossi” proclamando una rappresaglia generalizzata entro la fine del mese, con attentati che verranno compiuti al fine di vendicare “l’eroe Silvio Ferrari “, sulla stessa linea comparirà nella giornata del 27 Maggio un altro delirante volantino, questa volta firmato “Ordine Nero-Gruppo Anno Zero-Brixien Gau” con il medesimo messaggio.

 

28 MAGGIO 1974
In un contesto che, come detto, è caratterizzato da una forte spinta popolare, sociale, di classe, sul piano delle lotte sociali, a Brescia i movimenti degli operai e degli studenti hanno la capacità di mobilitare
migliaia di persone. Anche qui è da poco terminato un considerevole sforzo militante sul fronte della campagna legata al referendum sul divorzio nella quale i movimenti in tutta la penisola hanno saputo costruire, e poi potuto festeggiare, la vittoria del 12 Maggio 1974 contro quello che veniva definito il fronte “clericofascista”. Ma soprattutto la città è attraversata da un clima di paura originato da una sensazione che aleggia da anni in tutto il Paese. Una sensazione che però a Brescia cresce vertiginosamente ormai da qualche anno: è quella che nel bresciano, territorio industriale e dunque operaio, da dopo le lotte del Biennio Rosso (‘68-’69) ci sia una convinta e massiccia elargizione di finanziamenti alle organizzazioni neofasciste da parte dei padroni dell’ “industria del tondino”.
Al culmine di una lunga serie di provocazioni e vigliacche aggressioni, nella notte tra il 18 ed il 19 Maggio il fascista di Ordine Nuovo Silvio Ferrari salta in aria insieme alla sua Vespa, sulla quale stava trasportando un ordigno in piazza Mercato, nel cuore della città.
A Brescia non si parla d’altro. Nelle assemblee studentesche, nei consigli di fabbrica, nelle compagnie di amici e compagni di lotte. Nelle scuole bresciane è forte la presenza dei gruppi extraparlamentari ma anche della FGCI (compagine giovanile del PCI). Il Movimento Studentesco, i Collettivi Politici di Lotta Continua , i Comitati di Agitazione di Avanguardia Operaia, proclamano lo stato di mobilitazione generale e permanente nelle scuole cittadine.
Sul fronte istituzionale i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL) ed il Comitato Antifascista (che da tempo riunisce diversi partiti: DC, PCI, PSI, PSDI, PRI) proclamano una giornata di sciopero, con manifestazione antifascista, per martedì 28 Maggio.
Nei giorni che lo precedono, l’appuntamento viene preparato da tutte le componenti della diversificata Brescia antifascista come una delle tante, continue, mobilitazioni di quel periodo.
Studenti e studentesse indicono assemblee in tutte le scuole per decidere l’adesione alla manifestazione (i gruppi della sinistra extraparlamentare non fanno parte del Comitato Antifascista, ma partecipano sempre alle sue manifestazioni, portando il loro punto di vista: l’antifascismo militante contrapposto all’antifascismo istituzionale). I consigli di fabbrica accolgono lo sciopero generale e decidono di raggiungere piazza della Loggia per il comizio.
Il denominatore comune, trasversale, rimane comunque la necessità di dare una risposta politica, collettiva, di piazza, alle aggressioni e alle provocazioni della destra neofascista.
La mattina del 28 Maggio 1974 fa freddo e piove sempre più insistentemente.
Come sempre i picchetti all’ingresso di ogni scuola invitano gli studenti a partecipare; da ogni istituto parte un corteo diretto verso il luogo di concentramento delle manifestazioni studentesche: piazzale Cesare Battisti. In piazza Garibaldi si trovano gli operai dei consigli di fabbrica, sono militanti chi del sindacato chi dei gruppi extraparlamentari. I due cortei convergeranno nel raggiungere la centrale piazza della Loggia, dove è previsto un comizio.
E’ subito evidente come la partecipazione non sia quella che si definisce “delle grande occasioni”. Certamente il meteo non è dei migliori, ma è anche vero che l’adesione dei gruppi extraparlamentari non è entusiastica: la loro concezione militante dell’antifascismo è spesso critica nei confronti della linea istituzionale del Comitato Antifascista, promotore della manifestazione e del comizio.
Al momento degli interventi dal palco la piazza è, in ogni caso, gremita. La composizione è diversificata e attraversa ampi settori della popolazione bresciana: studenti, operai, insegnanti, impiegati, sindacalisti, pensionati, vecchi e nuovi partigiani. Partiti, sindacati, gruppi, collettivi, cani sciolti. La piazza da comunque la misura della partecipazione e dello stato di mobilitazione che coinvolge l’intera città.
Gli interventi contro la violenza fascista si susseguono dal palco quando, alle 10.12, il boato di una forte esplosione interrompe quello di Franco Castrezzati (CISL).
In molti inizialmente pensano ad una provocazione, al massimo ad una bomba carta. Con il lento passare dei secondi però, in un tempo paralizzato dall’angoscia, la tragedia prende forma e si imprime sulle retine di un’intera piazza, impietrita.
A terra oltre cento feriti ed i corpi straziati delle vittime che vengono subito coperti con un telo.
Una bomba è esplosa in un cestino posizionato a fianco di una colonna del portico sottostante i “màc de le ure”, proprio dove solitamente stazionano le forze dell’ordine durante le manifestazioni; forze dell’ordine che proprio quel giorno si erano collocate altrove.
Il panico si impadronisce della manifestazione antifascista, è impossibile ricostruire le troppe emozioni che lo compongono. C’è la paura che possa esservi un altro ordigno pronto ad esplodere. La struttura abbastanza organizzata per predisporre il da farsi è il sindacato, il cui servizio d’ordine invita i presenti ad abbandonare piazza della Loggia spostandosi nella vicina piazza Vittoria.
La gestione logistica della situazione spetta ora ai sindacati ma, nel lento realizzare la dimensione della gravità delle dinamiche che si stanno materializzando, dolore e rabbia hanno l’ultima parola.
Alcune camionette della Polizia, invisibile fino a quel momento, arrivano in piazza per imporre
un’evaquazione più rapida e senza pensarci diversi studenti ed operai vi si scagliano contro con bastoni e aste delle bandiere ritenendo inaccettabile la provocazione; i celerini non rispondono.
Dal vice-Questore, Aniello Diamare, arriva poi l’ordine imperdonabile. Il selciato della piazza viene
frettolosamente lavato, con la scusa di pulire dal sangue, eliminando i reperti che sarebbero stati
fondamentali per comprendere il tipo di esplosivo o ordigno utilizzati.
In un moto istintivo la componente giovanile della piazza scandisce una parola d’ordine chiara,
“Sbaracchiamo il Movimento Sociale Italiano”, accennando un tentativo di partire subito in corteo alla volta di Piazza Tebaldo Brusato, dove si trova la sede del MSI. I servizi d’ordine di CGIL e PCI riescono ad impedirlo annunciando un’assemblea alla Camera del Lavoro per la stessa mattina.
Per contro i gruppi ed i collettivi che compongono il panorama della sinistra rivoluzionaria a Brescia (Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Movimento Studentesco, Manifesto e Partito di Unità Proletaria) danno indicazione di presidiare la piazza e l’intero centro storico fin da subito. Alla pratica si uniranno anche i consigli di fabbrica.
Da quel momento l’intero centro-città è in mano agli studenti, agli operai, ai lavoratori. Ad ogni esercizio commerciale viene imposta la chiusura e lo sciopero, ovunque si formano capannelli, discussioni, scritte sui muri, attacchinaggi. Fascisti e sbirri scompaiono dalla circolazione. Brescia risponde con un incredibile moto di solidarietà diffusa e di assunzione collettiva della necessità di rispondere tutti insieme.
Ma la tensione non è solo una strategia con la quale lo Stato attacca le lotte popolari per i diritti sociali, è anche il modo d’essere inquieto ed incessante di chi sa che non può esserci pace senza giustizia:
Il provveditore ordinerà di tenere chiuse le scuole, terreno di forte radicamento ed organizzazione
antifascista. Gli studenti e le studentesse le conquisteranno per farvi assemblee e picchetti.
Durante l’immenso corteo funebre del 31 Maggio il bar Holiday, noto punto di ritrovo dei neofascisti bresciani, viene dato alle fiamme.
Durante gli stessi funerali di Stato, il presidente del consiglio Mariano Rumor (DC) e il presidente della Repubblica Giovanni Leone (DC) verranno sommersi dai fischi del movimento e costretti ad abbandonare la cerimonia. (Anche se i media faranno finta di niente, sostituendo in tv i fischi con gli applausi).
Perchè gli esecutori fascisti della strage erano chiari a tutti, i mandanti istituzionali a moltissimi.

 

 

UNA PIAZZA MAI PACIFICATA, UNA MEMORIA MAI CONDIVISA



Spesso quando si parla della strage di Piazza della Loggia si ricorre ad un patetico sentimentalismo ed una retorica dell’unità utile a costruire una interpretazione dei fatti, una memoria e una modalità di gestione condivise. Si delinearono, invece, fin da subito due modi diversi di interpretare la strage accaduta. Chi la vedeva come attentato alle “istituzioni democratiche “e chi invece considerava importanti apparati di stato (non meramente deviati) coinvolti in essa.
Questa spaccatura si palesò durante i funerali, svoltisi il 31 maggio: le più alte cariche dello stato presenti in piazza, tra cui il presidente della repubblica, il democristiano Giovanni Leone, furono accolte da risuonanti cori e fischi di contestazione che li accompagnarono per tutta la loro permanenza. Quando le riprese furono trasmesse in televisione, il rumore dei fischi non si udiva nemmeno in lontananza ma aveva lasciato posto ad un sottofondo di applausi scroscianti. Questa censura nei confronti dell’aspra contestazione mostrò un tentativo immediato di manipolare quanto accaduto.
Gli anniversari successivi mostrarono come la frattura in piazza si fosse fatta ancora più netta: dal ‘75 fino al ‘94 ci furono cortei studenteschi e dei gruppi extraparlamentari e autonomi che mettevano in discussione la presenza democristiana in piazza e a cui, gli organizzatori ufficiali, cercavano di negare l’ingresso. Oltre alle forti tensioni dei primi anni, ricordiamo i fischi e le monetine contro il presidente della repubblica Scalfaro nel ‘94 e soprattutto le feroci cariche poliziesche del 1991 contro il corteo del centro sociale autogestito di via Battaglie avvenute in corso Zanardelli. I manifestanti furono selvaggiamente attaccati perchè denunciavano, attraverso uno striscione, le responsabilità politiche di Cossiga, allora presidente della repubblica e ministro degli Interni nel ‘77, nell’ assassinio della compagna Giorgiana Masi e nelle strategie autoritarie (come la creazione dell’ organizzazione Gladio) e repressive dello stato ( leggi, squadre speciali contro i movimenti, carri armati a Bologna dopo l’omicidio di Lorusso).
La piazza continuò così ad essere uno spazio conteso. Vi è la piazza ufficiale che appoggia le istituzioni e di anniversario in anniversario rimarca questa posizione, arrivando ad usare l’assassinio di Moro nel 1978 come pretesto per trasformare il 28 maggio in una giornata in difesa delle istituzioni, dove l’unica cosa da fare è commemorare in modo silenzioso delle vittime ora mai private della loro identità politica per essere usate come simbolo di una lotta contro un terrorismo indistinto. Un’ operazione storico-politica che trova oggi ulteriore compimento nella realizzazione del percorso delle formelle voluto dalla Casa della Memoria di Brescia, dove fenomeni politici totalmente diversi ( stragismo di stato, terrorismo neofascista e lotta armata di sinistra) vengono accomunati.
Vi è poi la piazza che invece continua a vedere negli apparati di Stato i mandanti della strage di Piazza Loggia ma anche di tutti gli episodi di matrice fascista che imperversarono in quel decennio.
Ieri come oggi, al corteo studentesco e dei movimenti, è negato l’accesso alla piazza nel momento della commemorazione. La Questura di Brescia ripropone di anno in anno questo divieto, ma ogni anno si è sempre dimostrata grande la determinazione corteo antagonista nel rivendicare politicamente e materialmente il diritto di accesso alla piazza.
La questura, attraverso deviazioni di percorso e rallentamento del corteo, ha spesso cercato di far arrivare la manifestazione a commemorazione terminata, o quando alte cariche politiche o istituzionali se ne erano già andate.
Vergognoso è stato il comportamento delle forze dell’ordine il 28 maggio 2012, quando il corteo autorizzato è stato caricato in corso Matteotti (il questore poi si giustificò dicendo che il corteo aveva deviato il percorso), e caricato una seconda volta anche all’ingresso di Piazza della Loggia, prima che il corteo, con un moto di rabbia e voglia di partecipare attivamente, travolgesse il cordone della polizia e riuscisse ad entrare nella piazza.
Un corteo che viene ritenuto una presenza scomoda, poiché rivendica quella memoria che vede nello Stato il mandante della strage e che rifiuta lo spettacolo teatrale fatto di rituali messi in piedi dalle realtà promotrici del calendario delle commemorazioni ufficiali.
Perché il 28 maggio è e deve essere una giornata di resistenza e lotta viva!

 

 

 

IL PROCESSO

Non è facile ricostruire una verità giudiziaria sulla strage di Piazza della Loggia ma soprattutto riporre fiducia fiducia in tale verità: le responsabilità istituzionali, dei Servizi Segreti, della Democrazia Cristiana e di tanti attori della vita politica ed economica di questo Paese sono chiare ed affidare allo Stato, correo in tutto questo, il compito di punire i colpevoli appare, se non assurdo, comunque di difficile accettazione.
Addirittura l’ultima sentenza, quella della Cassazione, che chiede di annullare le assoluzioni, sottolinea l’”ipergarantismo distorsivo” nei confronti degli imputati, teso a “svilire” tutti gli indizi raccolti contro di loro, dimostrando ancora una volta che in Italia il concetto di Giustizia deve fare i conti con le esigenze di chi vuole nascondere la verità.
Gli iter giudiziari in merito a Piazza della Loggia sono riassumibili in 3 filoni di inchiesta: il primo riguarda una pista fondamentalmente bresciana con al centro piccoli delinquenti e giovani neofascisti della Brescia-bene(la quale fu fortemente voluta dal capitano dei Carabinieri Francesco Delfino per spostare l’attenzione delle indagini dalla più realistica pista degli ordinovisti veneti collegati agli apparati repressivi dello Stato). Il secondo segue un livello più ampio, che comprende ambienti neofascisti milanesi. Il terzo indaga sulla “cabina di regia”(il gruppo di Ordine Nuovo del Triveneto)che finisce per investire l’intero panorama eversivo degli anni ‘70. Queste le principali tappe:
2 giugno 1979 – I giudici della Corte d’assise di Brescia condannano all’ergastolo Ermanno Buzzi e a dieci anni Angelino Papa mentre assolvono gran parte delle 16 persone incriminate dal pm Francesco Trovato e dal giudice istruttore Domenico Vino o li condannano a pene inferiori ma per detenzione di esplosivi o per altri attentati.
18 aprile 1981 – Buzzi, personaggio in bilico tra criminalità comune e neofascismo, è strangolato dai ‘camerati’ Mario Tuti e Pierluigi Concutelli nel supercarcere di Novara. I due motivarono l’omicidio con il fatto che Buzzi fosse “pederasta” e confidente dei carabinieri, ma il sospetto è che temessero fosse intenzionato a fare dichiarazioni nell’imminente processo d’appello.
2 marzo 1982 – I giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia assolvono tutti gli imputati, compreso Angelino Papa; nelle motivazioni definiranno Buzzi “un cadavere da assolvere”.
30 novembre 1984 – La Cassazione annulla la sentenza di appello e dispone un nuovo processo per Nando Ferrari, Angelino e Raffaele Papa e Marco De Amici.
23 marzo 1984 – Il pm Michele Besson e il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi aprono la cosiddetta ‘inchiesta bis’. Imputati i neofascisti Cesare Ferri, il fotomodello Alessandro Stepanoff e Sergio Latini. La nuova pista è aperta dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti tra cui Angelo Izzo.
20 aprile 1985 – La Corte d’assise d’appello di Venezia, davanti alla quale è celebrato il nuovo processo dim secondo grado, assolve tutti gli imputati del primo processo bresciano.
23 maggio 1987 – I giudici di Brescia assolvono per insufficienza di prove Ferri, Latini e Stepanoff. Ferri e Latini sono assolti anche dall’omicidio di Buzzi che, secondo i pentiti, avrebbero fatto uccidere perche non parlasse.
25 settembre 1987 – La Cassazione conferma la sentenza di assoluzione dei giudici della Corte d’appello di Venezia e pone fine alla prima inchiesta sulla strage.
10 marzo 1989 – La Corte d’assise d’appello di Brescia assolve, questa volta con formula piena, Ferri, Stepanoff e Latini.
13 novembre 1989 – La prima sezione della Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, conferma e rende definitive le assoluzioni di Ferri, Stepanoff e Latini. I primi due saranno anche risarciti per la carcerazione subita.
23 maggio 1993 – Il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi proscioglie gli ultimi imputati dell’inchiesta bis. Quello stesso anno sarebbe cominciata la terza inchiesta.
16 novembre 2010 – I giudici della Corte d’assise di Brescia assolvono tutti i cinque imputati, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti. L’assoluzione interviene in base all’articolo 530 comma 2 assimilabile alla vecchia insufficienza di prove. Revocata la misura cautelare nei confronti dell’ex ordinovista Delfo Zorzi che vive in Giappone.
14 aprile 2012 – La Corte d’appello di Brescia conferma la sentenza di primo grado mandando assolti i quattro imputati, Zorzi, Maggi, Tramonte e Delfino, per i quali era stato proposto ricorso dalla procura. Dai pm una dichiarazione che, dopo 38 anni, sembra una resa: “Abbiamo fatto tutto il possibile. È una vicenda che va affidata alla storia”.
20 febbraio 2014 – La vicenda approda in Cassazione, dopo il ricorso del pg di Brescia (per tutti, tranne che per Delfino). Il sostituto pg della Cassazione Vito D’Ambrosio chiede di annullare le assoluzioni disposte in secondo grado per Zorzi, Maggi e Tramonte e di celebrare nuovamente il processo. Carlo Maria Maggi, in particolare, sarebbe “l’esecutore e il mandante” della strage.

 

 

 

SEGRETI DI STATO E FUMO NEGLI OCCHI

Fra le ultime mosse politiche intraprese dai governi italiani per manipolare comprensione e analisi della nostra storia contemporanea, e dare una parvenza di interesse verso la ricerca storica, spicca per pretese e altisonanza l’annuncio di Renzi di de-secretare una gran quantità di atti e documenti riguardanti varie stragi di matrice mafiosa e/o fascista come, ad esempio, Piazza Loggia, Piazza Fontana, l’attentato alla stazione di Bologna e la strage di Peteano, tutte accomunate dal contesto cronologico e soprattutto politico.
Per prima cosa, e per dovere di cronaca, la prima discrepanza fra quello che sembra un annuncio in buona fede e la realtà dei fatti è che contrariamente a quanto è stato detto e ripreso dai mass-media dediti alla pacificazione sociale, non è avvenuta ne avverrà alcuna de-segretazione.
Ciò che infatti è stato proposto è la semplice declassificazione di atti e documenti di per se già disponibili su richiesta alle autorità giudiziarie e in molti casi addirittura già acquisiti ai numerosi fascicoli processuali.
Possiamo quindi affermare che ciò che viene spacciato per una rivoluzione epocale sia in realtà solo un piccolo passo di trasparenza in grado di rendere un poco più accessibili a chi ne faccia richiesta atti e documenti comunque già noti ed evidentemente (non si spiegherebbero altrimenti gli esiti fumosi dei processi) di scarsa rilevanza incriminatoria.
Bisogna quindi riuscire a distinguere quella che può apparire come una scelta fondamentalmente giusta e inattaccabile dalla sua reale efficacia.
Un punto fondamentale da comprendere quando si parla di eventi storici in cui si incrociano neofascismi, microcriminalità e regia statale in chiave di strategia della tensione è riuscire a distinguere la differenza fra segreti DI stato e segreti DELLO stato.
Da un punto di vista formale, infatti, lo stato ha sempre provato a fare buon viso a cattivo gioco, e
nonostante gli acclamati e provati tentativi di depistaggio effettuati da organi istituzionali, la legge ha sempre negato l’esistenza di alcun tipo di segreto di stato su questi fatti.
Nominalmente, infatti, il segreto di stato per il reato di strage è stato abolito nel lontano 1977, mentre la legge 124/2007, sancisce come “in nessun caso possano essere oggetto di segreto notizie o documenti relativi a fatti di terrorismo o eversivi”.
Questa seconda legge, nota come riforma dei servizi segreti, è stata però di fatto svuotata di significato da altri organi dello stato, infatti ad oggi non sono stati ancora volontariamente emessi i necessari decreti attuativi e di interpretazione della norma, che l’avrebbero resa operativa, mentre la Corte di Cassazione ha deliberato che è compito del parlamento stabilire quali siano “atti, documenti e notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e devono rimanere segreti”, svuotando quindi di significato l’esclusione a priori della norma precedente di determinate tipologie di reati, ma lasciandone la cernita a discrezione delle stesse istituzioni che hanno posto il segreto.
Una questione però dirompente, anche e soprattutto nell’ambiente di quei ricercatori storici che mai si sono arresi alle mezze verità istituzionali e che anzi lamentano grosse frizioni e resistenze al loro lavoro di indagine storica, è il cosiddetto segreto diffuso, ovvero quel fenomeno che interessa documenti, dati, relazioni che potrebbero essere molto utili per allargare il quadro d’insieme dell’evento, ma che non sono reperibili non per un divieto formale, ma poichè la loro esistenza viene negata e talvolta coperta.
Per spiegare meglio cosa sia un segreto diffuso, basti pensare al caso dell’”armadio della vergogna”, esemplare nel mostrare le coperture fra fascisti e istituzioni repubblicane.
Nel 1994 infatti fu rinvenuto in uno stanzino di un palazzo delle istituzioni giuridiche delle forze armate un armadio nel quale erano contenuti 700 fascicoli d’inchiesta e migliaia di notizie di reato relative a crimini di guerra compiuti nel trienno 1943-1945 (fra cui ad esempio l’eccidio delle Fosse Ardeatine e la strage di Marzabotto) dalle truppe d’invasione naziste e dai collaborazionisti fascisti della Repubblica Sociale Italiana, della quale l’MSI è sempre stato ritenuto erede politico.
La cosa vergognosa della faccenda è come quest’armadio sia riuscito a rimanere inosservato per mezzo secolo semplicemente in virtù del fatto che fù messo in un locale non frequentato e rivolto verso il muro per non attirare attenzioni.
Esistono nel panorama degli Organi istituzionali infatti un’infinità di Archivi che potrebbero contenere carte davvero importanti per riuscire ad aggiungere elementi alla ricostruzione storica.
Lo sbarramento più grande che le istituzioni pongono in questi casi è il divieto di accedervi e in definitiva la negazione al diritto alla conoscenza dell’esistere di questi atti.
Fra i principali archivi additati dagli storici come inarrivabili e potenzialmente molto utili vi sono:
L’archivio della Presidenza della Repubblica, nel quale sono per certo contenute numerose relazioni formali e informali dei servizi segreti al presidente, al quale però è stato recentemente negata alla Procura di Roma perfino la visione dell’elenco dei visitatori.
Gli archivi dei documenti NATO, coperti da un livello di segretezza perfino maggiore delle norme
nazionali e sicuramente non in buonafede considerato il ruolo giocato in operazioni reazionarie, golpiste e parafasciste come l’organizzazione “Stay behind” Gladio.
L’archivio dell’arma dei carabinieri, mai reso noto o pubblico in quanto diviso e diffuso in centinaia di luoghi fisici differenti, che potrebbe essere molto interessante considerato il fatto che agli atti processuali sono inseriti carteggi fra carabinieri e il SISMI (servizi segreti militari italiani).
La questione di fondo quindi non è permettere l’accesso a determinati documenti di cui già si conosce l’esistenza, ma piuttosto il far si che una platea sempre più ampia possa arrivare a questi archivi per capire, sfogliando nella loro mole, cosa può essere utile e cosa no, salvando dall’oblio pezzi di verità destinati altrimenti a rimanere nell’ombra.
Siamo comunque benissimo a conoscenza del fatto che difficilmente possa esistere un documento che provi responsabilità oggettive. Sappiamo infatti bene come queste siano cose di cui i responsabili e i mandanti non scriverebbero né avrebbero mai necessità di scrivere nulla di esplicito. In definitiva è molto difficile che nuove scoperte possano portare a sviluppi dal punto di vista del giudizio penale, eppure, e dopo 40 anni forse è la parte più importante, potrebbero essere svelate scoperte inerenti al giudizio Storico.
Giudizio che comunque per noi è e rimane chiaro: quando emergono prospettive di movimenti sociali incompatibili con la realtà delle istituzioni padronali, “le bombe nelle piazze e le bombe sui vagoni: le mettono i fascisti, le pagano i padroni”.

 

 

 

SEGRETI DI STATO E FUMO NEGLI OCCHI

Fra le ultime mosse politiche intraprese dai governi italiani per manipolare comprensione e analisi della nostra storia contemporanea, e dare una parvenza di interesse verso la ricerca storica, spicca per pretese e altisonanza l’annuncio di Renzi di de-secretare una gran quantità di atti e documenti riguardanti varie stragi di matrice mafiosa e/o fascista come, ad esempio, Piazza Loggia, Piazza Fontana, l’attentato alla stazione di Bologna e la strage di Peteano, tutte accomunate dal contesto cronologico e soprattutto politico.
Per prima cosa, e per dovere di cronaca, la prima discrepanza fra quello che sembra un annuncio in buona fede e la realtà dei fatti è che contrariamente a quanto è stato detto e ripreso dai mass-media dediti alla pacificazione sociale, non è avvenuta ne avverrà alcuna de-segretazione.
Ciò che infatti è stato proposto è la semplice declassificazione di atti e documenti di per se già disponibili su richiesta alle autorità giudiziarie e in molti casi addirittura già acquisiti ai numerosi fascicoli processuali.
Possiamo quindi affermare che ciò che viene spacciato per una rivoluzione epocale sia in realtà solo un piccolo passo di trasparenza in grado di rendere un poco più accessibili a chi ne faccia richiesta atti e documenti comunque già noti ed evidentemente (non si spiegherebbero altrimenti gli esiti fumosi dei processi) di scarsa rilevanza incriminatoria.
Bisogna quindi riuscire a distinguere quella che può apparire come una scelta fondamentalmente giusta e inattaccabile dalla sua reale efficacia.
Un punto fondamentale da comprendere quando si parla di eventi storici in cui si incrociano neofascismi, microcriminalità e regia statale in chiave di strategia della tensione è riuscire a distinguere la differenza fra segreti DI stato e segreti DELLO stato.
Da un punto di vista formale, infatti, lo stato ha sempre provato a fare buon viso a cattivo gioco, e
nonostante gli acclamati e provati tentativi di depistaggio effettuati da organi istituzionali, la legge ha sempre negato l’esistenza di alcun tipo di segreto di stato su questi fatti.
Nominalmente, infatti, il segreto di stato per il reato di strage è stato abolito nel lontano 1977, mentre la legge 124/2007, sancisce come “in nessun caso possano essere oggetto di segreto notizie o documenti relativi a fatti di terrorismo o eversivi”.
Questa seconda legge, nota come riforma dei servizi segreti, è stata però di fatto svuotata di significato da altri organi dello stato, infatti ad oggi non sono stati ancora volontariamente emessi i necessari decreti attuativi e di interpretazione della norma, che l’avrebbero resa operativa, mentre la Corte di Cassazione ha deliberato che è compito del parlamento stabilire quali siano “atti, documenti e notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e devono rimanere segreti”, svuotando quindi di significato l’esclusione a priori della norma precedente di determinate tipologie di reati, ma lasciandone la cernita a discrezione delle stesse istituzioni che hanno posto il segreto.
Una questione però dirompente, anche e soprattutto nell’ambiente di quei ricercatori storici che mai si sono arresi alle mezze verità istituzionali e che anzi lamentano grosse frizioni e resistenze al loro lavoro di indagine storica, è il cosiddetto segreto diffuso, ovvero quel fenomeno che interessa documenti, dati, relazioni che potrebbero essere molto utili per allargare il quadro d’insieme dell’evento, ma che non sono reperibili non per un divieto formale, ma poichè la loro esistenza viene negata e talvolta coperta.
Per spiegare meglio cosa sia un segreto diffuso, basti pensare al caso dell’”armadio della vergogna”, esemplare nel mostrare le coperture fra fascisti e istituzioni repubblicane.
Nel 1994 infatti fu rinvenuto in uno stanzino di un palazzo delle istituzioni giuridiche delle forze armate un armadio nel quale erano contenuti 700 fascicoli d’inchiesta e migliaia di notizie di reato relative a crimini di guerra compiuti nel trienno 1943-1945 (fra cui ad esempio l’eccidio delle Fosse Ardeatine e la strage di Marzabotto) dalle truppe d’invasione naziste e dai collaborazionisti fascisti della Repubblica Sociale Italiana, della quale l’MSI è sempre stato ritenuto erede politico.
La cosa vergognosa della faccenda è come quest’armadio sia riuscito a rimanere inosservato per mezzo secolo semplicemente in virtù del fatto che fù messo in un locale non frequentato e rivolto verso il muro per non attirare attenzioni.
Esistono nel panorama degli Organi istituzionali infatti un’infinità di Archivi che potrebbero contenere carte davvero importanti per riuscire ad aggiungere elementi alla ricostruzione storica.
Lo sbarramento più grande che le istituzioni pongono in questi casi è il divieto di accedervi e in definitiva la negazione al diritto alla conoscenza dell’esistere di questi atti.
Fra i principali archivi additati dagli storici come inarrivabili e potenzialmente molto utili vi sono:
L’archivio della Presidenza della Repubblica, nel quale sono per certo contenute numerose relazioni formali e informali dei servizi segreti al presidente, al quale però è stato recentemente negata alla Procura di Roma perfino la visione dell’elenco dei visitatori.
Gli archivi dei documenti NATO, coperti da un livello di segretezza perfino maggiore delle norme
nazionali e sicuramente non in buonafede considerato il ruolo giocato in operazioni reazionarie, golpiste e parafasciste come l’organizzazione “Stay behind” Gladio.
L’archivio dell’arma dei carabinieri, mai reso noto o pubblico in quanto diviso e diffuso in centinaia di luoghi fisici differenti, che potrebbe essere molto interessante considerato il fatto che agli atti processuali sono inseriti carteggi fra carabinieri e il SISMI (servizi segreti militari italiani).
La questione di fondo quindi non è permettere l’accesso a determinati documenti di cui già si conosce l’esistenza, ma piuttosto il far si che una platea sempre più ampia possa arrivare a questi archivi per capire, sfogliando nella loro mole, cosa può essere utile e cosa no, salvando dall’oblio pezzi di verità destinati altrimenti a rimanere nell’ombra.
Siamo comunque benissimo a conoscenza del fatto che difficilmente possa esistere un documento che provi responsabilità oggettive. Sappiamo infatti bene come queste siano cose di cui i responsabili e i mandanti non scriverebbero né avrebbero mai necessità di scrivere nulla di esplicito. In definitiva è molto difficile che nuove scoperte possano portare a sviluppi dal punto di vista del giudizio penale, eppure, e dopo 40 anni forse è la parte più importante, potrebbero essere svelate scoperte inerenti al giudizio Storico.
Giudizio che comunque per noi è e rimane chiaro: quando emergono prospettive di movimenti sociali incompatibili con la realtà delle istituzioni padronali, “le bombe nelle piazze e le bombe sui vagoni: le mettono i fascisti, le pagano i padroni”.

 

 

 

28 MAGGIO 2014 1974 – 2014

ORA E SEMPRE RESISTENZA

 NESSUNA M E M O R I A CONDIVISA!

Anche 40 anni dopo: nella memoria l’esempio, nella lotta la pratica.

 

CORTEO ANTIFASCISTA E ANTAGONISTA DI MOVIMENTO
ore 9.00 P.zza Garibaldi – Brescia

 

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