Memoria in conflitto: 28 Maggio, oltre la commemorazione
A quarant’anni dalla Strage fascista e di Stato di piazza della Loggia abbiamo deciso, senza pretese di sorta, di sperimentarci nella scrittura collettiva di quello che non vuole essere altro che un breve documento politico e informativo, non certo un lavoro di innovazione nell’inchiesta o nella ricerca storica. L’intenzione è quella di proporre in sintesi una lettura altra di quegli anni rispetto alla narrazione costruita e diffusa negli anni dai promotori delle commemorazioni ufficiali che, con la volontà di rendere la memoria un momento di pacificazione sociale, mistifica la storia rendendola un campo neutro e privandola del suo carattere conflittuale. La storia, pensiamo, in particolare quella degli anni Settanta italiani, non è mai terreno di conciliazione, ma teatro di un mondo in tensione. Riteniamo necessario riportare la memoria ad un esercizio critico che sia capace di mettere in discussione un’interpretazione, quella “ufficiale”, diventata verità assoluta grazie alla sua continua riproduzione e riproposizione. La stesura di questo “volantone” è stato un lavoro collettivo, a più mani. A ciò è riconducibile il cambio di stile di scrittura da un articolo all’altro.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE
UNA PIAZZA MAI PACIFICATA, UNA MEMORIA MAI CONDIVISA
Spesso quando si parla della strage di Piazza della Loggia si ricorre ad un patetico sentimentalismo ed una retorica dell’unità utile a costruire una interpretazione dei fatti, una memoria e una modalità di gestione condivise. Si delinearono, invece, fin da subito due modi diversi di interpretare la strage accaduta. Chi la vedeva come attentato alle “istituzioni democratiche “e chi invece considerava importanti apparati di stato (non meramente deviati) coinvolti in essa.
Questa spaccatura si palesò durante i funerali, svoltisi il 31 maggio: le più alte cariche dello stato presenti in piazza, tra cui il presidente della repubblica, il democristiano Giovanni Leone, furono accolte da risuonanti cori e fischi di contestazione che li accompagnarono per tutta la loro permanenza. Quando le riprese furono trasmesse in televisione, il rumore dei fischi non si udiva nemmeno in lontananza ma aveva lasciato posto ad un sottofondo di applausi scroscianti. Questa censura nei confronti dell’aspra contestazione mostrò un tentativo immediato di manipolare quanto accaduto.
Gli anniversari successivi mostrarono come la frattura in piazza si fosse fatta ancora più netta: dal ‘75 fino al ‘94 ci furono cortei studenteschi e dei gruppi extraparlamentari e autonomi che mettevano in discussione la presenza democristiana in piazza e a cui, gli organizzatori ufficiali, cercavano di negare l’ingresso. Oltre alle forti tensioni dei primi anni, ricordiamo i fischi e le monetine contro il presidente della repubblica Scalfaro nel ‘94 e soprattutto le feroci cariche poliziesche del 1991 contro il corteo del centro sociale autogestito di via Battaglie avvenute in corso Zanardelli. I manifestanti furono selvaggiamente attaccati perchè denunciavano, attraverso uno striscione, le responsabilità politiche di Cossiga, allora presidente della repubblica e ministro degli Interni nel ‘77, nell’ assassinio della compagna Giorgiana Masi e nelle strategie autoritarie (come la creazione dell’ organizzazione Gladio) e repressive dello stato ( leggi, squadre speciali contro i movimenti, carri armati a Bologna dopo l’omicidio di Lorusso).
La piazza continuò così ad essere uno spazio conteso. Vi è la piazza ufficiale che appoggia le istituzioni e di anniversario in anniversario rimarca questa posizione, arrivando ad usare l’assassinio di Moro nel 1978 come pretesto per trasformare il 28 maggio in una giornata in difesa delle istituzioni, dove l’unica cosa da fare è commemorare in modo silenzioso delle vittime ora mai private della loro identità politica per essere usate come simbolo di una lotta contro un terrorismo indistinto. Un’ operazione storico-politica che trova oggi ulteriore compimento nella realizzazione del percorso delle formelle voluto dalla Casa della Memoria di Brescia, dove fenomeni politici totalmente diversi ( stragismo di stato, terrorismo neofascista e lotta armata di sinistra) vengono accomunati.
Vi è poi la piazza che invece continua a vedere negli apparati di Stato i mandanti della strage di Piazza Loggia ma anche di tutti gli episodi di matrice fascista che imperversarono in quel decennio.
Ieri come oggi, al corteo studentesco e dei movimenti, è negato l’accesso alla piazza nel momento della commemorazione. La Questura di Brescia ripropone di anno in anno questo divieto, ma ogni anno si è sempre dimostrata grande la determinazione corteo antagonista nel rivendicare politicamente e materialmente il diritto di accesso alla piazza.
La questura, attraverso deviazioni di percorso e rallentamento del corteo, ha spesso cercato di far arrivare la manifestazione a commemorazione terminata, o quando alte cariche politiche o istituzionali se ne erano già andate.
Vergognoso è stato il comportamento delle forze dell’ordine il 28 maggio 2012, quando il corteo autorizzato è stato caricato in corso Matteotti (il questore poi si giustificò dicendo che il corteo aveva deviato il percorso), e caricato una seconda volta anche all’ingresso di Piazza della Loggia, prima che il corteo, con un moto di rabbia e voglia di partecipare attivamente, travolgesse il cordone della polizia e riuscisse ad entrare nella piazza.
Un corteo che viene ritenuto una presenza scomoda, poiché rivendica quella memoria che vede nello Stato il mandante della strage e che rifiuta lo spettacolo teatrale fatto di rituali messi in piedi dalle realtà promotrici del calendario delle commemorazioni ufficiali.
Perché il 28 maggio è e deve essere una giornata di resistenza e lotta viva!
IL PROCESSO
Non è facile ricostruire una verità giudiziaria sulla strage di Piazza della Loggia ma soprattutto riporre fiducia fiducia in tale verità: le responsabilità istituzionali, dei Servizi Segreti, della Democrazia Cristiana e di tanti attori della vita politica ed economica di questo Paese sono chiare ed affidare allo Stato, correo in tutto questo, il compito di punire i colpevoli appare, se non assurdo, comunque di difficile accettazione.
Addirittura l’ultima sentenza, quella della Cassazione, che chiede di annullare le assoluzioni, sottolinea l’”ipergarantismo distorsivo” nei confronti degli imputati, teso a “svilire” tutti gli indizi raccolti contro di loro, dimostrando ancora una volta che in Italia il concetto di Giustizia deve fare i conti con le esigenze di chi vuole nascondere la verità.
Gli iter giudiziari in merito a Piazza della Loggia sono riassumibili in 3 filoni di inchiesta: il primo riguarda una pista fondamentalmente bresciana con al centro piccoli delinquenti e giovani neofascisti della Brescia-bene(la quale fu fortemente voluta dal capitano dei Carabinieri Francesco Delfino per spostare l’attenzione delle indagini dalla più realistica pista degli ordinovisti veneti collegati agli apparati repressivi dello Stato). Il secondo segue un livello più ampio, che comprende ambienti neofascisti milanesi. Il terzo indaga sulla “cabina di regia”(il gruppo di Ordine Nuovo del Triveneto)che finisce per investire l’intero panorama eversivo degli anni ‘70. Queste le principali tappe:
2 giugno 1979 – I giudici della Corte d’assise di Brescia condannano all’ergastolo Ermanno Buzzi e a dieci anni Angelino Papa mentre assolvono gran parte delle 16 persone incriminate dal pm Francesco Trovato e dal giudice istruttore Domenico Vino o li condannano a pene inferiori ma per detenzione di esplosivi o per altri attentati.
18 aprile 1981 – Buzzi, personaggio in bilico tra criminalità comune e neofascismo, è strangolato dai ‘camerati’ Mario Tuti e Pierluigi Concutelli nel supercarcere di Novara. I due motivarono l’omicidio con il fatto che Buzzi fosse “pederasta” e confidente dei carabinieri, ma il sospetto è che temessero fosse intenzionato a fare dichiarazioni nell’imminente processo d’appello.
2 marzo 1982 – I giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia assolvono tutti gli imputati, compreso Angelino Papa; nelle motivazioni definiranno Buzzi “un cadavere da assolvere”.
30 novembre 1984 – La Cassazione annulla la sentenza di appello e dispone un nuovo processo per Nando Ferrari, Angelino e Raffaele Papa e Marco De Amici.
23 marzo 1984 – Il pm Michele Besson e il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi aprono la cosiddetta ‘inchiesta bis’. Imputati i neofascisti Cesare Ferri, il fotomodello Alessandro Stepanoff e Sergio Latini. La nuova pista è aperta dopo le dichiarazioni di alcuni pentiti tra cui Angelo Izzo.
20 aprile 1985 – La Corte d’assise d’appello di Venezia, davanti alla quale è celebrato il nuovo processo dim secondo grado, assolve tutti gli imputati del primo processo bresciano.
23 maggio 1987 – I giudici di Brescia assolvono per insufficienza di prove Ferri, Latini e Stepanoff. Ferri e Latini sono assolti anche dall’omicidio di Buzzi che, secondo i pentiti, avrebbero fatto uccidere perche non parlasse.
25 settembre 1987 – La Cassazione conferma la sentenza di assoluzione dei giudici della Corte d’appello di Venezia e pone fine alla prima inchiesta sulla strage.
10 marzo 1989 – La Corte d’assise d’appello di Brescia assolve, questa volta con formula piena, Ferri, Stepanoff e Latini.
13 novembre 1989 – La prima sezione della Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, conferma e rende definitive le assoluzioni di Ferri, Stepanoff e Latini. I primi due saranno anche risarciti per la carcerazione subita.
23 maggio 1993 – Il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi proscioglie gli ultimi imputati dell’inchiesta bis. Quello stesso anno sarebbe cominciata la terza inchiesta.
16 novembre 2010 – I giudici della Corte d’assise di Brescia assolvono tutti i cinque imputati, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti. L’assoluzione interviene in base all’articolo 530 comma 2 assimilabile alla vecchia insufficienza di prove. Revocata la misura cautelare nei confronti dell’ex ordinovista Delfo Zorzi che vive in Giappone.
14 aprile 2012 – La Corte d’appello di Brescia conferma la sentenza di primo grado mandando assolti i quattro imputati, Zorzi, Maggi, Tramonte e Delfino, per i quali era stato proposto ricorso dalla procura. Dai pm una dichiarazione che, dopo 38 anni, sembra una resa: “Abbiamo fatto tutto il possibile. È una vicenda che va affidata alla storia”.
20 febbraio 2014 – La vicenda approda in Cassazione, dopo il ricorso del pg di Brescia (per tutti, tranne che per Delfino). Il sostituto pg della Cassazione Vito D’Ambrosio chiede di annullare le assoluzioni disposte in secondo grado per Zorzi, Maggi e Tramonte e di celebrare nuovamente il processo. Carlo Maria Maggi, in particolare, sarebbe “l’esecutore e il mandante” della strage.
SEGRETI DI STATO E FUMO NEGLI OCCHI
Fra le ultime mosse politiche intraprese dai governi italiani per manipolare comprensione e analisi della nostra storia contemporanea, e dare una parvenza di interesse verso la ricerca storica, spicca per pretese e altisonanza l’annuncio di Renzi di de-secretare una gran quantità di atti e documenti riguardanti varie stragi di matrice mafiosa e/o fascista come, ad esempio, Piazza Loggia, Piazza Fontana, l’attentato alla stazione di Bologna e la strage di Peteano, tutte accomunate dal contesto cronologico e soprattutto politico.
Per prima cosa, e per dovere di cronaca, la prima discrepanza fra quello che sembra un annuncio in buona fede e la realtà dei fatti è che contrariamente a quanto è stato detto e ripreso dai mass-media dediti alla pacificazione sociale, non è avvenuta ne avverrà alcuna de-segretazione.
Ciò che infatti è stato proposto è la semplice declassificazione di atti e documenti di per se già disponibili su richiesta alle autorità giudiziarie e in molti casi addirittura già acquisiti ai numerosi fascicoli processuali.
Possiamo quindi affermare che ciò che viene spacciato per una rivoluzione epocale sia in realtà solo un piccolo passo di trasparenza in grado di rendere un poco più accessibili a chi ne faccia richiesta atti e documenti comunque già noti ed evidentemente (non si spiegherebbero altrimenti gli esiti fumosi dei processi) di scarsa rilevanza incriminatoria.
Bisogna quindi riuscire a distinguere quella che può apparire come una scelta fondamentalmente giusta e inattaccabile dalla sua reale efficacia.
Un punto fondamentale da comprendere quando si parla di eventi storici in cui si incrociano neofascismi, microcriminalità e regia statale in chiave di strategia della tensione è riuscire a distinguere la differenza fra segreti DI stato e segreti DELLO stato.
Da un punto di vista formale, infatti, lo stato ha sempre provato a fare buon viso a cattivo gioco, e
nonostante gli acclamati e provati tentativi di depistaggio effettuati da organi istituzionali, la legge ha sempre negato l’esistenza di alcun tipo di segreto di stato su questi fatti.
Nominalmente, infatti, il segreto di stato per il reato di strage è stato abolito nel lontano 1977, mentre la legge 124/2007, sancisce come “in nessun caso possano essere oggetto di segreto notizie o documenti relativi a fatti di terrorismo o eversivi”.
Questa seconda legge, nota come riforma dei servizi segreti, è stata però di fatto svuotata di significato da altri organi dello stato, infatti ad oggi non sono stati ancora volontariamente emessi i necessari decreti attuativi e di interpretazione della norma, che l’avrebbero resa operativa, mentre la Corte di Cassazione ha deliberato che è compito del parlamento stabilire quali siano “atti, documenti e notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e devono rimanere segreti”, svuotando quindi di significato l’esclusione a priori della norma precedente di determinate tipologie di reati, ma lasciandone la cernita a discrezione delle stesse istituzioni che hanno posto il segreto.
Una questione però dirompente, anche e soprattutto nell’ambiente di quei ricercatori storici che mai si sono arresi alle mezze verità istituzionali e che anzi lamentano grosse frizioni e resistenze al loro lavoro di indagine storica, è il cosiddetto segreto diffuso, ovvero quel fenomeno che interessa documenti, dati, relazioni che potrebbero essere molto utili per allargare il quadro d’insieme dell’evento, ma che non sono reperibili non per un divieto formale, ma poichè la loro esistenza viene negata e talvolta coperta.
Per spiegare meglio cosa sia un segreto diffuso, basti pensare al caso dell’”armadio della vergogna”, esemplare nel mostrare le coperture fra fascisti e istituzioni repubblicane.
Nel 1994 infatti fu rinvenuto in uno stanzino di un palazzo delle istituzioni giuridiche delle forze armate un armadio nel quale erano contenuti 700 fascicoli d’inchiesta e migliaia di notizie di reato relative a crimini di guerra compiuti nel trienno 1943-1945 (fra cui ad esempio l’eccidio delle Fosse Ardeatine e la strage di Marzabotto) dalle truppe d’invasione naziste e dai collaborazionisti fascisti della Repubblica Sociale Italiana, della quale l’MSI è sempre stato ritenuto erede politico.
La cosa vergognosa della faccenda è come quest’armadio sia riuscito a rimanere inosservato per mezzo secolo semplicemente in virtù del fatto che fù messo in un locale non frequentato e rivolto verso il muro per non attirare attenzioni.
Esistono nel panorama degli Organi istituzionali infatti un’infinità di Archivi che potrebbero contenere carte davvero importanti per riuscire ad aggiungere elementi alla ricostruzione storica.
Lo sbarramento più grande che le istituzioni pongono in questi casi è il divieto di accedervi e in definitiva la negazione al diritto alla conoscenza dell’esistere di questi atti.
Fra i principali archivi additati dagli storici come inarrivabili e potenzialmente molto utili vi sono:
L’archivio della Presidenza della Repubblica, nel quale sono per certo contenute numerose relazioni formali e informali dei servizi segreti al presidente, al quale però è stato recentemente negata alla Procura di Roma perfino la visione dell’elenco dei visitatori.
Gli archivi dei documenti NATO, coperti da un livello di segretezza perfino maggiore delle norme
nazionali e sicuramente non in buonafede considerato il ruolo giocato in operazioni reazionarie, golpiste e parafasciste come l’organizzazione “Stay behind” Gladio.
L’archivio dell’arma dei carabinieri, mai reso noto o pubblico in quanto diviso e diffuso in centinaia di luoghi fisici differenti, che potrebbe essere molto interessante considerato il fatto che agli atti processuali sono inseriti carteggi fra carabinieri e il SISMI (servizi segreti militari italiani).
La questione di fondo quindi non è permettere l’accesso a determinati documenti di cui già si conosce l’esistenza, ma piuttosto il far si che una platea sempre più ampia possa arrivare a questi archivi per capire, sfogliando nella loro mole, cosa può essere utile e cosa no, salvando dall’oblio pezzi di verità destinati altrimenti a rimanere nell’ombra.
Siamo comunque benissimo a conoscenza del fatto che difficilmente possa esistere un documento che provi responsabilità oggettive. Sappiamo infatti bene come queste siano cose di cui i responsabili e i mandanti non scriverebbero né avrebbero mai necessità di scrivere nulla di esplicito. In definitiva è molto difficile che nuove scoperte possano portare a sviluppi dal punto di vista del giudizio penale, eppure, e dopo 40 anni forse è la parte più importante, potrebbero essere svelate scoperte inerenti al giudizio Storico.
Giudizio che comunque per noi è e rimane chiaro: quando emergono prospettive di movimenti sociali incompatibili con la realtà delle istituzioni padronali, “le bombe nelle piazze e le bombe sui vagoni: le mettono i fascisti, le pagano i padroni”.
SEGRETI DI STATO E FUMO NEGLI OCCHI
Fra le ultime mosse politiche intraprese dai governi italiani per manipolare comprensione e analisi della nostra storia contemporanea, e dare una parvenza di interesse verso la ricerca storica, spicca per pretese e altisonanza l’annuncio di Renzi di de-secretare una gran quantità di atti e documenti riguardanti varie stragi di matrice mafiosa e/o fascista come, ad esempio, Piazza Loggia, Piazza Fontana, l’attentato alla stazione di Bologna e la strage di Peteano, tutte accomunate dal contesto cronologico e soprattutto politico.
Per prima cosa, e per dovere di cronaca, la prima discrepanza fra quello che sembra un annuncio in buona fede e la realtà dei fatti è che contrariamente a quanto è stato detto e ripreso dai mass-media dediti alla pacificazione sociale, non è avvenuta ne avverrà alcuna de-segretazione.
Ciò che infatti è stato proposto è la semplice declassificazione di atti e documenti di per se già disponibili su richiesta alle autorità giudiziarie e in molti casi addirittura già acquisiti ai numerosi fascicoli processuali.
Possiamo quindi affermare che ciò che viene spacciato per una rivoluzione epocale sia in realtà solo un piccolo passo di trasparenza in grado di rendere un poco più accessibili a chi ne faccia richiesta atti e documenti comunque già noti ed evidentemente (non si spiegherebbero altrimenti gli esiti fumosi dei processi) di scarsa rilevanza incriminatoria.
Bisogna quindi riuscire a distinguere quella che può apparire come una scelta fondamentalmente giusta e inattaccabile dalla sua reale efficacia.
Un punto fondamentale da comprendere quando si parla di eventi storici in cui si incrociano neofascismi, microcriminalità e regia statale in chiave di strategia della tensione è riuscire a distinguere la differenza fra segreti DI stato e segreti DELLO stato.
Da un punto di vista formale, infatti, lo stato ha sempre provato a fare buon viso a cattivo gioco, e
nonostante gli acclamati e provati tentativi di depistaggio effettuati da organi istituzionali, la legge ha sempre negato l’esistenza di alcun tipo di segreto di stato su questi fatti.
Nominalmente, infatti, il segreto di stato per il reato di strage è stato abolito nel lontano 1977, mentre la legge 124/2007, sancisce come “in nessun caso possano essere oggetto di segreto notizie o documenti relativi a fatti di terrorismo o eversivi”.
Questa seconda legge, nota come riforma dei servizi segreti, è stata però di fatto svuotata di significato da altri organi dello stato, infatti ad oggi non sono stati ancora volontariamente emessi i necessari decreti attuativi e di interpretazione della norma, che l’avrebbero resa operativa, mentre la Corte di Cassazione ha deliberato che è compito del parlamento stabilire quali siano “atti, documenti e notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e devono rimanere segreti”, svuotando quindi di significato l’esclusione a priori della norma precedente di determinate tipologie di reati, ma lasciandone la cernita a discrezione delle stesse istituzioni che hanno posto il segreto.
Una questione però dirompente, anche e soprattutto nell’ambiente di quei ricercatori storici che mai si sono arresi alle mezze verità istituzionali e che anzi lamentano grosse frizioni e resistenze al loro lavoro di indagine storica, è il cosiddetto segreto diffuso, ovvero quel fenomeno che interessa documenti, dati, relazioni che potrebbero essere molto utili per allargare il quadro d’insieme dell’evento, ma che non sono reperibili non per un divieto formale, ma poichè la loro esistenza viene negata e talvolta coperta.
Per spiegare meglio cosa sia un segreto diffuso, basti pensare al caso dell’”armadio della vergogna”, esemplare nel mostrare le coperture fra fascisti e istituzioni repubblicane.
Nel 1994 infatti fu rinvenuto in uno stanzino di un palazzo delle istituzioni giuridiche delle forze armate un armadio nel quale erano contenuti 700 fascicoli d’inchiesta e migliaia di notizie di reato relative a crimini di guerra compiuti nel trienno 1943-1945 (fra cui ad esempio l’eccidio delle Fosse Ardeatine e la strage di Marzabotto) dalle truppe d’invasione naziste e dai collaborazionisti fascisti della Repubblica Sociale Italiana, della quale l’MSI è sempre stato ritenuto erede politico.
La cosa vergognosa della faccenda è come quest’armadio sia riuscito a rimanere inosservato per mezzo secolo semplicemente in virtù del fatto che fù messo in un locale non frequentato e rivolto verso il muro per non attirare attenzioni.
Esistono nel panorama degli Organi istituzionali infatti un’infinità di Archivi che potrebbero contenere carte davvero importanti per riuscire ad aggiungere elementi alla ricostruzione storica.
Lo sbarramento più grande che le istituzioni pongono in questi casi è il divieto di accedervi e in definitiva la negazione al diritto alla conoscenza dell’esistere di questi atti.
Fra i principali archivi additati dagli storici come inarrivabili e potenzialmente molto utili vi sono:
L’archivio della Presidenza della Repubblica, nel quale sono per certo contenute numerose relazioni formali e informali dei servizi segreti al presidente, al quale però è stato recentemente negata alla Procura di Roma perfino la visione dell’elenco dei visitatori.
Gli archivi dei documenti NATO, coperti da un livello di segretezza perfino maggiore delle norme
nazionali e sicuramente non in buonafede considerato il ruolo giocato in operazioni reazionarie, golpiste e parafasciste come l’organizzazione “Stay behind” Gladio.
L’archivio dell’arma dei carabinieri, mai reso noto o pubblico in quanto diviso e diffuso in centinaia di luoghi fisici differenti, che potrebbe essere molto interessante considerato il fatto che agli atti processuali sono inseriti carteggi fra carabinieri e il SISMI (servizi segreti militari italiani).
La questione di fondo quindi non è permettere l’accesso a determinati documenti di cui già si conosce l’esistenza, ma piuttosto il far si che una platea sempre più ampia possa arrivare a questi archivi per capire, sfogliando nella loro mole, cosa può essere utile e cosa no, salvando dall’oblio pezzi di verità destinati altrimenti a rimanere nell’ombra.
Siamo comunque benissimo a conoscenza del fatto che difficilmente possa esistere un documento che provi responsabilità oggettive. Sappiamo infatti bene come queste siano cose di cui i responsabili e i mandanti non scriverebbero né avrebbero mai necessità di scrivere nulla di esplicito. In definitiva è molto difficile che nuove scoperte possano portare a sviluppi dal punto di vista del giudizio penale, eppure, e dopo 40 anni forse è la parte più importante, potrebbero essere svelate scoperte inerenti al giudizio Storico.
Giudizio che comunque per noi è e rimane chiaro: quando emergono prospettive di movimenti sociali incompatibili con la realtà delle istituzioni padronali, “le bombe nelle piazze e le bombe sui vagoni: le mettono i fascisti, le pagano i padroni”.
NESSUNA M E M O R I A CONDIVISA!
Anche 40 anni dopo: nella memoria l’esempio, nella lotta la pratica.
Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.