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Migranti, Turchia e UE: il Bataclan è già lontano…

Mentre si bombarda Raqqa per “vendicare” le vittime di Parigi, si chiede alla Turchia di impedire alle vittime degli islamisti a Raqqa (o a Mosul, o a Singal) di mettersi in salvo dalle persecuzioni dello stesso Is (o da eventuali “danni collaterali” dei bombardamenti…). Le vittime europee vanno vendicate, sia pur con operazioni aeree che molto sanno di propaganda, mentre quelle orientali vanno chiuse entro i confini dei propri massacri o della propria oppressione. Già, perché l’eventuale “chiusura dei rubinetti” delle migrazioni, da parte della Turchia, non coinciderà certo con la disponibilità turca a tenere milioni di profughi entro i suoi confini, ma sarà la probabile premessa per un giro di vite anche rispetto agli ingressi in Turchia (dove la popolazione, come in Europa, non fa certo i salti di gioia rispetto all’arrivo di milioni di richiedenti asilo).

La Turchia approfitta così di una posizione di forza quasi senza precedenti rispetto all’Europa, proprio nel momento in cui le sue politiche la portano più lontano da interessi strategici e di equilibrio globale dell’Occidente. Eppure, oltre ad essere sempre il tempo della real politik (che in questo caso non è un’intonazione dell’analisi materialistica, ma un dispositivo di oppressione delle persone in nome di una realtà totalmente allestita e costruita dal potere – vedi le guerre e gli stessi confini) è anche il tempo in cui una serie di contraddizioni del capitalismo globale trovano in medio oriente – via Parigi e Bruxelles –  patente ed evidente espressione.

 

Il carisma del Sultanato

 

Un primo elemento è dato dalla crisi turco-russa che, benché meno grave di quanto venga presentata sul pianodell’incidente specifico, ha a che fare con i rapporti di lungo periodo maturati sul campo. Da un lato l’asse guidato dall’Iran, sostenuto da Russia e Cina in funzione anti-Usa; dall’altro la composita alleanza “sunnita” guidata da Arabia Saudita e Qatar ma in cui la Turchia tende a esercitare un ruolo sempre più centrale. Ciò che differenzia le monarchie arabiche dal neo-sultanato di Erdogan, infatti, è l’appeal politico che, sul piano dell’immaginario, il presidente turco esercita sulle masse tanto del medio oriente quanto del Maghreb (si pensi alle “repliche” che l’Akp ha prodotto in Tunisia e Marocco dopo le rivolte del 2011, all’armamento turco di Ansar al Sharia in Libia, alla vicinanza con i Fratelli Musulmani egiziani (e palestinesi) che, pur combattuti in diversa forma da Egitto e Israele, mantengono se non accrescono la loro popolarità, soprattutto nel caso egiziano: ciò che li mantiene vivi e vegeti, pur stipando le celle delle prigioni, e li candida a rabbiosi protagonisti futuri…).

Con questo si viene al ruolo cosiddetto “ambiguo”, e in realtà coerente, che la Turchia gioca nei confronti dello Stato Islamico. Occorre tenere presente che nelle aspirazioni di rinnovamento e insurrezione che covano nelle masse arabe sunnite dell’antico Impero Ottomano, dopo la repressione delle “primavera arabe” da parte di eserciti al soldo del Fondo Monetario Internazionale, l’instaurazione di istituzioni che abbiano la umma, la comunità dei credenti, come base di cittadinanza, e la sharia, la legge coranica, come base del diritto trova a dir poco spazio nell’immaginario popolare di chi rifiuta, sia pur in modo intimamente reazionario, l’attuale stato di cose. Spesso ci dimentichiamo come, da Bonaparte a Hitler e fino a Bin Laden o alla Le Pen, le origini della legittimazione reazionaria dei leader covi nelle stesse cause sociali che “dovrebbero” produrre una rivoluzione; e tendiamo a dimenticare questa potente e profonda dimensione soggettiva che è all’opera nell’evoluzione contemporanea del nord Africa e del medio oriente, quasi che tutto fosse prodotto dalle attuali istituzioni regionali o, ancor peggio, da mai ben spiegati “complotti” di Stati Uniti e occidente.

Per milioni di musulmani sunniti, molti turchi compresi, i Mujaheddin sono persone migliori degli altri che vanno ammirate e rispettate per il sacrificio che offrono a tutta la comunità, riscattandola dal peccato dovuto alla sua decennale inazione. Questa visione religiosa altro non è che la trasfigurazione di un mai sopito desiderio anti-coloniale rispetto all’America e all’Europa, ai loro interessi e ai loro costumi. In questa visione lo Stato Islamico è un’avanguardia di ciò che i media occidentali descrivono semplicisticamente come “islam moderato”. La distruzione dei confini imposti da Francia e Inghilterra dopo la prima guerra mondiale, che frammentarono il mondo islamico sunnita, prima in gran parte unito sotto l’Impero Ottomano, è praticata dall’Is aprendo brecce potentissime nei desideri e nell’immaginario post-coloniale di milioni di arabi e turchi. È infatti, sia pur con sfumature diverse (ma sono sfumature), di questo immaginario neo-Ottomano che si nutre l’Akp, saldamente al potere da tredici anni in Turchia.

 

Erdogan e Al Baghdadi

 

Erdogan è giunto ieri a Bruxelles ben sapendo di essere una figura di riferimento non soltanto per la metà della popolazione di Turchia (sostanzialmente la fetta non alevita e non curda, turca e sunnita, della popolazione), ma per gran parte dell’”opinione pubblica” musulmana nel mondo (non diversamente, nella sostanza, da Al Baghdadi, benché con mezzi diversi nella percezione spettacolare). Il rapporto tra Erdogan e al Baghdadi è infatti, in prospettiva, di fraterna competizione politica in quella enorme massa di musulmani che vedono nell’Arabia Saudita uno stato soltanto formalmente islamico, corrotto e privo delle credenziali morali per condurre la lotta contro l’influenza occidentale e l’asse sciita guidato dall’Iran (che, non dimentichiamolo, è a sua volta uno stato, una repubblica islamica). Chi oggi nega un rapporto tra questo islam militante e l’islam come fenomeno storico-religioso, non sa di cosa parla o mente sapendo di mentire (anche quando lo fa con le migliori “intenzioni” politiche). Oggi la religione musulmana è, per moltissimi, un funesto e malinteso viatico di riscatto, in oriente come nelle periferie occidentali, la cui influenza storica andrebbe analizzata e combattuta anziché rimossa.

Per queste ragioni Erdogan sa di essere un problema per l’Europa, in prospettiva, perché interesse di Usa e Ue è condurre i propri interessi (il più possibile per interposta persona) nella grande regione orientale attraverso alleati possibilmente più affidabili perché meno inclini a volare sull’onda dell’odio e di un desiderio trasfigurato e spettacolare di riscossa. Una Turchia il cui ingresso nell’Ue fu parte di un piano tanto comprensibile quanto astratto, ma che si scontra oggi con istituzioni turche elette in base a un istinto popolare che guarda a oriente molto più che a occidente (da cui le scarse soddisfazioni che Davutoglu ha avuto, in realtà, ieri a Bruxelles su questo punto).

All’Europa e agli Usa servono stati le cui istituzioni siano politicamente abbastanza “distaccate” da forme di “populismo islamico”, ossia dagli umori soggettivi delle masse dei propri paesi, da essere stabili, affidabili e controllabili. All’interno dell’asse sunnita e anti-iraniano l’Arabia Saudita ha sempre rappresentato l’alleato ideale da questo punto di vista. La spinta soggettiva ribelle che infiamma Africa settentrionale e Asia occidentale almeno a partire dall’invasione afghana-irachena e dalle primavere arabe, tuttavia, mina enormemente la forza politica e di leadership (in crisi già almeno dagli anni Settanta) di questo alleato, a favore di forze in grado di rappresentare la rabbia, un’identità antagonistica e il cambiamento: l’islamismo-Erdoganismo, movimenti e partiti vicini alla Fratellanza Musulmana e, naturalmente, lo Stato Islamico (in Siria come in Iraq, in Libia come nel Sahel).

La funzione storico-politica dell’Akp di Erdogan e Davutoglu è quindi ben lungi dall’essere compresa, almeno dai molti che si dicono convinti che le preoccupazioni dell’Europa siano “i diritti umani in Turchia” o, come ha detto l’Italia attraverso Renzi e Mogherini, “i curdi”. La Germania sa qual è il reale problema con il movimentista, eclettico, infido e “apprendista stregone” Erdogan, tant’è che ha tentato di accompagnare, all’accordo circa i finanziamenti alla Turchia, un accordo europeo sulle “quote” dei migranti: un modo per provare a immaginare un futuro di governance interna all’Ue, economica e politica, dei flussi, anziché continuare a scavare un vuoto di visione nell’Unione che consegnerebbe sempre più a Erdogan (e magari a una Libia iper-islamizzata) un ruolo ricattatorio che le borghesie europee non vorrebbero, se possibile, concedere. Tentativo fallito, a causa di contraddizioni interne alla politica europea (complice un’opinione pubblica che si è radicalizzata a destra in questi anni) che ne sottolineano ancora una volta l’enorme debolezza sullo scenario strategico internazionale.

 

Al Baghdadi vs Ocalan

 

In questo quadro, quale e quanta importanza ha la guerra di Erdogan contro i curdi, compreso l’assassinio di Tahir Elci e gli arresti di giornalisti degli ultimi giorni, oltre ai continui coprifuoco che fanno ogni mese una marea di morti? Qualche importanza ce l’ha, perché Ypg (e, anche se non si può dire, il Pkk: motore primario dell’intero movimento curdo, tanto più in vista della sua sempre più importante presenza in Iraq, che arriva addirittura a sfidare il ruolo di Barzani tra Singal e Suleimanya) è un alleato militare in Siria. Eppure, nel contesto generale il movimento curdo appare tremendamente isolato, al punto da essere a malapena blandito da potenze occidentali che interpretano i combattimenti delle compagne e dei compagni come rimarchevoli “servigi” resi alla comunità internazionale contro lo Stato Islamico, senza contropartita possibile.

Un contributo militante che è peraltro necessario, mediaticamente, sminuire e censurare, perché nasconde – esattamente come il richiamo alla umma di forze come l’Is – un elemento di soggettivazione ricompositiva potenzialmente potente per un numero inferiore ma pur sempre impressionante di persone che tra Istanbul e Kobane, fino a Urmia lambendo Suleimaniya e Singal, non accettano più la legittimità né dei confini statuali, né delle dinamiche economico-petrolifere di marca neo-coloniale ereditate dal Novecento. La modernità di Ocalan è, come quella di Al Baghdadi ai suoi estremi antipodi, in questo; ma l’influenza del suo carisma resta confinata su un piano disegnato da faglie storico-linguistiche, e identitarie, difficili da superare in un contesto così travagliato (si vedano le profonde incomprensioni tra sinistra curda e sinistra palestinese, le cui ragioni sono peraltro molto complesse).

Il progetto di trasformazione sociale e convivenza pacifica proclamato dalle Forze Democratiche Siriane (creazione politico-militare delle Ypg con un allargamento a effettivi cristiani, arabi musulmani, assiri, circassi, ecc.) può avere un’attrattiva, almeno in prospettiva, sulle forze sociali e politiche più avanzate di un quadro medio orientale dove le forze tradizionali della sinistra nazionalista sono decimate, non di rado screditate e allo sbando. Meglio allora, per l’Ue, mantenere questo utile/potenzialmente scomodo alleato in un profondo isolamento politico-culturale preventivo, pena l’attivazione di pericolosi fantasmi all’atto di continuare la necessaria farsa dell’uccisione del mostro. Così si spiega la perdurante, intenzionale censura mediatica della sanguinosa rivoluzione curda in Turchia. Anche in questo il tutt’altro che ’”ambiguo” Erdogan è utile; e l’Europa – siamo certi che i curdi lo ricordano benissimo – resta ancora e comunque l’Europa di sempre.

Nella stretta di mano di Bruxelles questo e molto altro è in gioco. Sono in gioco le istanze, i desideri, i sogni e gli incubi di milioni di persone che fuggono dalla violenza o tramano nuove violenze per fuggire dalla penetrazione dell’estraneo (qui è il migrante, laggiù è l’Occidente) nella propria patria (che ormai raramente significa “nazione”): qualunque sia questa patria, nella loro immaginazione. Anche quest’ultima stretta di mano ci ricorda che finché la “geopolitica” è scienza dell’oggetto è sempre scienza di governo, confondendosi ambiguamente con la real politik. Soltanto quando si rende conto di essere analisi della trasfigurazione oggettiva dei soggetti – e non il contrario! – questa attitudine al realismo nello studio delle dinamiche globali recupera un valore per noi (e per i compagni di ogni dove che lottano e combattono) affermandosi come lettura di parte, lettura per la trasformazione, contributo a comprendere le forme odierne dell’insubordinazione globale.

 

 

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