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Gela: vita, lavoro e lotta per un ecomostro

Come a Taranto? Come a Termini Imerese?

Forse nessuna delle due o forse un po’ di entrambe. In barba ad ogni teoria sul “capitalismo arretrato” in Sicilia ecco che, forse, la vicenda Eni-Gela diventa la migliore negazione possibile di ogni visione arcaizzante il ruolo del capitale nei nostri territori.

Ci risiamo, insomma; gli ingredienti sono più o meno quelli già utilizzati per somministrare qualche compressa di lotta di classe condotta (quasi) esclusivamente dall’alto a danno di operai, famiglie, comunità: il ricatto “lavoro o salute”, lo sfruttamento dei territori, anacronismi di modelli di sviluppo e inadeguatezza capitalista del sistema produttivo italiano; ma anche schizofrenia d’investimento, inquinamento, corruzione, propaganda politica e la fine della concertazione sindacale.

Un po’ Taranto, un po’ Termini Imerese, ok. C’è una novità nel nostro ricettario però: stavolta lo Stato non è mediatore; non è accusatore e neanche elargitore di “aiutini”: lo Stato è azionista, imprenditore che controlla la nomina dei dirigenti del consiglio di amministrazione e possiede, tra Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti, circa il 30% delle quote di capitale. E’ il pubblico che si fa privato non solo perché ne favorisce gli interessi ma in quanto persegue direttamente fini di guadagno sulle spalle dei lavoratori – che poi sono anche i “suoi” cittadini.

Dunque pare che ancora una volta ci ritroveremo di fronte l’ennesima minaccia di macelleria sociale: tra dipendenti diretti e indotto, tra chimici e metalmeccanici, parliamo di circa tremila persone; ma parliamo anche di un comprensorio che vive attraverso quel tessuto sociale operaio e quel reddito, di comunità legate a doppio-filo a determinati cicli produttivi e anche di istituzioni pubbliche che di donazioni, finanziamenti, opere compensative e opere “caritatevoli” da parte delle multinazionali vivono per garantirsi ancora una quota di “autonomia” politica.

In Sicilia, fatti del genere, si sommano perché segno dei tempi. Tempi bui in cui pubblico e privato si sintetizzano in forme di volta in volta sperimentali e cangianti; tempi bui perchè difficili da contrastare si rivelano progetti simili di smantellamento e fuga del pubblico dagli oneri e dalle responsabilità sociali cui una volta era comunque legato. Negli ultimi anni questi piani – così anche quest’ultimo riguardante la raffinazione di Eni che, sia chiaro, è nazionale e riguarada anche poli come quelli di Priolo, Porto Marghera, Taranto – sono opera di istituzioni pubbliche a tinte bianco-verdi-democristiane del Partito Democratico, migliore soggetto possibile per dare continuità ai processi di privatizzazione, precarizzazione e devastazione dei territori che si ripetono a livello nazionale, con conseguenze particolarmente disastrose in Sicilia. Ci soffermeremo maggiormanete su Gela perchè polo petrolchimico più vasto tra quelli coinvolti nel piano; perchè i suoi operai sono già da giorni in “mobilitazione”; ed anche perchè è proprio nella zona di Caltanissetta che il binomio Niscemi-Gela riassume quanto continua ad avvenire nell’isola: dalla vicenda del Muos a Niscemi, con l’ormai celebre “revoca della revoca” di Rosario Crocetta (Presidente della Regione Siciliana nonché esponente di spicco del PD), che ha portato nell’entroterra siciliano le antenne ad uso militare della Marina militare americana, come nella questione-petrolchimico si misura il livello di sfruttamento del territorio dell’Isola.

Il piano del nuovo amministratore delegato di Eni, voluto personalmente da Renzi, prevede quindi la riconversione di quattro grossi centri del territorio nazionale di trattamento del greggio in siti di deposito e stoccaggio. Secondo la dirigenza della società infatti questi siti vanno chiusi perché poco convenienti: la raffinazione va concentrata in un suolo luogo mentre negli altri si continuerà con estrazione e deposito del greggio pronto a partire verso Genova dove poi verrà trasportato fino in Veneto (unico altro piccolo centro di raffinazione sarà Milazzo, sempre in Sicilia). Il piano è stato presentato poche settimane fa non suscitando però chissà quali reazioni di eco nazionale in quanto, come fatto negli ultimi anni, i sindacati preferiscono separare le vicende e trattare sito per sito con l’amministrazione di Eni e con lo Stato. A Gela però il caso è subito scoppiato per vari motivi: all’estensione che diremmo “sociale” oltre che fisica dello stabilimento vanno aggiunti i protagonismi di Crocetta, più volte sindaco della cittadina siciliana e che dunque esercita ancora grande influenza in zona, ma soprattutto la firma recente (un anno fa) di accordi con Eni che prevedevano tutt’altro che la chiusura: investimenti per settecento milioni di euro, riconversione dello stabilimento per il trattamento dei gasoli e avvio di alcuni lavori di bonifica ambientale. Proprio questo accordo è la leva su cui provano a trattare le sigle sindacali, ed è anche il motivo per cui queste si sono trovate d’accordo nella scelta di seprare le vertenze stabilimento per stabilimento. Ma, infine, è anche quello su cui sta puntando politicamente Crocetta che, tra minacce di chiusura dei pozzi petroliferi e promesse di richiesta di risarcimenti miliardari nel caso in cui Eni confermasse il suo piano, gode ancora a Gela di grossi consensi e di fiducia da parte di cittadini ed operai.

Così da una decina di giorni sono partiti agli ingressi dello stabilimento i blocchi e i presidi. Gli operai stanno attualmente bloccando quattro degli ingressi per impedire eventuali uscite di prodotti finiti o i cambi di turno (assicurano l’ingresso solo a chi è impiegato in settori di “sicurezza” dell’impianto) ma soprattutto presidiano il molo del porticciolo da cui partono le barche di servizio per il riempimento delle petroliere che dovrebbero portare via il greggio. L’azienda non sta in questo momento intervenendo; del resto due di tre linee dello stabilimento sono ferme da mesi a causa di un recente incendio (quindi lavorazioni pressocchè ferme) mentre i serbatoi per il deposito temporaneo del greggio non sono ancora pieni. Le petroliere restano dunque a largo: ma per quanti giorni ancora? Non ci sono informazioni che aiutino a capire quanto ancora l’azienda potrà sopportare questi blocchi senza troppi danni economici anche se tra gli operai è giustamente diffusa la convinzione che se questi giorni sono stati in qualche modo “tollerati”, allorquando dovesse incombere il rischio reale di non riuscire ad “uscire” il greggio neanche quando sarà davvero necessario ad Eni, non si possono affatto escludere atti di forza.

Intanto però, tra i lavoratori (anche se non proprio tra tutti) ci si continua a ripetere che si proseguirà così ancora settimane e proprio oggi, 15 luglio, la notizia del licenziamento di 15 operai dell’indotto e quella del rinvio di un tavolo tra istituzioni e parti sociali che si sarebbe dovuto tenere a Roma venerdì 18 ha portato all’intensificazione dei picchetti e al blocco totale dei cambi turno. Proprio la data di venerdì, con il tavolo a cui sarebbe stato presente anche Crocetta, era vista fino ad oggi come una tappa importante sia dal punto di vista dei blocchi e dei picchetti sia dal punto di vista delle risposte in merito alla vertenza.

Cosa portare a quel tavolo? Le richieste dei sindacati si concentrano esclusivamente sul rispetto degli accordi dell’anno scorso; ma tra i lavoratori presenti ai presidi c’è anche chi guarda un po’ oltre; diciamo ad un eventuale piano B…

Salute, territorio e lavoro: la storia di Gela che si ripete tra tragedia e farsa

“ho lavorato per un po’ di tempo al controllo sul rispetto degli standard ambientali; controllavo per un’azienda dell’indotto le falde acquifere della zona – ci dice un lavoratore ad uno dei presidi fuori la raffineria – e devo dirvi che persino a diciotto metri di profondità non c’erano tracce di greggio nell’acqua: c’erano tracce d’acqua in mezzo al greggio!”.

Che tutta l’area del gelese sia tra le zone più inquinate di Sicilia lo sanno più o meno tutti. Ma non tutti sono concordi sul fatto che la raffineria dell’Eni sia tra i responsabili maggiori di una simile devastazione di un pezzo di Sicilia potenzialmente tra i più belli. Alcune voci sindacali per esempio sottolineano come la raffineria in questione si sia sempre mantenuta entro gli standard ambientali stabiliti dalla legge; e molti si aggrappano proprio alla questione ambientale proprio per evidenziare come, all’interno dell’accordo per il rilancio dello stabilimento, tra i settecento milioni promessi un anno fa una parte fosse dedicata proprio al miglioramento dei processi più altamente inquinanti. D’altro canto, tutti i lavoratori sanno bene (meglio di noi) di avere fatto negli anni una scelta precisa: “lavoriamo all’Eni pur sapendo che in questa come in altre zone si sta inquinando!”

Eppure continua a non essere questo il tema centrale di dibattito nei presidi di lotta. Il “tradimento” della dirigenza Eni e di pezzi di Politica non è tanto incarnato nelle scelte di un’azienda che per mezzo secolo devasta un territorio a fini speculativi e poi abbandona il campo senza colpoferire; questo è dato quasi esclusivamente dal vedersi negato un posto di lavoro (e quindi un accesso al reddito) che fino a pochi anni fa era dato praticamente per scontato, intoccabile. Quello all’Eni era, per i gelesi e gli abitanti delle cittadine limitrofe, un posto sicuro, per la vita.

Ma aldilà dei motivi soggettivi che hanno spinto i gelesi (come tantissime altre comunità sparse soprattutto nei Sud d’Italia) ad accettare una così pesante contropartita al bisogno di lavoro-salario, la questione ancora una volta si ripropone in tutta la tragicità già vista, discussa, dibattuta di recente per esempio sull’Ilva di Taranto; siamo insomma di fronte all’ennesimo bivio – meno incalzante e diretto del caso tarantino, ma che fa comunque da sfondo alla vicenda – tra salute/ambiente da un lato e lavoro/salario dall’altro. Ambiente a tutti i costi? Lavoro a tutti i costi? C’è qualcosa in mezzo ai due poli possibili del dibattito?

I sindacati per esempio provano a districarsi nella matassa sostenendo come un’industria “eco-compatibile” sia possibile e sia proprio la prospettiva su cui provano a lavorare. Dicono in sostanza “teniamo aperta la raffineria stando semplicemente attenti ai tassi d’inquinamento perchè solo ciò garantisce le famiglie e i lavoratori: garantendo il proseguimento del lavoro”. Non a caso Eni è uno dei casi migliori di “capitalismo dal volto umano”: un’impresa da sempre “partecipe” al e del tessuto sociale della zona. Eppure, come ricordavamo prima, tutti sanno che le falde sono inquinate, le incidenze tumorali sono cresciute, il mare e le spiagge sono contaminate. Per non parlare degli incidenti: incendi con conseguente emissione di nubi tossiche, sversamenti in mare dovuti a incidenti alle petroliere, etc.

Se dunque poco ci convince il richiamo al “lavoro a tutti i costi”, sappiamo però benissimo quanto da illusi sarebbe la sterile invocazione della “tutela dell’ambiente a tutti i costi”. Questo non perché non ci piacerebbe scoprire “pulita” quella costola di Sicilia ma ciò ci posizionerebbe immediatamente contro i bisogni dei lavoratori e, probabilmente, della comunità gelese tutta. Dice bene chi, dentro e fuori il sindacato, sostiene che se venisse attuato il nuovo piano di Eni, l’intera cittadina di Gela cadrebbe in un baratro profondissimo vista la quantità di economia che gira attorno alla presenza della raffineria.

Dunque? Cosa ipotizzare, proporre, chiedere? Se i sindacati scelgono il piano della doppia battaglia resistenziale – doppia perchè non solo (come è normale che sia) provano a trattare su un radicale piano di smantellamento sociale e industriale ma, così facendo, scelgono anche di ergersi a difensori di un modello produttivo (quello della raffinazione dislocata vicino ai luoghi di estrazione) che va ad estinguersi per arcaicità (che capitalisticamente parlando vuol dire che attraverso altri processi riescono a fare più profitto di quanto già ne fanno) – gli ambientalisti che fanno? Si arroccano sul tema della chiusura dell’impianto e su un generico richiamo alle possibilità delle bonifiche senza che però si tenga in conto che molto difficilmente potrebbero “occupare” tremila lavoratori.

E allora – lo diciamo non per impartire lezioni proprio a nessuno nè tantomeno per fare critiche ideologiche in un momento in cui ancora le scelte si devono davvero prendere – serve un superamento rispetto a entrambi i posizionamenti, limitanti per uno o per un altro aspetto. C’è infatti una parola che, al tempo in cui la politica è quella del partito unico del liberismo e la concertazione è sempre al ribasso (limitiamo i danni!), viene poco utilizzata: Risarcimento! All’inizio dicevamo come stavolta non ci troviamo di fronte ad un semplice privato ma nel nostro caso lo Stato è attore-imprenditore oltre che il livello politico in cui si era deciso un modelllo preciso di sviluppo dei Sud volto alla devastazione dei territori e allo sfruttamento delle risorse. E allora, dal nostro punto di vista, a Eni va imposta una doppia responsabilità: quella di dover risanare quel territorio attraverso opere di bonifica reale e quella del dovere garantire la continuità di reddito per i lavoratori che deciderà di “mandare a casa” per risparmiare capitali.

Sappiamo che forse, così presentata, appare una dichiarazione semplicistica. Ma crediamo anche che tenga insieme due necessità: una sociale e una politica. La prima perchè garantirebbe a Gela di sopravvivere senza la raffineria e avere il tempo di ricostruirsi un tessuto sociale autonomo da essa; la seconda perchè, onestamente, qualcuno va prima o poi inchiodato alle sue responsabilità e quindi costretto a pagare per le sue colpe: che in questo caso si chiamano inquinamento, malattie, morti e ricatti ai lavoratori. E di questo in Sicilia e non solo dovremmo ormai essere stanchi.

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