Occupy Wall Street e la politica della moralità finanziaria
In questo intervento, la storica Fox Piven (autrice negli anni ’70 di un prezioso lavoro di ricostruzione sui “Movimenti dei poveri” con R. Cloward) individua, a partire da quanto già in corso d’opera, una potenziale strada da battere per il movimento di Occupy Wall Street.
Nel suo intervento riocstruisce come la guerra ai poevri sia una costante del potere statunitense (Democratico o Repubblicani, prima come durante Obama) e di come il dispositivo razzista sia sempre stato un mezzo imprescindibile per questa guerra di classe (che negli anni ’80 ha preso il nome più presentabile di “guerra alla droga”).
Frances Fox Piven
Siamo in guerra ormai da decenni, non solo in Afghanistan e Iraq, ,a proprio qui, a casa nostra. In patria si è tratta di una guerra contro i poveri, ma non è sorprendente se non ci avete fatto caso. Non avreste trovato i dati sulle perdite per questo particolare conflitto nel vostro giornale locale o nei notiziari televisivi della notte. Per quanto devastante sia stata, la guerra contro i poveri è stata ampiamente ignorata, sino ad ora.
Il movimento Occupy Wall Street (OWS) [Occupiamo Wall Street] ha già fatto della concentrazione della ricchezza ai vertici di questa società un tema centrale della politica statunitense. Ora promette di fare qualcosa di simile per quel che riguarda la realtà della povertà in questo paese.
Facendo di Wall Street il suo bersaglio simbolico e definendosi come un movimento del 99%, OWS ha reindirizzato l’attenzione del pubblico verso il tema dell’estrema diseguaglianza che ha ridefinito come, essenzialmente, un problema morale. Solo sino a non tanto tempo fa, il tema della “morale” in politica era limitato alla correttezza delle preferenze sessuali, del comportamento riproduttivo, o del comportamento personale dei presidenti. La politica economica, compresi i tagli alle tasse per i ricchi, le sovvenzioni e la protezione del governo alle compagnie assicurative e farmaceutiche, e la deregolamentazione finanziaria, è stata velata da una nuvola di propaganda o semplicemente considerata troppo difficile da capire per il cittadino statunitense comune.
Ora, in quel che sembra un attimo, la nebbia si è sollevata e il tema sul tavolo dovunque sembra essere la moralità del capitalismo finanziario contemporaneo.
I dimostranti hanno ottenuto questo principalmente grazie al potere simbolico delle loro azioni: chiamando nemica Wall Street, il cuore del capitalismo finanziario, e accogliendo i senzatetto e gli emarginati nei luoghi della loro occupazione. E naturalmente lo slogan “noi siamo il 99%” ha ripetuto il messaggio che quasi tutti noi stiamo soffrendo per lo sconsiderato sciacallaggio di un minuscolo gruppo. (Di fatto non vanno lontano: l’aumento dei redditi dell’1% al vertice negli scorsi tre decenni è quasi pari alle perdite dell’80% che sta più in basso.)
Il richiamo morale del movimento ricorda momenti storici anteriori quando le rivolte popolari evocavano idee di una “economia morale” per giustificare le rivendicazioni di pane, grano o salari e cioè di una giustizia economica. Gli storici solitamente attribuiscono le idee popolari di una economia morale agli usi e alla tradizione, come quando lo storico inglese E.P.Thompson fa risalire agli statuti elisabettiani, allora già vecchi di secoli, l’idea di un “prezzo giusto” per gli alimenti di base, invocato dai rivoltosi inglesi per il cibo del diciottesimo secolo. Ma i poveri che si ribellano non sono mai stati semplicemente dei tradizionalisti. Di fronte alle violazioni di quelli che consideravano diritti consuetudinari, non hanno atteso che agissero i magistrati, ma spesso si sono fatti carico di far rispettare quello che ritenevano essere il fondamento di una economia morale giusta.
I poveri nei numeri
Un’economia morale per il nostro tempo affronterebbe certamente lo sfrenato accumulo di ricchezza a spese della maggioranza (e del pianeta). Sceglierebbe anche, come meritevole di speciale condanna, la creazione di uno strato sempre più vasto di persone che chiamiamo “poveri”, che lottano per sopravvivere all’ombra degli eccessi consumistici e degli sprechi di quell’un per cento al vertice.
Alcuni fatti: agli inizi del 2011 l’Ufficio statunitense del Censimento ha riferito che il 14,3% della popolazione, ovvero 47 milioni di persone, uno statunitense su sei, viveva sotto la soglia ufficiale della povertà, attualmente di 22.400 dollari all’anno per una famiglia di quattro persone. Circa 19 milioni di persone vivono in quella che è chiamata povertà estrema, il che significa che il loro reddito familiare rientra nella metà inferiore di quelli considerati al di sotto della soglia della povertà. Più di un terzo di quegli estremamente poveri è costituito da bambini. In realtà più della metà di tutti i bambini di età inferiore ai sei anni che vivono con una madre sola, è povera. Estrapolando da questi dati, Emily Monea e Isabel Sawhill della Brookings Institution stimano che nel futuro degli Stati Uniti c’è un ulteriore forte aumentosia del tasso di povertà sia della povertà infantile.
Alcuni esperti contestano questi numeri in quanto essi non tengono conto dell’assistenza che i poveri continuano a ricevere, principalmente attraverso programmi di buoni alimentari, né delle variazioni regionali del costo della vita. In effetti, per quanto brutti, i numeri ufficiali non raccontano la storia completa. La situazione dei poveri, in realtà, è considerevolmente peggiore. La linea ufficiale della povertà è calcolata semplicemente come tre volte la spesa alimentare minima, introdotta nel 1959 e poi aggiornata in base all’inflazione del costo degli alimentari. In altre parole la soglia della povertà statunitense non tiene conto del costo dell’alloggio o del carburante o dei trasporti o dell’assistenza sanitaria, costi tutti che sono aumentati più rapidamente di quelli degli alimenti fondamentali. Così la misura della povertà sottovaluta grossolanamente il costo reale della sopravvivenza.
Inoltre nel 2006 i pagamenti degli interessi sul debito dei consumatori avevano già portato più di quattro milioni di persone, non ufficialmente in povertà, sotto la soglia, rendendoli “poveri del debito”. Analogamente, se dal reddito lordo fossero dedotti i costi dell’ assistenza ai bambini stimati in 5.750 dollari nel 2006, molti altri sarebbero conteggiati come ufficialmente poveri.
Né questi livelli catastrofici di povertà sono semplicemente una temporanea reazione ai crescenti tassi di disoccupazione o riduzioni delle paghe nette conseguenti al grande crollo economico del 2008. I numeri raccontano la storia ed essa è sufficientemente chiara: la povertà era in ascesa prima che fossimo colpiti dalla Grande Recessione. Tra il 2001 e il 2007, la povertà è in realtà aumentata per la prima volta nella storia nel corso di una ripresa economica. E’ salita dall’11,7% del 2001 al 12,5% del 2007. Le percentuali di povertà relative alle madri sole erano, nel 2007, del 49% più alte negli Stati Uniti che in 15 altri paesi ad alto reddito. Analogamente i tassi di disoccupazione e i redditi dei neri stavano scendendoprima che la recessione colpisse.
Tutto questo, in parte, è stato l’inevitabile ricaduta di un decennio di mobilitazione delle imprese per ridurre i costi del lavoro indebolendo i sindacati e modificando le politiche pubbliche che proteggevano i lavoratori e gli stessi sindacati. In conseguenza le pronunce dell’Ufficio Nazionale del Lavoro (National Labor Board] si sono fatte meno favorevoli sia ai lavoratori sia ai sindacati, i regolamenti relativi ai luoghi di lavoro non sono stati fatti rispettare e le paghe minime restavano molto indietro rispetto all’inflazione.
Inevitabilmente l’impatto complessivo della campagna per ridurre la quota a favore del lavoro degli utili nazionali si è tradotta in un numero crescente di cittadini statunitensi che non hanno potuto guadagnare neppure a un livello di sopravvivenza da povertà, e neppure questo è il quadro completo. I poveri e i programmi che li assistevano sono stati oggetto di una campagna a tutto campo diretta specificamente contro di essi.
Campagna contro i poveri
Questo attacco è iniziato persino mentre il Movimento per la Libertà dei Neri degli anni ’60 era in piena attività. Era già evidente nella fallita campagna presidenziale del 1964 del Repubblicano Barry Goldwater così come nelle ricorrenti campagne del governatore dell’Alabama, per un certo tempo Democratico, George Wallace. Il programma presidenziale di Richard Nixon nel 1968 accoglieva lo stesso tema.
Come hanno sottolineato molti commentatori, la sua trionfante strategia elettorale si inseriva nella crescente animosità razziale non solo dei bianchi del sud, ma di una classe lavoratrice bianca del nord che improvvisamente si trovava bloccata nella competizione con i neri di nuova urbanizzazione per i posti di lavoro, i servizi pubblici e gli alloggi nonché in campagne per la desegregazione nelle scuole. Il tema razziale si fuse rapidamente con la propaganda politica che prendeva di mira i poveri e i programmi contemporanei di assistenza gli stessi. In effetti nella politica statunitense il termine “povertà”, assieme a “assistenza”, “madri non sposate” e “crimine” divenne una delle parole in codice per indicare i neri.
Nel processo i Repubblicani in ripresa cercarono di sconfiggere i Democratici nei sondaggi associandoli ai neri e alle politiche liberali intese ad alleviare la povertà. Una conseguenza fu la famigerata “guerra alle droghe” che ignorò ampiamente i grandi trafficanti per prenderla con i trasgressori di livello più basso nei quartieri degradati delle comunità. Assieme a ciò arrivò un massiccio programma di edilizia carceraria e di incarcerazioni, così come la complessiva “riforma” del principale programma di assistenza in contanti basato sulla verifica del reddito, gli Aiuti alle Famiglie con Figli a Carico. Questo attacco ai poveri, a guida politica, di dimostrò soltanto il dramma d’apertura di una campagna durata un decennio lanciata contro i lavoratori dalle imprese e dalla destra organizzata.
Si è trattato non solo di una guerra contro i poveri, ma della vera “guerra di classe” the i Repubblicani ora utilizzano come bandiera praticamente contro qualsiasi azione che non approvano. Di fatto la guerra di classe è stata l’obiettivo principale della campagna, qualcosa che ben presto sarebbe diventato evidente nelle politiche che portarono a una massiccia redistribuzione del carico della tassazione, alla cannibalizzazione dei servizi governativi attraverso le privatizzazioni, ai tagli alle paghe e ai sindacati estenuati nonché alla deregolamentazione delle imprese, delle banche e delle istituzioni finanziarie.
I poveri – e neri – sono stati un inesauribile utile espediente retorico, un diversivo propagandistico utilizzato per vincere le elezioni e ottenere maggiori risultati. Tuttavia la retorica è stata importante. Un esercito di nuovi gruppi di esperti, organizzazioni politiche e di lobbisti a Washington, D.C., ha propagandato il messaggio che i problemi del paese erano causati dai poveri, la cui inettitudine, le cui inclinazioni criminali e la promiscuità sessuale incontravano l’indulgenza del sistema assistenziale troppo generoso.
Ha fatto seguito abbastanza rapidamente una vera sofferenza, assieme a grandi tagli ai programmi basati sul reddito che aiutavano i poveri. La stessa introduzione dei tagli è stata avvolta in nuvoloni di propaganda, ma cumulativamente essi hanno smontato la rete di sicurezza che proteggeva sia i poveri sia i lavoratori, specialmente quelli a paga bassa, ovvero le donne e le minoranze. Quando Ronald Reagan fece il suo ingresso nell’Ufficio Ovale nel 1980, era stato livellato il percorso per enormi tagli ai programmi per i poveri, ed entro gli anni ’90 i Democratici, alla ricerca di strategie elettorali che raccogliessero fondi per la campagna elettorale dalle grandi imprese e li riportassero al potere, raccolsero il testimone. E’ stato Bill Clinton, dopotutto, che ha condotto la sua campagna all’insegna dello slogan “basta con lo stato sociale così come lo conosciamo.”
Un movimento per un’economia morale
La guerra contro i poveri a livello federale ha presto trovato seguito nei parlamenti dei singoli stati dove si sono messe al lavoro organizzazioni come la American Federation for Children [Federazione statunitense per i bambini], l’American Legislative Exchange Council [anche ALEC, “Consiglio americano per le questioni legislative, è un’ associazione dei legislatori statali e sostenitori della politica del settore privato” – fonte Wikipedia – n.d.t.], l’Institute for Liberty [Istituto per la libertà] e la State Policy Network [Rete per la politica statale]. Il loro programma di pressione era ambizioso, comprendendo la privatizzazione su larga scala dei servizi pubblici, tagli alle tasse a carico delle imprese, controffensiva sui regolamenti ambientali e le protezioni dei consumatori, paralisi dei sindacati del settore pubblico, e misure (come l’obbligo di identificazione fotografica) che avrebbero limitato l’accesso alle urne degli studenti e dei poveri. Ma il vero bersaglio pubblico erano i poveri e, di nuovo, ci sono state conseguenze nella vita reale: tagli all’assistenza, particolarmente nel programma di Aiuti alle Famiglie con Figli a Carico e una campagna di legge ed ordine che è sfociata nella massiccia incarcerazione di neri.
La Grande Recessione ha duramente inasprito queste tendenze. L’Economic Policy Institute [Istituto per la politica economica] riferisce che il tipico capofamiglia in età lavorativa, che aveva già visto una discesa del suo reddito di circa 2.300 dollari tra il 2000 e il 2006, ha perso altri 2.700 dollari tra il 2007 e il 2009. E quando è arrivata la “ripresa”, per quanto incerta, è stata principalmente nelle industri a bassa remunerazione, con hanno contato per quasi metà della ripresa che c’è stata. L’industria manifatturiera ha continuato a contrarsi, mentre il mercato del lavoro ha perso il 6,1% dell’occupazione a libro paga. I nuovo investimenti, quando mai ci sono stati, sono stati più probabili in macchinari che in nuovi lavoratori, così i livelli di disoccupazione restano alti in misura allarmante. In altre parole, la recessione ha accelerato le tendenze in corso del mercato in direzione di un’occupazione a paghe ancor più basse e ancor più insicura.
La recessione ha anche provocato ulteriori tagli ai programmi di assistenza. Poiché l’assistenza in contanti è diventata così difficile da ottenere, grazie alla cosiddetta riforma dell’assistenza, e i programmi di assistenza statale di ripiego sono stati paralizzati, il programma federale dei buoni alimentari ha finito per sopportare molto del peso dell’assistenza ai poveri. Ridenominato “Programma Supplementare di Assistenza Alimentare”, è stato sostenuto dalla Legge di Ripresa e i sussidi sono temporaneamente aumentati, così come i beneficiari. Ma il Congresso ha ripetutamente tentato di tagliare i fondi del programma e persino di deviare parte di essi a sovvenzioni agricole, mentre sono stati fatti tentativi, non ancora riusciti, di negare i buoni alimentari a qualsiasi famiglia che comprenda un lavoratore in sciopero.
La destra organizzata giustifica le sue politiche draconiane nei confronti dei poveri con argomenti morali. I gruppi di esperti e i blog della destra, ad esempio, meditano sugli effetti dannosi per i bambini dei poveri invalidi del diventare “dipendenti” dall’assistenza pubblica, oppure passano al vaglio l’assistenza alimentare governativa alle donne povere incinta e ai bambini poveri in un tentativo di giustificare le conseguenze positive per i neonati.
L’ignoranza e la crudeltà volute di tutto questo possono lasciare senza fiato, e annaspare è stato tutto quel che abbiamo fatto per decenni. E’ per questo che avevamo disperato bisogno di un movimento per un nuovo tipo di economia morale. Occupy Wall Street, che ha già cambiato il dibattito nazionale, può ben esserne l’inizio.
Frances Fox Piven fa parte del corpo insegnante della City University of New York Graduate Center [Scuola di Laurea dell’Università di New York]. E’ autrice, con Richard Cloward, di Poor People’s Movements [Movimenti di poveri], Regulating the Poor [Amministrare i poveri]. Il suo ultimo libro, appena pubblicato, è Who’s Afraid of Frances Fox Piven? The Essential Writings of the Professor Glenn Beck Loves to Hate (The New Press) [Chi ha paura di Frances Fox Piven? Gli scritti essenziali della professoressa che Glenn Beck ama odiare]. Per ascoltare la più recente intervista audio Tomcast di Timothy McBain in cui la Piven discute della bizzarra passione di Glenn Beck per lei cliccare qui o scaricare sul proprio iPod qui.
Questo articolo è apparso originariamente su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un costante flusso di fonti, notizie e opinioni alternative da Tom Engelhardt, per lungo tempo direttore di edizione, co-fondatore del Progetto dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo ‘The Last Day’s of Publishing’ [Gli ultimi giorni di pubblicazione]. Il suo ultimo libro è The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) [La via statunitense alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate di Obama].
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
http://www.zcommunications.org/occupy-wall-street-and-the-politics-of-financial-morality-by-frances-fox-piven
traduzione di Giuseppe Volpe
Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.