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Occupy Wall Street: occupy everything

Forse era nell’aria: l’aria di primavera dei paesi arabi, o l’aria della Puerta del Sol di Madrid, o del Rothchild Boulevard di Tel Aviv, tutti avvenimenti che presagivano un anno caldo a livello globale. Ma quando a New York è scoppiata Occupy Wall Street (la metafora della esplosione sembra moto più appropiata), si è avuta subito la sensazione che non si trattasse di una ventata di attivismo, di un altro episodio dell’ «anno della protesta» come lo ha definito Time magazine, ma di un avvenimento trasformatore, un «game changing», un cambiamento delle regole del gioco.

Non che nel contesto americano non ci fossero stati in quest’anno dei precedenti. Primo fra tutti, le grandi manifestazioni e l’assedio del Congresso dello stato del Winsconsin, nello scorso inverno. In quell’occasione si erano viste le prime crepe alla «risoluzione» neoliberale della grande crisi. Il governatore  Scott Walker, forte di una vittoria elettorale finanziata da interessi a livello nazionale che volevano fare del suo stato un test della politica repubblicana conservatrice, e sulla scia dei successi del movimento del Tea Party e delle vittorie repubblicane al Congresso, aveva proposto un progetto di riforme strutturali tutte incentrate sulla politica dei sacrifici e sulla responsabilità fiscale; in realtà un attacco diretto a quello che rimaneva delle organizzazioni sindacali fra i lavoratori del pubblico impiego i cui contratti venivano di fatto abrogati. La reazione fu tanto inaspettata quanto massiccia tanto da essere chiamata la Piazza Tharir americana. Ma per quanto importanti e significative, le lotte riguardavano dei temi sostanzialmente difensivi, sindacali. Alla fine tutte le energie si sono concentrate sulle elezioni locali nel tentativo in parte riuscito di revocare le elezioni di alcuni deputati e dello stesso governatore, tutte attività ancora all’interno del sistema elettorale.

OWS al contrario si è presentato fin dall’inizio come un evento che riguarda la globalità delle istanze di vita in questo momento storico, per la società americana e non solo. Si potrebbe dire, usando una terminologia ormai in disuso, che è un fenomeno che riguarda il sistema in quanto tale e non soltanto alcune sue «inefficenze». Lo si vede fin dalle sue più immediate espressioni simboliche: il rifiuto di dare contenuti di tipo rivendicativo parziali, l’insistenza sulle statistiche fuori misura (il 99% che è un altro modo di dire «tutti noi»), l’uso del verbo occupare a cui può essere aggiunto qualsiasi oggetto. Wall Street come si è subito visto era soltanto un punto di partenza. Lo slogan reale del movimento è: «Occupy Everything», occupare tutto, uno slogan che ha già la forza evocativa di alcuni altri del passato: «demandez l’impossible» e «another world is possible».

Ed è per questo che, almeno per il momento, è impossibile capire ed inquadrare OWS nel contesto della politica americana tradizionale. Chi cerca di spiegare OWS come una risposta «di sinistra» al Tea Party, cerca anche di misurane il valore negli effetti che questo può avere nella campagne elettorali del 212. L’attivismo di OWS, secondo questa interpretazione, potrebbe ridare forza, se non proprio entusiasmo, alla campagna del partito democratico nelle elezioni locali cosi come in quella presidenziale.  Non a caso il recente discorso di Obama che ha di fatto aperto e ricalibrato la campagna per la sua rielezione , per il momento non è affatto scontata, e che è stato interpretato come una svolta populista, ha preteso di far sue le aspirazioni , o almeno lo spirito, del movimento delle occupazioni .

Ma si vede già che le cose stanno andando molto diversamente da quanto vorrebbero gli strateghi del partito democratico. Per il momento non si vede alcun coinvolgimento di rilievo nella campagna elettorale, e certamente non a favore di un candidato o di un altro, ma semmai una denuncia della corruzione del sistema elettorale in quanto tale. E qui la differenza con il Tea Party è sostanziale. Non è solo di una differenza demografica. Il tipico membro del Tea Party è bianco, di mezza età, abita nelle zone suburbane, e ha un livello medio-alto di reddito mentre la base di OWS è composta da giovani di varia estrazione sociale , spesso studenti o comunque ad alto livello di educazione, ma ancora pù spesso definiti dalla precarietà del loro rapporto con il lavoro, e quindi rappresentativi dell’attuale condizione del lavoro dipendente in generale. Ma è soprattutto la natura della «protesta» che pone il Tea Party e OWS su due poli opposti. L’una è concentrata sulla paura delle attuali trasformazioni sociali e punta alla restaurazione di valori e modi di vita «perduti», l’altra invece è tutta proiettata verso la costituzione di un nuovo assetto politico ed economico. Chi perciò volesse leggere la forza di OWS nei risultati della presente campagna elettorale non capisce che il movimento riguarda la natura delle istituzioni di potere e non la loro efficienza governativa

Dove è dunque la forza del movimento e quale il terreno su cui valutare la sua energia trasformatrice? Il primo e più evidente effetto è aver stravolto l’agenda politica a livello nazionale imponendo nuove priorità e parametri del discorso. Gli ultimi due anni, nel mezzo della pesante crisi economica, erano stati dominati dalla ricerca di un consenso nazionale sulla necessità di disciplina e sacrifici e sulle misure fiscali per ridurre l’indebitamento pubblico. La responsabilità fiscale consisteva in una strategia di tagli della spesa pubblica che riguardavano soprattutto la riduzione delle spese sociali, la cosiddetta «safety net». I repubblicani al Congresso ne avevano fatto il loro cavallo di battaglia sulla scia del successo elettorale del 2010. Obama aveva essenzialmente accettato come legittimo questo terreno, proponendo solo timide modifiche al programma repubblicano e di conseguenza subendo una serie di sconfitte parlamentari e un calo di popolarità che hanno messo in dubbio la sua rielezione.

OWS ha spostato l’asse del discorso dalla responsabilità fiscale di tutti di fronte alla crisi, alla responsabilità del potere industriale e finanziario nell’aver creato non solo la crisi ma un’ineguaglianza di reddito e di ricchezza che negli ultimi anni ha generato una crescita esponenziale della povertà, dell’indebitamento familiare e individuale, del precariato lavorativo, dei costi dell’educazione e della sanità.

Questo cambiamento dell’agenda politica è ormai riconosciuto ampiamente da tutti i commentatori politici ma in genere viene visto solo come un riaggiustamento degli obbiettivi del partito democratico e di Obama in vista della campagna elettorale. Ma c’e qualcosa do molto più radicale e di lunga durata nei pronunciamenti della occupazioni. Come ha osservato la politologa Jodi Dean, il 99% e l’1% nello slogan delle occupazioni nomina una differenza e una struttura di potere. Non si tratta di trovare una soluzione alla crisi o alle ineguaglianze sociali in nome di un interesse generale della società che, ad esempio nella retorica della resposabilità fiscale, creerebbe un futuro migliore per le prossime generazioni. Per OWS invece si tratta di cambiare un sistema di potere che è fondato su una differenza di classe. Si badi bene,«lotta di classe» è un termine spregiativo nel vocabolario politico americano, e OWS non l’ha certo fatto proprio, ma ne ha intaccato la retorica negativa reintroducendo una critica a un sistema economico di potere fatto da chi espropria e di chi è espropriato, che non si sentiva dai lontani tempi del New Deal.

Più ancora che nel discorso politico, del resto ancora in formazione, è nella esemplarità delle pratiche della occupazione che il movimento ha trovato la sua forza esemplare. Osservava acutamente un editoriale del New York Times che OWS non ha solo occupato uno spazio urbano ma ha occupato la lingua stessa. In inglese il termine «occupy» ha una origine militare, si riferisce tradizionalmente al possesso di uno territorio. Con OWS occupare diventa sinonimo non di possedere ma di trasformare. L’obbiettivo era di convertire uno spazio urbano identificato con un’attività economica finanziaria (Wall street per l’appunto) in uno spazio in comune, riformulando così il rapporto fra spazio pubblico e spazio privato. Ma come? Innanzitutto stabilendo una presenza collettiva fisica, corporea, creando una luogo comune che non è definito astrattamente come opinione pubblica rappresentata da istituzioni politiche e media, ma da corpi che vivono in uno spazio, che rischiano, che condizionano e sono condizionati dall’ambiente materiale che occupano, e che facendo questo sottraggono spazio al potere, insomma che sono impegnati in quella che la filosofa Judy Butler ha di recente chiamato, in riferimento alla piazza di Tahir, “la politica della strada”.

Lo spazio è occupato e trasformato in quanto è spazio abitato. E’ questo il significato della tendopoli. E’ un insediamento di pratiche di vita in comune, la costituzione di una socialità da contrapporre alle regole pubbliche imposte dal mercato e dalle sue istituzioni. Non è l’ideologia comunitaria degli anni Sessanta. La comune allora era una forma di fuoriuscita, di abbandono per costruire una vita alternativa dal di fuori. Non c’e’ invece un «fuori» nel modo neoliberale. Le tende si piantano nel cuore del mondo del capitale finanziario, a Wall Street, e questo insediamento non è isolato dal tessuto sociale circostante, anzi lo riassume e lo contiene e lo esprime. Le tendopoli sono infatti collegate in filo diretto con la crisi della casa. Una casa che sempre meno è un luogo di abitazione e sempre più uno strumento finanziario, una fonte di reddito in forma di debito, in cui la casa diventa un modo per poter far fronte al calo delle paghe di questi ultimi anni. La crisi del subprime che ha innescato la crisi finanziaria ha prodotto un’epidemia di pignoramenti e sfratti senza precedenti. E non è a caso che l’esperienza delle tendopoli prima di OWS era quella dei senza casa.

Se la tendopoli è un insediamento e una trasformazione dello spazio abitativo, le attività nella tendopoli rispecchia i tempi della vita quotidiana. Per questo grande importanza è stata data all’organizzazione di forme di vita in comune, il cibo, la pulizia, la salute, lo studio, la lettura, fino alla creazione della famosa biblioteca in comune che è stata la prima cosa che la polizia ha distrutto quando ha sbaraccato la tendopoli. La gestione della vita quotidiana affidata ai vari comitati e gruppi di lavoro ha avuto una funzione tattica e strategica. Tattica nel senso che ha reso possibile il funzionamento pratico dell’occupazione, ma strategica perché ha assunto l’area della riproduzione come essenziale nella lotta politica contro un capitale che sempre più penetra e sfrutta attività prima considerate esterne al mercato o private. Anche qui le attività e gli obbiettivi delle occupazioni sono direttamente collegata alla lotta più generale contro la finanziarizzazione della vita quotidiana, contro l’imposizione di un obbligo a una imprenditorialità individuale della propria vita in funzione della riproduzione del capitale, insomma quella che ai tempi di Bush veniva chiamata la «ownership society» dove responsabilità individuale coincideva col produrre valore per il capitale.

Ma l’occupazione non ha solo una funzione esemplare, non è un modello di vita alternativo da replicare, come se si trattasse di creare un mondo di tendopoli, per così dire. Al contrario l’occupazione è prima di tutto una base politica di operazione. E’ una base di elaborazione di nuove forme di gestione della discussione politica e dei rapporti con il tessuto sociale circostante. L’adozione della General Assembly è appunto un tentativo di tradurre la cooperazione sociale in forme politiche, di sperimentare forme decisionali collettive, rimettendo in discussione le usuali gerarchie delle istituzioni politiche e le categorie tradizionali di autorità, leadership, e decisionalità. I termini che vegono usati a questo proposito sono i più vari, e forse scontati: democrazia radicale, diretta, non rappresentativa, anarchica e così via. Ma si ha l’impressione, frequentando le assemblee e osservandone le pratiche gestuali e la dinamica dell’interazione (compreso quel megafono umano di cui tanto si è parlato), che a questo punto si tratti più di sperimentare nuovi modi per i corpi di stare insieme piuttosto che di istituzionalizzare una struttura formale di decisione. Non c’è dubbio che il tutto è un work in progress.

L’assemblea è solo uno dei flussi energetici che caratterizzano l’occupazione. Soprattutto nel periodo iniziale dell’insediamento a Zuccotti Park, l’occupazione ha funzionato come polo magnetico per la città. Era diventata non solo un luogo di gestione territoriale e di elaborazione ma anche una meta di un continuo pellegrinaggio di massa, luogo di ospitalità, di testimonianze, di solidarietà, tutte cose che connettevano l’occupazione al tessuto cittadino circostante. E viceversa, l’occupazione non era statica ma si proiettava sempre al di fuori, da un lato con «uscite» mirate nei quartieri, in appoggio alle lotte degli sfrattati, dei senza casa, dei poveri e degli studenti, e dall’altro con manifestazioni di massa organizzate in varie occasioni in coalizione con altre forze sociali e organizzazioni come ad esempio i sindacati, primo fra tutti quello che rappresenta a New York il settore della sanità ed uno dei più forti e organizzati della zona.

Il settore dell’educazione, soprattutto quello della università è una ovvia area di espansione del movimento delle occupazioni. Una delle prime iniziative prese dopo l’espulsione dallo Zucotti Park è stata il lancio della campagna per la moratoria sul debito degli studenti. Un fenomeno che ha raggiunto proporzioni gigantesche se si pensa che è ora superiore a quello delle carte di credito a livello nazionale, tanto che alcuni dicono che sarà la prossima bolla finanziaria. La campagna da un lato fa parte della lotta più generale contro la costrizione all’indebitamento su cui è fondata la rendita e il potere del capitale finanziario, ma dall’altro è direttamente puntata alla critica dell’università privata e dei suoi costi, alla stratificazione sociale che impone, e al suo diventare sempre più simile a una impresa governata da criteri di pura efficienza produttiva. La lotta contro l’incremento delle tasse universitarie alla City University di New York e la recente occupazione della New School sono solo un primo segno di cose a venire e rappresentano un importante passo nella articolazione di OWS sul territorio metropolitano.

Il rapporto di OWS con il territorio circostante e la circolazione di iniziative di lotta su scala nazionale e internazionale è solo un aspetto della reticolarità del fenomeno. Essenziale, a questo proposito, per capirne la dinamica, è il riferimento alle nuove tecnologie digitali. Certo internet e i social media non hanno creato OWS. E‘ stato troppo facile in questi ultimi tempi spiegare il sorgere di nuovi movimenti, soprattutto giovanili, attraverso l’uso diffuso di nuove forme di comunicazione, di nuovi circuiti informativi che avrebbero democratizzato e aperto la comunicazione come mai prima. Da qui  ad esempio l’attribuzione della primavera araba alle varie Twitter o Facebook revolution, riducendole a una lotta contro l’autoritarismo e per la libertà d’informazione. Una sorta di liberalismo mascherato da determinismo tecnologico.

Ma sarebbe sbagliato anche pensare il contrario, cioè che i nuovi media siano solo una forma di espressione di una soggettività precostituita, uno strumento che serve solo a far circolare informazioni «alternative» generate dal movimento (quella che una volta si chiamava controinformazione). Questa visione strumentale dei new media non coglie l’elemento costitutivo che essi hanno oggi nelle nuove soggettività, che non si formano prima o dopo di essi ma che sono da loro essenzialmente reticolate.

I nuovi media sono la forma costituente del movimento, la forma della sua socialità. Lo si vede dalla natura e dinamica stessa del movimento che non a caso è stato paragonato a un «oggetto beta», un prototipo mai completamente definito e in continua evoluzione in base all’interattività delle sue componenti.

E’ per questo che il movimento delle occupazioni, se di movimento si può ancora parlare, non è definito da una traiettoria lineare ma si sta sviluppando per risonanze, sia dal punto di vista dell’estensione geografica che da quello delle aree sociali di intervento, lasciando ancora completamente aperto il suo problema organizzativo di lungo periodo.

Che questo sia un limite o una sua forza lo si vedrà nei prossimi mesi.

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