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Ottobrata destituente (di Marcello Tarì)

 

Mettiamola così: il #19O è quello che resta del #15O o, detto altrimenti, la sua attuale possibilità.

Se il desiderio comune espressosi con la rivolta che incendiò il 15 ottobre di due anni fa è stato quello di rendere reale, tangibile, lo slogan globale del «nessuno ci rappresenta» – operando nei termini di una vera secessione dalle forme politiche organizzate della sinistra – questo ottobre espone il fatto che esiste, anche in questo paese, una potenza destituente che si organizza autonomamente in termini di massa e a cui giova, anzi, farlo senza le stampelle governamentali. Siamo noi che non li vogliamo, non il contrario.

Il #19O è la verità materiale del #15O.

Né continuità né discontinuità ma approfondimento strategico dello scontro.

In tantissimi hanno provato un sentimento come di gioia nel vedere il colpo d’occhio di via Merulana, per lo sbalordimento provocato dall’enorme blocco di migranti che sfilava per affermare la sua presenza conflittuale e non sospinti da qualcuno contro o per qualche legge, gioia per tante altre cose ma infine la hanno provata tutti perché è stato un corteo autonomo.

Come sempre infatti non basta dire, scrivere o urlare che siamo per l’autonomia, bisogna farla l’autonomia. Per anni abbiamo cercato, a parole, di liberarci dal dispositivo che governava i movimenti, i quali sembravano non potessero fare a meno di mediare al proprio interno con delle forze che erano lì per corromperne e trattenerne la potenza. Oggi possiamo dire che tutto questo comincia a essere alle nostre spalle: una rovina in più nel panorama dell’epoca. Questo tempo ci dice che sono le forme-di-vita che contano, non la sinistra, non i sindacati e nemmeno i centri sociali.

Solo chi non conosce i movimenti italiani o è in malafede non riconosce immediatamente che chi ha colmato le strade romane il 19 ottobre del 2013 è esattamente la stessa ingovernabile cosa che negli scorsi tre anni ha cominciato a «sollevarsi» arrivando fino all’insorgenza selvaggia del 15 ottobre 2011. Questo vale in ogni senso possibile per la composizione della manifestazione del 19. E non ci si riferisce al fatto che dagli anarchici ai centrosocialisti non mancava nessuno ma, anzi, alla riconferma che esiste una classe senza soggetto che depone ogni identità politica mentre esprime la sua presenza. Si possono fare tutte le congetture che si vogliono, ma la vera difficoltà, una bella difficoltà, è l’impossibilità di definire la marea destituente tramite la sua riduzione a un soggetto. Al contrario, ogni volta sembra come se tutto accada come per smentire ogni analisi, ogni previsione e ogni narrazione preconcette.

Non la cronaca è interessante degli eventi insurrezionali di questi anni infatti ma la loro brechtiana epicità, cioè la capacità di interrompere qualsiasi narrazione ideologica a favore di un’irruzione di realtà che spinge a riflettere sempre più criticamente su se stessi e sul mondo, su un corteo come su di una rivoluzione.

È quindi stupido guardare alla manifestazione del 19 isolandola dalle rivolte del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011, esattamente nella misura in cui dentro questo processo ci sono le sollevazioni di Val di Susa e di Sicilia, della Campania come della Lombardia, ci sono le lotte attorno alla questione dell’abitare e quelle dei lavoratori della logistica, quelle contro il carcere e la repressione come quelle condotte da Anonymus. Ci sono dentro i cortei e i sabotaggi, gli assedi e le assemblee in strada. Non solo, è stupidissimo isolare questo processo dall’intera sequenza mondiale che oramai da anni segna il ritorno del fatto insurrezionale. È tanto più stupido in quanto gli organi della contro-insurrezione ne sono invece perfettamente consapevoli. Per dirla con una battuta: dentro il #19O ci sono anche Gezi Park e Piazza Tahir, la Comune di Oakland e Barcellona in fiamme, il riot di Tottenham e gli émeutes francesi. E quindi, francamente, è un po’ ambiguo tutto questo insistere nel movimento su di una centralità politica dell’Europa quando siamo in presenza di un partito storico che opera a livello globale vivendo, allo stesso tempo, nella costruzione locale di forme-di-vita. A meno che si abbiano in mente le elezioni europee o l’immaginare di scrivere la costituzione di un nuovo superstato socialista; cose che, si può affermarlo senza alcun timore di smentita, a quella classe interessano quanto le promesse di un ministro del governo in carica: nulla.

Tutti i conflitti che vivono oggi in Italia come in Spagna, in Grecia come in Francia, in Egitto come in Brasile e fino a New York sono già transnazionali tanto quanto sono locali.

Certamente dire tutte queste belle cose non vuol dire che tutto va bene e accomodarci così nell’ammirazione dell’evento.

Un conflitto, una manifestazione o anche un buon libro sono davvero interessanti quando spingono chi li pratica verso i propri limiti, mettendo in crisi ciò che si teneva per scontato e facendo brillare nuove verità, ponendoci irriducibilmente davanti a delle scelte. Il #19O ha avuto questa possibilità perché ha portato, o sta portando, tutti coloro che in una qualche misura vi hanno preso partito a fare delle scelte. Scelte di comportamento, di senso di marcia, di rotture, di amicizia, di inimicizia. Una scelta di partito.

In molti stanno cercando di comprendere il significato di questa manifestazione autonoma – la prima da più di vent’anni forse – e addirittura di interpretarla in termini di «programma». E tuttavia credo si stia sottovalutando l’insieme delle questioni messe in campo se non riusciamo a percepire la rivolta contro la metropoli che ciascuna di esse segnala e compone. Si parla molto di territori in relazione alle case, alle infrastrutture o alla logistica ma poco di quel territorio esistenziale che pure è quello che trasversalmente spinge 70.000 persone a sfidare un dispositivo contro-insurrezionale allucinato e cattivo.

La metropoli è sofferenza, perciò dev’essere destituita.

La questione, in ogni caso, che ora abbiamo in comune è quella di comprendere che gli «organizzatori» di una manifestazione come quella di pochi giorni fa non hanno – e non è una critica, si badi bene – l’immaginazione strategica adeguata a imprimere un segno comune e rivoluzionario al divenire del 19 ottobre. Questo è un affare collettivo. Perché ciò che accompagna la potenza destituente non è il potere costituente ma il divenire rivoluzionario.


Note a margine del testo

Partiamo dai due punti che ci paiono rilevanti,

1) Il #19o è in rapporto diretto con il #15o di due anni prima. Giusto coglierne non la continuità ma, come si dice qui, “l’approfondimento strategico” (aggiungeremmo anzi – in termini poco politicamente corretti – che il #15o ha svolto una funzione “igienica” nel liberarci da pastoie e dinamiche soffocanti).

2) Quella piazza è un momento di una lunga serie di sollevazioni, scontri acampade, picchetti, riots, libere repubbliche che da qualche anno segnano il materializzarsi di una nuova composizione su scala globale.

Arriviamo ai nodi problematici…

I) L’impressione che si ricava leggendo il testo (come spesso ci accade confrontandoci con le riflessioni di chi propaga le tesi dell’«autonomia diffusa») è che le cose avvengano un po’ per magia, come un precipitare di occasioni, il consendarsi di intensità, rimuovendo il lavorio sotterraneo, talvolta noioso, spesso ordinario, che permette ai processi di mettersi in moto.

Pur ammalianti e profonde nel descrivere alcune declinazioni dello stato d’animo delle nuove generazioni emerse, a queste latitudini, tra l’Onda e il tempo presente (e disponibili ad un conflitto vero e non simulato), le letture di Tarì e compagn* rischiano di contrapporre a certe pur detestabili cristallizzazioni  di ruoli e incistamenti organizzativo-professionistici un’ideologia dell’intensità che gioca la comunità contro la generalizzazione, l’astrazione della classe contro la composizione di classe, la rivolta contro la rivoluzione, l’insurrezione contro la materialità dei rapporti di forza. Nell’illusione che si possa “vivere senza tempi morti” e fare a meno di militanza e passaggi organizzativi (quando invece, crediamo, anche i tempi morti possono essere utili a sedimentare passaggi in avanti).

Il percorso che ha portato alla giornata del #19o segna, a nostro avviso, il buon esito di una costruzione artificiale portata avanti con metodo e umiltà (e l’apporto di quel pizzico di fortuna che non guasta mai!). A partire da una base solida e reale (gli occupanti di case) si è costruito intorno un lavoro politico nei territori e di comunicazione in Rete (le due cose non vanno disgiunte) che hanno saputo imporre una certa soglia di attenzione e attesa per quella data.

II) […] riconferma che esiste una classe senza soggetto che depone ogni identità politica mentre esprime la sua presenza”… Qui il problema è se la sentenza fotografa una condizione attuale o pretende d’individuare una potenza laddove scorgiamo un limite. Non riusciamo a capire in che termini una classe che non si fa soggetto possa incidere e rivoluzionare i rapporti sociali. Precisiamo che quando parliamo di “soggetto” non pensiamo al Soggetto della Storia o a un Partito che dovrebbe redimerci dalle nostre insufficienze. Più mestamente, ci riferiamo a processi (pur embrionali) di contro-soggettivazione, scelte, comportamenti… ecc che eccedono la dimensione singolare e individuale (l’eroismo dell’individuo in rivolta) e si esprimono in dimensioni collettive, all’incrocio tra bisogni diffusi che si palesano nel corpo sociale e tentativi consapevoli di indirizarli, collegarli, farne potenza organizzativa. Soggetto come agente-umano consapevole dotato di autonomia, che elabora e persegue fini suoi propri in contrapposizione con l’ordine capitalista ed è al contempo il prodotto sempre temporaneo di quei processi, quelle lotte, quei divenire (in ogni lotta, fase, ci si può chiedere “a che punto è il soggetto?”).  Oggi più che mai questo soggetto nasce, cresce e si sviluppa nella materialità delle lotte come possibilità organizzativa di sue espressioni più avanzate (avanguardie) o non è niente!

Un ultimo punto ci ritrova invece concordi, laddove si appunta che “gli «organizzatori» di una manifestazione come quella di pochi giorni fa non hanno […] l’immaginazione strategica adeguata a imprimere un segno comune e rivoluzionario al divenire del 19 ottobre. Questo è un affare collettivo”. Siamo d’accordo a patto di riconoscervi un limite soggettivo generale che riguarda tutt*. In questo senso riteniamo che il #19o sia stato (senza sopravvalutazioni inopportune) un momento importante nella misura in cui le forze più organizzate si sono mosse nell’ottica non di rappresentare e controllare tutto quello che quella piazza poteva essere ma costruendo le condizioni di possibilità affinché fosse piena delle diverse articolazioni e frammentazioni di cui è composta la classe oggi (dato a nostro avviso rinvenibile nelle presenze di quella giornata, per numero e qualità).

Costruire collettivamente condizioni di possibilità, questo potrebbe essere un buon punto comune da cui partire…


Red. InfoAut

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