Primavera italiana?
La tornata delle amministrative ha messo in evidenza una grande difficoltà del centro-destra. I consensi a Berlusconi si sono erosi. La Lega non è riuscita a intercettare i voti in uscita dal Pdl, né ad attrarre voti dal centro-sinistra giocando la carta dell’“opposizione” alla guerra in Libia. Anzi, ne ha persi anche dei suoi. I risultati elettorali sono il segnale che qualcosa si è modificato nella base elettorale del centro-destra, ove si va diffondendo delusione nei confronti tanto di Berlusconi che di Bossi.
La fine del sogno
Per quanto riguarda il primo, serpeggia il dubbio che forse davvero pensa solo ai fatti propri, oppure che, in fondo, non sia più capace di governare. Nessuno gli contesta la libertà di fare quello che vuole, dagli affari propri al bunga-bunga, aggirando le leggi o contravvenendole, oppure redigendone a propria misura. La libertà di B. è la libertà di tutti coloro che possiedono denaro di poterlo moltiplicare senza vincoli e di poterne dissipare per il proprio godimento. Una precisa libertà di classe, dunque, nella quale si riconosce la parte maggioritaria di imprenditori (grandi, medi e piccoli), artigiani, rentier, ecc., ma che ha conquistato consensi anche nelle classi lavoratrici. Queste non hanno denaro per emulare le gesta di un B., ma possono almeno coltivare la speranza di emularle, essendo ormai smantellato l’unico strumento per conquistarsi un po’ di benessere, la lotta collettiva organizzata.
Dalla “discesa in campo” in qua questi ceti sociali hanno ottenuto molto da B. Il consenso glie lo hanno dato non perché abbindolati dalle promesse, ma per i tangibili risultati. Chi ha ottenuto di più sono le classi borghesi e piccolo-borghesi (i risultati più succosi: smantellamento del “potere sindacale”, opportunità d’affari in grandi opere e settori privatizzati, maggior facilità di sottrarsi al fisco). Meno, molto meno, hanno avuto le classi lavoratrici: qualche incentivo fiscale allo straordinario e il fatto di poter alimentare la speranza di potercela, prima o poi, fare, grazie, magari, a qualche lotteria o Grande Fratello o Amici o… regali generosi alle proprie figlie… da parte di qualche bavoso magnaccia.
Da quando però la crisi ha smesso di essere una parola ed è diventata una concreta realtà, questi settori hanno dovuto prendere atto di una sostanziale impotenza del governo a individuare politiche attive per frenarla o invertirne il corso. Il parallelo libertà del capo/libertà propria ha cominciato, di conseguenza, a vacillare, spingendo questi ceti in uno stato di confusione e disaffezione verso il proprio referente, che ha portato, sul piano elettorale, al crescere dell’astensione, non a significativi traslochi verso il centro-sinistra.
In buona misura l’impotenza del governo è dovuta alla scarsità di risorse finanziarie, sulle quali grava il peso del gigantesco debito pubblico, a rischio di forte crisi per attacchi speculativi. Ma questo non giustifica agli occhi dei delusi del centro-destra l’incertezza del governo, che vorrebbero molto più attivo nel drenare risorse al welfare, pubblico impiego, “politica”, ecc. per dirottarle ai “ceti produttivi”, ossia sé stessi.
Anche sul piano internazionale la delusione è forte. L’emarginazione dell’Italia da ogni contesto di decisione è stata evidente con la guerra alla Libia. Il “gioiello” berlusconiano dell’accordo con Gheddafi è stato frantumato. B. si è rivelato completamente inaffidabile, rinnegando l’accordo fatto, piegandosi ai desideri di Sarkozy, e non riuscendo a influenzare neanche di una virgola le decisioni europee e americane. Anche la presunta solida amicizia con Putin non ha evitato all’Italia di finire triturata dai “fraterni amici”.
Bossi non sfonda
La delusione verso B. non è tracimata verso la Lega, che, a sua volta, manifesta segnali analoghi di delusione, già visibili prima del voto, ma divenuti, con esso, ancora più evidenti. L’elettorato leghista contesta ai suoi vertici il fatto di essere rimasti succubi di B. Di avergli concesso tutto, sul piano personale, senza aver ottenuto in cambio nulla di serio. Federalismo vago e con gli effetti posticipati chissà a quando, incapacità di fermare il flusso di risorse verso un Sud amministrato da una classe politica che, anche nel centro-destra, non dà alcun segnale di riscossa verso il saper contare sulle proprie forze. La stessa guerra alla Libia ha moltiplicato critiche e delusione: quasi nessuno ha creduto davvero che la mozione di Bossi avesse la capacità di invertire il corso della politica governativa e della coalizione internazionale guerrafondaia. Le critiche sul punto hanno inondato Radio Padania, con la maggioranza che paventava l’invasione degli immigrati, e una significativa minoranza che perorava motivazioni in tutto simili a quelle che il pacifismo di sinistra usava contro la guerra all’Iraq e che ha del tutto dimenticato nel caso della Libia.
Questa delusione si è sommata a perplessità già emerse tra i leghisti verso il “nepotismo” (con il “trota” promosso senza il normale apprendistato politico riservato a tutti gli altri militanti) e verso la crescente polifonia interna, con un partito che, aumentando il suo peso politico e amministrativo, comincia a dare spazio a un personale meno affidabile e controllabile dalla base rispetto a quello del ciclo precedente.
Nel raffreddarsi dell’entusiasmo leghista potrebbe aver pesato anche qualche dubbio nei confronti del padanismo. La Lega è, al momento, l’unico partito che si caratterizza per un obiettivo politico di lungo periodo, la Padania, e che si dichiara nemica dei “poteri forti”, a scala sovra-nazionale (le grandi banche, l’UE, le multinazionali, la loggia Bilderberg, ecc.) e nazionale (Confindustria, Vaticano, centralismo romano, ecc.). Ciò gli conferisce una tenuta maggiore rispetto agli altri, sul piano programmatico e della solidità della militanza. Tuttavia, anche questa caratteristica deve necessariamente fare dei bilanci e ri-posizionarsi di continuo rispetto alla contingenza. La dimensione mondiale dei problemi che stanno esplodendo potrebbe, al momento, aver tolto un po’ di credibilità alla prospettiva della “piccola patria”, come, peraltro, sembra avvenire anche in Quebec, con la batosta alle elezioni del 4 e 5 maggio per le forze quebecoise.
Anche la “politica della paura”, (la sinistra espropriatrice, la micro-criminalità, l’invasione di immigrati e zingari), straordinariamente efficace nel costruire il successo elettorale del 2008 e dei primi anni di governo, sembra aver esaurito la carica propulsiva. Probabilmente perché non riesce più a fare velo ad altre più minacciose paure (crisi economica, minaccia del debito pubblico, incertezza delle prospettive individuali, ecc.). B. & B. continuano, tuttavia, a tenerla ben al caldo. In effetti, al di là della contingenza momentanea, sono paradigmi irrinunciabili per la destra, che torneranno utilissimi per un suo rilancio, a breve o medio termine, allorquando si rideterminassero le condizioni per una nuova polarizzazione verso destra. Una destra che dovrebbe, però, aggiornarsi nel personale politico e, almeno per il Pdl, trovare un modo diverso di essere partito, meno effimero, meno dominato da lobby affaristiche, meno legato agli umori e al potere di un capo assoluto.
Dietro il risveglio a sinistra
Per il centro-sinistra le elezioni sono state un soffio di vita. Hanno fatto balenare la possibilità di tornare a essere soggetto credibile nelle aspirazioni di governo. In verità, più per i demeriti altrui. Non di meno, le speranze si rinfocolano. Un soffio più consistente di vita sembrano, inoltre, averlo avuto le ipotesi più “di sinistra”. Pisapia, De Magistris, Zedda, pur a diversi livelli, sembrano sollecitare un certo ritorno a temi e soluzioni più confacenti a un centro-sinistra con l’accento sul secondo termine.
Proprio queste caratteristiche più “battagliere” hanno richiamato al voto una parte dell’elettorato di sinistra che si era parcheggiato nell’astensionismo, nonché un consistente voto giovanile. La componente sociale di questa riattivizzazione elettorale è costituita soprattutto dal ceto medio riflessivo, stanco del berlusconismo e disposto a rimettersi in gioco in una prospettiva di maggiore attivizzazione, ossia non come semplice elettore passivo. I successivi referendum, la campagna “di base” che li ha sostenuti e il loro esito, hanno confermato ulteriormente i caratteri di questo “risveglio”.
Il risultato delle amministrative e quello dei referendum, sono, senza dubbio, il frutto delle mobilitazioni degli ultimi due anni: scuola, precari, immigrati, Pomigliano, Mirafiori, lavoratori in lotta contro i licenziamenti, pastori sardi, ecc. Accanto a queste mobilitazioni di carattere più direttamente sociale si sono sviluppate mobilitazioni contro l’uso e il consumo delle donne e dei loro corpi, e mobilitazioni che contrastavano l’individualismo berlusconiano appellandosi in alternativa a un senso di responsabilità verso la collettività. Quest’ultimo è un movimento molto variegato, che va dalla centralità dello stato nei suoi aspetti di legalità (Saviano) a quelli di un solidarismo cattolico (Famiglia Cristiana e la galassia di organismi cattolici di solidarietà ai migranti, ai poveri, ecc.) che mischia statalismo e auto-attivizzazione, a quelli intermedi e laici (popolo viola, Il fatto quotidiano). Una terza scala di mobilitazioni sono quelle di resistenza sui “beni comuni” (No Tav, No Ponte, No discariche, ecc.) che hanno dato vita a una mobilitazione di carattere politico più generale con la raccolta di firme per i referendum sull’acqua e il nucleare.
Queste spinte hanno trovato naturale convergere su persone come Pisapia, De Magistris, Zedda, contando, così, anche sul fatto di innescare nel centro-sinistra un processo di riforma dall’interno. Riforma dei programmi (meno privatizzazioni, più pubblico), e riforma degli apparati e del personale politico, in modo da fare spazio alle nuove soggettività sorte dalle mobilitazioni dal basso.
In fondo anche il successo del Movimento 5 Stelle rinvia alla stessa rivendicazione: critica radicale a tutta la “politica”, invocazione alla mobilitazione “dal basso” dei cittadini per prendere in mano le proprie sorti, nella convinzione che in questo modo chi davvero “merita” possa emergere, al contrario di quanto avviene nella situazione odierna in cui ad emergere sono gli amici, i parenti e i servi dei potenti.
Il movimento che si è sviluppato negli ultimi due-tre anni è molto composito, ma con alcuni tratti unificanti. Uno è senz’altro quello dell’anti-berlusconismo, che ha contribuito, per esempio, ad elevare la partecipazione al voto referendario, sia dell’elettorato di sinistra che in quello di destra che inizia a dubitare del Cav. Tuttavia, c’è un abisso tra l’antiberlusconismo dei Bersani, dei D’Alema, dei Di Pietro, ecc. e quello di tale movimento. I primi condividono con B. alcuni temi di fondo (uno su tutti: l’identificazione dell’“interesse generale” con quello delle imprese), il secondo, invece, manifesta elementi di critica che vanno al di là della persona e chiamano in questione aspetti più radicali.
Nuove istanze dal basso
Nei referendum ciò è stato molto visibile. Tre quesiti (acqua e nucleare) ponevano in modo esplicito la domanda se si preferisse affidare oppure no due beni essenziali come acqua e produzione energetica nelle mani delle imprese. La risposta è stata un netto no! La fiducia negli imprenditori è, in effetti, a livello bassissimo, lo registra anche una ricerca (liMes n. 2/2011) in cui risulta che nella graduatoria dei motivi d’orgoglio nazionale gli imprenditori sono al penultimo posto (8,7%), appena sopra i politici (2,8%). Un’imprenditoria famelica, avida di profitti, incurante dei danni che crea a lavoratori, bilanci pubblici ed ambiente non riesce a meritare una fiducia maggiore. Si potrebbe pensare che questo sia un fatto esclusivamente italico, di un paese, cioè, che ha in B. il rappresentante sommo dell’affarismo anti-sociale e predatorio, ma sarebbe un po’ superficiale. Non è fatto solo italico, né riguarda solo B.
Gli ultimi vent’anni sono stati, in effetti, scanditi da un bombardamento politico-culturale-mediatico teso a dimostrare la potenza efficientista dell’impresa contrapposta alla macchina degli sprechi rappresentata dallo stato, e a trasformare la figura dell’imprenditore in un mito dell’epica moderna, capace di fare affari in proprio creando un effetto di trascinamento per i suoi dipendenti e per l’insieme della società. Molte delle fortune elettorali di B. sono state fondate sui benefici che sarebbero derivati dal mettere un imprenditore al governo, per gestire lo stato come un’impresa. L’Italia è stata laboratorio politico di programmi che venivano, però, promossi urbi et orbi. La crisi ha imposto un tragico bilancio: la logica d’impresa non ha salvato gli stati, e le imprese, spesso, non hanno salvato neanche sé stesse, mentre gli imprenditori si sono, per lo più, salvati, rifugiandosi nella finanza, piegando ai propri interessi i bilanci e le politiche statali e sottoponendo a spremitura crescente i lavoratori, “garantiti” e precari.
Il dubbio, insomma, che mettere l’amministrazione della società nelle mani delle imprese non sia la migliore delle soluzioni si è fatto molto spazio. La questione non riveste un carattere ideologico-politico, ma ha un rilievo eminentemente pratico. I tipi alla Berlusconi, De Benedetti, Tronchetti-Provera, e via celebrando, seducevano l’immaginazione di milioni di persone, disposte per questo a giustificare tutti i loro “eccessi”, perfino gli sconfinamenti nell’illegalità, fino a quando la “gente comune” poteva alimentare l’aspettativa di poterne ripetere il percorso di successo individuale. La crisi si è incaricata di svelare l’illusorietà di tali aspettative e ha spogliato i re degli scintillanti abiti di cui sembravano vestiti.
È appena il caso di precisare che tale critica di massa non è al capitalismo in quanto sistema, ma ad alcuni suoi specifici aspetti, che si ritiene suscettibili di correzione o, per lo meno, di esser mantenuti sotto controllo. Tanto per dire la delusione provocata dal trentennio di egemonia politico-culturale dell’impresa, non comporta il diffondersi dell’obiettivo di abolirla per far posto a una cooperazione sociale che risponda ai bisogni umani e non alla contabilità del dare/avere misurati in denaro, ossia in profitti, ma produce la convinzione che si possa essere “diversamente” imprenditori, più onesti, più responsabili verso lavoratori, società e ambiente. Coniugare, insomma, i profitti con responsabilità, più equa ripartizione, maggiore uguaglianza. Temi cari al riformismo classico del movimento operaio, ma, che, tuttavia, sono posti in un contesto completamente diverso e da attori dotati di soggettività politico/organizzativa molto meno strutturata di quella di allora.
Quale conflitto?
La strada per una tale riforma è la mobilitazione e il coinvolgimento attivo dei “cittadini”, lo strumento è il potere pubblico, lo stato. Questo, in verità, ha dato ampia prova di non essere un potere neutro. Negli ultimi trent’anni più che nei precedenti tre secoli dalla sua nascita come stato moderno, ha dimostrato di essere totalmente al servizio dei comitati di affari espressi da un pugno di grandi imprese multinazionali che manovrano produzione, commercio e, soprattutto, finanza, e dai loro epigoni all’interno di ogni singolo paese. Non di meno, allorquando dal basso ci si pone il problema di quale strumento adottare per resistere agli appetiti predatori di chi detiene il potere economico e finanziario non si può fare a meno di riferirsi allo stato. Inevitabilmente, però, se ne devono mettere in discussione le modalità con cui si organizza il potere politico e interrogarsi sulla democrazia. Questa questione, non a caso, costituisce un trait d’union per tutti i moti che si sono sviluppati sulle due sponde del mediterraneo in questa prima metà del 2011. Fatte le debite differenze, ovunque è, infatti, emersa la domanda su chi davvero detiene il potere politico e di come fare per rendere davvero la democrazia il “potere del popolo”. La soluzione del problema va molto al di là delle questioni tecnico-giuridiche e rimanda, in ultima istanza, alla questione di classe: deve dominare il profitto (dei Marchionne, delle “cricche”, della finanza internazionale, ecc.) o i bisogni dell’umanità?
In mille (e diversissime) forme il problema si va ponendo a livello di massa e, se pure non ha già trovato “la” soluzione, comincia, non di meno, a ricercare, in gran numero, soluzioni parziali.
Restando all’Italia, dalle elezioni e dai referendum è emersa una critica di massa al sequestro di potere da parte delle cricche imprenditoriali sostenute dalla politica mainstream di destra e di sinistra. Ed è emersa anche, come si diceva, una voglia di partecipazione attiva che presuppone, e rivendica, due cose in particolare.
La prima: un ridimensionamento della democrazia rappresentativa a vantaggio di una apertura alla partecipazione di cittadini organizzati non nei classici partiti, ma in forme di discussione, iniziativa, auto-attivizzazione.
La seconda: l’accantonamento del predominio dell’interesse delle imprese, della finanza, degli affari.
Le componenti che si sono spese in questa direzione sono varie, ma quella che, forse, si è spesa (e si spende) con maggiore convinzione è buona parte dell’immensa galassia del lavoro “precario”. A ben vedere anche in questo mondo è cambiato qualcosa a causa della crisi. La condizione precaria era, infatti, prima della crisi resa, in qualche misura, sopportabile da due elementi: il sostegno delle famiglie e la speranza di avere, grazie all’impegno sul lavoro, l’opportunità, prima o poi, di riuscire ad affrancarsi dalla precarietà, raggiungendo il successo individuale o, in alternativa, una certa stabilità del lavoro dipendente. La crisi ha spazzato entrambe le certezze, lasciando intendere che “da soli” è ben difficile “farcela”!
Di qui nasce il dubbio verso il precedente paradigma, ma anche la ricerca di una diversa soluzione: una democrazia e un’economia che non siano sequestrate dai soliti interessi, ma tengano conto dei bisogni diffusi. In questo modo le competenze dei tanti singoli che oggi sono esposti allo sfruttamento più selvaggio, alla precarietà e al furto di futuro, potrebbero trovare una giusta collocazione, nell’interesse di tutta la società.
Nelle condizioni date questa domanda viene rivolta ai pubblici poteri, oggi i sindaci alla Pisapia e De Magistris, domani un governo nazionale basato su analoghe politiche “inclusive”. Non contiene nulla di antagonista, ma si pone su un terreno esclusivamente riformista. Otterrà una positiva accoglienza?
Al momento la situazione dell’Italia comincia a manifestare i tratti di una drammatica crisi. Sotto la spinta di UE e BCE, o sotto quella della speculazione finanziaria internazionale, si dovrà mettere mano allo stratosferico debito pubblico. La speranza berlusconiana di evitarsi il problema grazie alla “ripresa” è miseramente fallita. Anzi, l’industria nazionale arranca e perde quote di mercato, anche i soli colossi nazionali rimasti (Eni, Enel) sono “sotto osservazione” delle agenzie di rating, dopo aver perso importanti affari e posizioni di dominio (come l’Eni in Libia). Combinare insieme rientro dal debito pubblico e rilancio della produzione nazionale sarà un compito improbo per chiunque. E, non a caso, avanzano progetti di governi di “unità nazionale”, capaci di misure “anti-popolari”, mentre una buona parte del centro-destra già prende le distanze (o si prepara al dopo) posizionandosi a rigido baluardo dei “tartassati”.
D’altra parte i terreni da depredare sono quelli di sempre: pensioni, sanità, scuola, pubblico impiego e aumenti di produttività del lavoro in tutti i settori. Ma, questa volta, la cosa è molto complicata. Infatti, da un lato potrebbe non essere sufficiente raschiare i soliti fondali, dall’altro potrebbe causare forti resistenze, soprattutto dopo quello che è successo in Grecia e nel Nord-Africa. Ci sarebbe, come dice Napolitano, bisogno di maggiore coesione sociale. E, lui per primo, sta già orchestrando una politica che metta a frutto il moto di “assunzione di responsabilità” da parte dei “cittadini” al fine di varare un piano di “salvezza del paese”, in cui “tutti” facciano la loro parte di sacrifici. Da sinistra (anche da Vendola) ha già ricevuto le risposte che attendeva. Per rendere più accettabili i sacrifici qualcosina in cambio si dovrà, probabilmente, dare. Alla Cgil in questi giorni Confindustria qualche miserissima cosina l’ha già proposta, in cambio però della definitiva destrutturazione dei contratti nazionali e di quel che rimaneva di una rappresentanza sindacale ancora non completamente istituzionalizzata. Ai precari qualcosina la si potrebbe proporre, per esempio, in termini di sostegno al reddito nella fasi di disoccupazione, oppure qualche opportunità di lavoro socialmente utile, dopo aver cercato di frenare l’appetito eccessivo di qualche “cricca”.
Sarà sufficiente per scongiurare il conflitto? Accetteranno i lavoratori, i giovani, le donne, gli immigrati, i pensionati di arretrare ulteriormente nelle loro condizioni di vita e di lavoro per salvare il bene “pubblico” dell’economia nazionale, ossia il meccanismo che consente a una ristretta classe, nazionale e internazionale, di capitalisti e di rentiers, di difendere e accrescere le loro ricchezze? Accetteranno gli stessi soggetti, nell’altra faccia della loro esistenza (che va sotto il nome di “cittadini”, ma che, in realtà, riguarda la riproduzione della stessa loro vita), di lasciare sciolte le briglie del saccheggio e della depredazione di ogni bene a vantaggio dei soliti noti che già sbavano dinanzi alla possibilità di appropriarsi a prezzi stracciati della Grecia, del lavoro e della vita dei greci che lavorano?
La questione di “chi paga”, potrebbe, dunque, diventare il terreno di uno scontro sociale molto più radicale di quello che si è iniziato a vedere in questi due ultimi anni e che si è riversato anche nelle recenti amministrative e nei referendum. Per il movimento sviluppatosi finora le prove saranno molto dure, a partire già ora dalla Val di Susa. Gli esiti dello scontro saranno, in larga misura, influenzati anche dalla capacità di costruire un fronte di lotta che vada al di là dei confini nazionali. Da un lato si muove un potere già fortemente internazionalizzato. Dall’altro lato, le potenzialità sono immense, ma, al momento, per nulla sfruttate, e, anzi, si sta consentendo all’imperialismo (italiano compreso) di re-introdursi in Libia, e da lì condizionare e tenere sotto controllo il “risveglio arabo e nord-africano”.
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