Proficue ambivalenze del grillismo
Le elezioni di febbraio hanno sconvolto il quadro politico italiano. Le politiche rigoriste di Monti, appoggiato dalla Chiesa, hanno subito una sonora bocciatura. Si conferma che la borghesia che conta non è in grado di proporre un suo partito, mancandole sia il personale credibile che la capacità di costruire consenso (bisognerà tornarci su, se è vero che non è dato solo italiano).
Vittoria simile a una disfatta per Pd-Sel che si proponevano di continuare Monti con qualche pennellata di “attenzione” al lavoro. Credibilità decrescente per Berlusconi con la sua proposta di fare come se debito e crisi non fossero un problema per i ceti sociali di riferimento. Ridimensionamento secco per la Lega. Batosta senza attenuanti per la “sinistra alternativa”, di cui l’elettorato ha giustamente sancito la perfetta inutilità. Unico vincitore il M5S. Una vittoria che spariglia le carte, non a caso vista con grande preoccupazione dall’establishment politico nazionale ed europeo. Assai meno preoccupato quello Usa che intravede la possibilità di un maggiore incasinamento dell’Europa quale concorrente monetario nonché l’emergere di altri segnali favorevoli (di cui più innanzi).
Prima di esaminare questo successo, tre annotazioni minori ma non troppo: Berlusconi, dato per finito, ha parzialmente rigalvanizzato la sua base nella battaglia per scaricare i costi della crisi esclusivamente sugli altri settori utilizzando anche l’attacco al rigorismo di Berlino[1]; i ceti di riferimento del centro-sinistra escono ancor più depressi e spaesati dall’anno di sostegno a Monti, assieme ai loro sindacati, Cgil e Fiom; la Lega conquista la Lombardia contando di conservare forze sufficienti ad affrontare frangenti di precipitazione della crisi per riproporre la prospettiva padanista.
Grillo, grillini, grillismo
Il successo del M5S[2], è chiaro a tutti, ha rivelato l‘esistenza di una diffusa e trasversale opposizione alle politiche di “salvataggio” basate sull’austerity a senso unico. Ha anche evidenziato il prender piede di una certa consapevolezza che non si può affrontare la drammatica situazione presente, e quella più drammatica che si prepara dietro le nubi minacciose di un’irrisolta crisi, con i soliti mezzucci, ma serve qualcosa di “rivoluzionario”. Pur nell’assenza di ampie mobilitazioni sociali, gli spostamenti molecolari in atto nella società hanno portato alla luce quasi di colpo un’aspettativa di cambiamento diffusa. Nessun soggetto di sinistra intercetta il minimo briciolo di questi sentimenti di massa. Non quella governativa a ogni costo (Sel), non quella “extraparlamentare” per forza (Ferrero & c.), e neanche la sinistra a-parlamentare per scelta. Le prime due sono percepite come compartecipi del disastro cui si è giunti, la terza verifica che non basta la crisi della sinistra ufficiale per vedere riempirsi le piazze e ingrossarsi le proprie fila. A quelle istanze ha invece dato voce, in parte intercettandole in parte anche costruendole online e offline, Grillo. Ma è importante per approssimare un’analisi non impressionistica di quanto sta accadendo aver presente che né tra Grillo e grillini c’è piena identità -la dialettica tra i due poli è anzi solo agli inizi- né il grillismo esaurisce la dinamica sociale e politica di cui al momento è laboratorio, ma che è più profonda e va ben oltre l’Italia.
Verso il M5S si è orientata un grande parte di giovani con un presente precario e senza speranza di futuro. Ma anche una parte significativa di lavoratori, dipendenti e autonomi, che vedono crollare le prospettive e ormai in pericolo anche il presente. Vecchio e nuovo proletariato che sta esaurendo la fiducia nella politica del compromesso a tutti i costi, perseguita con l’aspettativa di “contenere i danni” col “meno peggio” per poi accedere al “secondo tempo” di ripresa del capitalismo. Il secondo tempo non arriva, e se anche arrivasse non ne beneficerà chi sopporta lo sforzo lavorativo ma chi su tale sforzo già ingrassa. Meglio, dunque, rifiutare ogni ulteriore compromesso e alleanza al ribasso e aspirare a una “presa di potere” in proprio, come si propone di fare il M5S, sul quale si riversa infatti un mix che combina la ”conquista del mondo senza presa del potere”, retaggio dei no global, con l’istanza sempre più urgente di far fuori la casta dominante, inetta e cleptomane, e imporre un proprio programma.
Ambivalenze del grillismo
Come imporre un proprio programma? Il meccanismo della delega, utilizzato dalla “sinistra” per rappresentare le istanze proletarie nei precedenti sessant’anni, sgarrupa assieme a lei. Se la delega è fonte di raggiri e tradimenti, non resta che muoversi in prima persona. Su questo piano la proposta di Grillo di attivizzazione dei cittadini sembra molto più promettente della vecchia rappresentanza tramite partiti e sindacati. Inoltre, essa ha il pregio di affrontare un altro serio problema: la politica deve essere un servizio e non una professione. Non deve servire a procurare arricchimenti, ma neanche a creare rendite di posizione di status sociale: il politico professionista non è necessariamente più esperto di una qualunque casalinga, e sicuramente magna di più.
Quale programma imporre? Sul punto le spinte confluite verso il M5S sono composite e rispecchiano le istanze dei diversi ceti sociali. Nondimeno, alcuni elementi ne tracciano il terreno comune. Qui la percezione di massa, confusa quanto si vuole, varca la soglia inibita agli “esperti/propagandisti” del mercato: il sistema così com’è oggi non avrà più fasi di sviluppo prorompente che diffonda benefici per tutti, tranne forse che nei paesi emergenti fino a quando non saranno definitivamente emersi (o, nei desideri occidentali, sommersi). C’è bisogno, dunque, di adattarsi alla nuova realtà di minore e decrescente ricchezza e affrontare il problema che la crisi e le difficoltà finanziarie degli stati mettono all’ordine del giorno: la sopravvivenza di masse sempre più ampie. L’adeguamento deve essere ugualitario, coinvolgere tutti, ma a partire dalle classi superiori in modo da lenire i sacrifici di quelle inferiori. Questa istanza dettata da aspettative economiche decrescenti è oggi diretta principalmente se non essenzialmente contro la casta politica, ma contiene in embrione una delle questioni centrali che riguardano il sistema capitalista in quanto tale: non solo l’appropriazione della ricchezza sociale avviene in modo inversamente proporzionale -guadagna di più non chi produce ma chi esercita il comando, soprattutto finanziario- ma in gioco in questa crisi c’è sempre di più la questione della riproduzione dell’intera società (nel suo rapporto con la natura).
La riduzione delle risorse esige inoltre un’accurata selezione nell’impiego e la discussione dei criteri da utilizzare. Il M5S raccoglie qui uno dei significati generali contenuti nei movimenti sui beni comuni degli ultimi anni, a partire dal No Tav, che hanno trovato nel Pd un sistematico avversario e nella sinistra “alternativa” un sostegno solo strumentale.
Nel voto al M5S si ritrovano poi, in modo più confuso, altre questioni decisive: cosa e come produrre, e chi decide in merito. La “civiltà dell’auto” e l’edilizia infinita sono in affanno come traino all’attività economica. Per altro verso, il lavoro ha smesso di essere strumento di miglioramento delle condizioni di vita e riscatto per i figli e somiglia sempre più a una schiavitù per chi lo fa in modo (precariamente) stabile e in una schiavitù peggiore per chi lo fa in modo instabile o non ne ha proprio. Fa capolino allora la domanda sul fine della produzione: per alimentare la bestia del vortice della finanza o per soddisfare i bisogni sociali?
Il voto al M5S non è stato dunque di sola protesta ma ha espresso, pur con le ambiguità dello strumento elettorale rispetto a quello delle lotte sociali, il maturare di una resistenza alle politiche di uscita dalla crisi ai danni dei soliti noti e allo stesso tempo spunti di programma alternativi dal contenuto di classe, nel senso attuale di una classe proletaria che ha ampiamente debordato i confini della fabbrica. Per comprenderne anche gli sviluppi immediati bisogna allora cercare di indagare nelle dinamiche di più lungo periodo che nella crisi possono aprirsi a partire dalle ambivalenze delle istanze fin qui emerse.
Anche senza entrare nel dettaglio, è infatti evidente come al tema del potere in proprio e alla critica della delega e della mediazione partitico-sindacale si accompagna nel M5S il tentativo di rivitalizzare “senza intermediari” la rappresentanza elettorale istituzionale proprio mentre il mito della democrazia della rete fa premio sui processi di “democrazia reale” del tipo Occupy (come dire: indignados o comodi a cliccare… indivanos?). Così pure, il tema della crisi dello sviluppo, se non indirizzata verso una riappropriazione sociale della ricchezza, rischia di risolversi in una sorta di “socialismo della miseria” propedeutico all’accettazione di quei sacrifici purchè equi portati avanti dalla sinistra fin qui giustamente criticata. Inoltre, l’istanza di selezione dal basso delle risorse e di taglio delle “spese inutili” che in sé può portare alla messa in discussione del meccanismo dell’indebitamento in quanto tale, può facilmente risolversi nell’inconcludente distinzione tra debito “legittimo” di cui farsi carico e debito “illegittimo” da ricontrattare per rilanciare la competitività nazionale. Senza contare che sembra scarsa tra i grillini, ma non sono gli unici!, la consapevolezza della portata globale dello scontro sul debito e sulle politiche di “uscita” dalla crisi, spesso e volentieri ridotto al recinto europeo: di qui a pensare di risolvere tutto con qualche ricetta nazionale anti-euro e antitedesca il passo non è poi così lungo (con gli Usa a fregarsi le mani…). Infine, permangono sullo sfondo, anche contraddittoriamente alla percezione che il sistema in qualche modo si è inceppato, la volontà di non incasinarlo del tutto e la speranza di potersi comunque limitare alla modifica del solo sistema politico.
Per dirlo in una battuta: tutti i temi agitati, singolarmente e nel loro insieme, contengono in potenza una critica radicale al capitalismo come sistema di produzione e riproduzione della vita umana ma potrebbero, allo stesso tempo, avere differenti esiti “imprevisti”: risolversi per inconseguenza in un nulla di fatto disperdendo così le energie catalizzate oppure portare acqua al mulino di altre opzioni, al momento solo sotto traccia, nell’ennesimo tentativo di rilancio dello stesso sistema capitalistico. Sarebbe però perfettamente inutile approssimare queste ambivalenze con spocchia. Nelle condizioni date generali e nel quadro italiano, il grillismo è al momento una pratica embrionale di riformismo dal basso che ha colmato, con caratteristiche proprie e relative alla fase attuale del capitalismo, il vuoto lasciato da una sinistra oramai al capolinea. Alla quale risulta incomprensibile -di qui il suo sconcerto[3]– il fatto che vecchio e nuovo proletariato si va, come di colpo, ridislocando su un piano nuovo avendo preso atto del tramonto definitivo di quanto ancora residuava, nel postfordismo, del tradizionale rapporto capitale-lavoro.
Il passaggio va filmato, non fotografato, ed è pregno di nodi irrisolti. Lo scioglimento di queste contraddizioni va al di là della banale contrapposizione grillismo/antigrillismo, attiene allo sviluppo delle forze sociali e politiche nell’approssimarsi dei gironi peggiori della crisi. Per comprendere la portata di questo scontro si deve guardare, ben oltre il personaggio-Grillo, a quelle forze nuove[4] sociali che si muovono nel sottosuolo e che hanno prodotto il movimento raccoltosi al momento nel M5S. L’esame di questo deve servire appunto a meglio comprendere quelle.
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[1] http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/6777-berlusconi-monti-marciare-divisi-colpire-uniti.
[2] http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/6642-grillo-anomalia-o-laboratorio e http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/6955-grillo-in-valsusa.
[3] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=12104: non ci sono movimenti perché c’è Grillo o c’è Grillo perché sono in atto dinamiche, e quindi movimenti, che si collocano al di là del nesso lotte-sviluppo?
[4] Come usava dire Romano Alquati.
continua… pag.2
Grillo…
Non c’è riformismo -se pure è il termine più adatto- senza un progetto dall’alto. Difficile sostenere ad oggi che Grillo questo progetto ce l’abbia bello e pronto, anche a non considerare gli inevitabili condizionamenti di una base sempre più composita. Quello che si presenta come programma, insieme, salva-Italia e anti-sistema ha però alcuni punti già delineati, anche se difficilmente definitivi.
Partiamo da una prima questione. Qual è il sistema che Grillo vuole cambiare? Quello capitalistico decisamente no. Di questo Grillo vuole modificare solo alcuni dettagli. Anzitutto, il fatto che sia dominato da camarille finanziario-industriali legate alla “casta”, abbarbicate a rendite di posizione, che negano spazio a chi lo merita, cioè i piccoli imprenditori e i giovani con competenze e conoscenze atte a rilanciare l’attività economica. Secondariamente, il fatto che la produzione sia dominata dalla parossistica ricerca di profitto individuale, mentre dovrebbe essere dominata da esigenze più “sociali” e “ambientali”. Meno profitti e distribuiti a misura del merito di ciascuno riconosciutogli dalla società. L’idea ha la stessa età del capitalismo. La correzione nuova è che il merito non deve essere riconosciuto solo dal mercato ma in qualche modo dalla società, incrociando con ciò la tematica dei “beni comuni”.
Il sistema che, invece, vuole cambiare a fondo è quello politico, con l’abolizione di partiti e politici professionali e l’irruzione dei “cittadini”. Il cittadino è, però, figura ambigua, come ambigua è la “società civile”. I cittadini sono portatori di interessi potenzialmente divaricanti. Come stabilire senza conflitto quale interesse sia davvero “comune”? Grillo risolve il dilemma invocando gli interessi di una “comunità” dai confini geografici delimitati, la comunità italiana che, all’occorrenza, si riconosce anche nel pluri-sbeffeggiato Napolitano se mostra ai crucchi la schiena diritta. Il tema Grillo lo riprende dalla destra, ma anche dalla sinistra riformista storica.
Alla testa della “comunità nazionale” ci vuole, tuttavia, qualcuno cui spetti di dirimere cosa rientri negli interessi nazionali. Non può essere un singolo individuo, ma deve essere per lo meno un’organizzazione coesa nel programma e nella militanza. Un partito, insomma, tenuto insieme non dalla somma democratica delle volontà individuali, ma dalla condivisione di una unica volontà. Con ritardi e difficoltà, forse per lui insuperabili, questo tipo di partito Grillo sta cercando di formarlo, anche se non può dirlo ufficialmente. Resta però del tutto irrisolto il rapporto tra attivizzazione di base e una disciplina che non voglia rimanere formale, aprendo del caso a soluzioni di “ordine”.
Ma c’è un altro elemento che Grillo vuole cambiare anche se per adesso non lo dichiara con la stessa forza con cui sostiene il resto della sua proposta: il sistema sociale. Il 26 febbraio ha messo sul blog un post che è come un’esca buttata per vedere l’effetto che fa. Ma i contenuti vanno presi sul serio, perché delineano con chiarezza un aspetto della “rivoluzione” di Grillo anche se passibile di differenti sviluppi. Il post divide l’Italia in due blocchi: il blocco A, con giovani senza futuro, esclusi, esodati, pensionati da fame, piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano. Il blocco B, con chi ha attraversato la crisi indenne, una gran parte dei dipendenti statali, i pensionati oltre i 5000 euro lordi mensili, gli evasori, chi vive di politica attraverso municipalizzate, concessionarie e partecipate dallo Stato. I giovani sentono di vivere sotto una cappa, cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie. I secondi vogliono mantenere lo status quo. “Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile … è possibile alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico … E’ una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.”
Sia chiaro: è positivo anche solo che il tema del reddito emerga all’ordine del giorno nello spazio pubblico di discussione, precondizione perché diventi finalmente un terreno di conflitto tra classi. E del resto, di fronte all’evidenza della crisi, la discussione si fa strada anche nel proletariato di fabbrica e in settori del pubblico impiego finora restii anche solo a discutere l’idea. Ma messo così rischia di configurarsi quasi come una specie di tessera annonaria per garantire il minimo vitale a tutti. Il che per molti significherebbe di più di quello che percepiscono ora, ma per altri di meno. Il taglio non sarebbe solo quello (sacrosanto) alle pensioni ricche, ma anche alle pensioni poco oltre il minimo e ai lavoratori pubblici. Per molti si tradurrebbe in salario non pagato sostituito da un lavoro prestato alla comunità e allo stato per il “bene comune” (d’altronde, non si dice anche a “sinistra” che “lo stato siamo noi”?). Con le pensioni abolite, i contributi accumulati finirebbero per la tessera annonaria, ridurre il debito pubblico e fornire alle imprese i capitali necessari a rilanciare la competitività nazionale sui mercati. Sarebbe come abolire la riforma Fornero per attuarne gli scopi!
È qui particolarmente evidente un possibile punto di caduta. Non l’unico del resto. Nondimeno, sarà tutto da vedere come si intersecheranno le istanze, per ora solo accennate, di riforma radicale del sistema salariale in generale – che alludono, nulla di più ma anche nulla di meno, al nodo del salario sociale – con le lotte del lavoro: quelle che hanno preso piede nel settore della logistica, col contributo essenziale dei migranti e il richiamo all’immaginario della primavera araba, e quelle che forse covano sotto la cenere a fronte delle imprese che chiuderanno mentre si esauriscono i vecchi ammortizzatori sociali.
Il programma di Grillo è sicuramente ancora confuso né passerà indenne tra gli sconvolgimenti sociali e politici a venire. Difficilmente sarà possibile al M5S arrivare all’auspicato risultato argentino di “riacquisizione della sovranità” senza il percorso argentino, cioè per vie solo parlamentari e senza il tracollo del paese e uno scontro duro nelle piazze. Il punto cruciale è vedere quante e quali “aperture”, contraddizioni, contaminazioni si apriranno in corso d’opera. Grillo per intanto rilancia combinando impostazione nazionalistico-comunitaria e consenso di massa. Peraltro sulla prospettiva “tutti più poveri, ma felici di esserlo” promette di arrivare se non la benedizione divina, almeno quella papale, espressione di un’istituzione antichissima, ma sempre capace di mettersi al passo dei tempi: accanto ai poveri “proattivi” purché non si mobilitino per uscire dalla povertà espropriando chi li espropria. Ma probabilmente i frutti su questo piano saranno raccolti da qualcun altro più coerente di lui sul piano del nazionalismo e soprattutto non prima di aver depurato le spinte sociali da quelle istanze non contenibili nel progetto di rilancio della nazione che pure emergono in maniera ambivalente dal grillismo.
Cosa rigenerare?
Fantapolitica? Nient’affatto. Probabilmente Wall Street, City, Goldman Sachs e Soros hanno apprezzato il risultato delle elezioni italiane proprio perché vedono l’Italia come laboratorio di una rigenerazione del capitalismo (oltre che per l’incasinamento indotto in Europa e nell’euro). Del resto il capitalismo persegue da anni la pratica del lavoro non pagato – in rete e fuori rete – mentre punta decisamente a una rigenerazione di sé passando attraverso il ribaltamento completo di ciò che resta degli assetti sociali precedenti attraverso una rinnovata “rivoluzione restauratrice” capace di detournare le istanze promananti dal basso – quelle stesse, paradossalmente, che non possono non interessare anche a chi si pone in una prospettiva anticapitalistica.
Servono “solo” consenso di massa e una situazione eccezionale, di guerra o simil-guerra. Per il primo il lavoro è iniziato da tempo: il consenso contro il pubblico impiego, per esempio, è relativamente facile da costruire in associazione alla condanna sociale della “casta politica”; il gradino successivo, lavoro non pagato nel privato, ne conseguirebbe subito dopo. Il sistema che al lavoro associa diritti ne sarebbe scardinato. Ognuno avrebbe il minimo vitale e tanto lavoro non pagato, con l’impagabile piacere di farlo per la “comunità nazionale”; guadagno in eccedenza solo per chi merita, perché investe capitali o ha competenze per migliorarne la competitività. Per la situazione di emergenza ci pensa poi la crisi generale del sistema. La perdurante recessione rinfocola i rischi dell’esplosione della nuova bolla speculativa creata dalla Federal Reserve, che gli Usa si curano di scaricare soprattutto su Cina e Brics, ma che non mancherà di colpire anche l’Europa, con nuovi attacchi ai debiti pubblici e all’euro. Un rischio di default dello stato spianerebbe il terreno a misure di esproprio di massa di risparmi, pensioni e salari, che non potrebbero darsi coi vecchi assetti politici. Non solo. Ogni “soluzione” comporterebbe il riaccendersi del conflitto tra nazioni se non, in prospettiva, una guerra generale tra predoni che si contendono risorse fisiche e umane del mondo. Ma questa, si sa, è soluzione che in ultima istanza può essere utile per distruggere un po’ di forze produttive, fisiche e umane, in eccesso dal punto di vista della riproduzione capitalistica.
continua … pag.3
All’immediato
Le incognite sono molteplici. L’Europa difficilmente potrà rinunciare alla politica di abbattimento dei debiti privati scaricandoli sui debiti pubblici e di questi scaricandoli sul proletariato, nella speranza di ridurre i rischi di nuove esplosioni finanziarie. Né si rinuncerà in Europa e Usa alle politiche di “ripresa” basate su un maggiore sfruttamento del lavoro. Nel frattempo il problema dei debiti tornerà a farsi sentire.
Grillo ha al momento il vento in poppa, ma non è detto che la realizzazione dei suoi propositi sia facile e vicina. Il suo movimento è ancora grezzo e molto composito, così come non del tutto sordo agli allarmi sul rischio ”ingovernabilità”. Ha contro i Bersani e buona parte della borghesia europea che, per paura del conflitto sociale, vogliono continuare a spogliare foglia a foglia i diritti dei lavoratori, dopo aver già creato milioni di lavoratori senza diritti. Ha contro Berlusconi che capisce che la rigenerazione dal basso del capitalismo esige un tipo nuovo di capitalista, meno bunga-bunga e individualismo sfrenato, e meno libero nel saccheggiare le risorse pubbliche. Ha contro la Lega che sostiene per la Padania una ri-edizione in sedicesimo del patto capitale-lavoro, ma non ne vorrebbe la completa abolizione. Bersani tenta di sfidare Grillo e riconquistare una parte dell’elettorato perduto. Un tentativo patetico di conservare ancora una parvenza di rapporto contrattuale tra capitale e lavoro, sul cui piatto però non mette nulla di importante per i lavoratori mentre scontenta i capitalisti nazionali e internazionali che reclamano “riforme” ben più radicali. Niente di più facile che per fermare Grillo tutti costoro, sotto la guida del grande protettore degli dei patrii, si decideranno a mettergli contro Renzi, l’unico anti-Grillo che può provare a mettere in atto il rinnovo della facciata al fine di completare lo spoglio della polpa. Con Renzi comunque non si avrebbe solo un governo di unità nazionale, ma anche la morte definitiva del Pd, un tentativo di costruire un grande partito degli interessi nazionali con buona parte del Pd e delle truppe Pdl che Berlusconi sarebbe ben felice di consegnare al suddetto.
Sul piano internazionale il quadro è ancora più incerto e confuso. Subito oggetto delle attenzioni “precauzionali” di Israele, via accuse di antisemitismo da parte della comunità ebraica romana, il M5S è al tempo stesso vezzeggiato dagli statunitensi, mentre Grillo mette la sordina a temi quali la ricontrattazione del debito con la finanza internazionale (prevalentemente anglosassone) inclinando, pare, verso la scorciatoia della più trita polemica antitedesca.
D’altra parte per Grillo il M5S, per conservare il carattere “rivoluzionario”, deve evitare contaminazioni, e ciò mette nel conto anche eventuali abbandoni degli eletti e persino qualche rinculo sul piano elettorale. Per realizzare una rivoluzione bisogna arrivare preparati agli svolti che la rendono possibile: il procedere nel fallimento da parte degli altri partiti o il precipitare della situazione di crisi finanziaria ed economica. L’una e l’altra molto probabili, anche nel breve tempo. Nell’attesa meglio dedicarsi a forgiare le proprie forze, allenandole nello scontro con gli avversari, piuttosto che farsi trascinare nella palude dell’inconseguenza e dell’incoerenza. Come reagirà il movimento a questa strategia? E saprà gestire il rapporto col Pd secondo la tattica della “corda che regge l’impiccato”?
In questo quadro una prospettiva antagonista non votata al minoritarismo non ha passaggi facili davanti a sé. Tanto più che non può presupporre un soggetto sociale già bell’e pronto da “traghettare” sul proprio terreno. Una cosa però già si intravede. I temi su cui una tendenza coerentemente anticapitalista può ricostituirsi non sono diversi da quelli agitati da un Grillo oggi o da altri fautori di “cambi rivoluzionari” domani. Non perché, appunto, li inventa o scopre qualcuno ma perché sono i nodi del capitalismo attuale nella sua crisi di sistema. La differenza consiste nel “piccolo” dettaglio della direzione del moto: verso il salvataggio, ancorché dal basso, della comunità nazionale o verso l’affermazione della comunità umana. Per il rilancio di un sistema di produzione fondato sull’impresa, sulla sua necessità di profitto, sullo scambio monetario, sullo stato, che, diretto da “caste” o “cittadini”, rimane pur sempre il moloch giuridico-militare a presidio della proprietà privata dei mezzi produttivi. O per l’affermazione di un sistema in cui i mezzi produttivi siano presi in possesso dalla comunità (mondiale, non nazionale) e la produzione sia organizzata con la cooperazione sociale di tutti, non venduta in cambio di denaro, ma distribuita secondo i bisogni di ciascuno. Sono temi sotto traccia emersi dalle più significative lotte a scala globale e da noi, “in piccolo”, nel No Tav. A decidere della direzione del moto saranno le forze reali che occupano e occuperanno la scena sul piano della soggettività politica organizzata come su quello dei movimenti di massa. Bisognerà tornarci su con ben altro approfondimento. Intanto il campo di forze si sta decisamente ridislocando, e non è poco…
24 marzo ‘13
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