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Prospettive su un marzo ecologista. Conversazione con Emanuele Leonardi

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Alla vigilia della Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili, abbiamo incontrato Emanuele Leonardi durante “Cosmopolitiche. Pratiche e movimenti della transizione ecologica” giornata di discussione organizzata da Genuino Clandestino sulle pratiche e i movimenti della transizione ecologica. Ne abbiamo approfittato per fargli alcune domande sull’inedito stato di mobilitazione ecologista e politica che sta attraversando il nostro paese e non solo.

Questo marzo 2019 è stato un marzo di movimento. Che lettura ti stai dando dei diversi momenti di moblitazione? È possibile tracciare un qualche legame tra di loro?

Penso che le mobilitazioni di questo marzo esprimano un nucleo comune molto importante, un medesimo spazio politico che si è aperto e va consolidato. Questo nucleo, in una parola, è il protagonismo della riproduzione sociale. Questo è il terreno su cui si approfondirà il rapporto tra i tre movimenti che si sono presi le piazze: l’8 marzo lo  sciopero transfeminista e transnsazionale, il 15 marzo lo sciopero climatico globale di F4F e infine la Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili del 23 marzo. Benché questo piano della riproduzione sociale sia maggiormente espresso dal movimento Nudm, gli altri due movimenti presentano tratti di continuità e di discontinuità l’uno rispetto all’altro.

Friday for future e i comitati ambientalisti contro le nocività, la cementificazione e le grandi opere hanno difficoltà a incontrarsi. Secondo te c’è una continuità tra questi due cicli di lotte ambientaliste che si stanno sovrapponendo?

La continuità sta nel fatto che rispondono alla stessa crisi del modello di governance implementato dagli anni ’90 ad oggi, egemone nei due momenti chiave del protocollo di Kyoto del ’97 e dell’accordo di Parigi del 2015. Questo modello di governance si basava sull’idea che il cambiamento climatico fosse un problema causato dal mercato (incapace di contabilizzare le esternalità negative ambientali) e che tuttavia la soluzione fosse “più mercato”, cioè un’altra ondata di mercatizzazione: il carbon trading, il pagamento per i servizi ecosistemici, il REDD+ per quanto riguarda le foreste, la geoingegneria e le biotecnologie sia “verdi” (agricole) sia “rosse” (mediche). Questa idea che ha strutturato le politiche pubbliche a livello globale per 20 anni è oggi drammaticamente in crisi, per questioni sia interne sia esterne. La figura di Trump è il simbolo che ne certifica la fine.

Il tema dell’IPCC, che alla Coop 24 non è stato più assunto come base scientifica delle negoziazioni, certifica la fine di quest’opzione dall’interno, come si intende dal fatto che sia stato reso possibile dall’intervento di Russia, Usa, Kuwait e Arabia Saudita. Molti movimenti della società civile, largamente intesa, da cui per varie vie e non direttamente proviene la figura di Greta Thunberg, avevano in qualche modo interloquito con la scommessa di base della green economy e quindi con l’idea di un cambiamento climatico risolvibile attraverso il mercato. Il problema è che dopo 20 anni di implementazione, non si è stati capaci non solo di ridurre le emissioni, ma nemmeno di rallentarle rispetto al periodo precedente: è evidente che si è fallito.

Oggi si ha la risposta di chi, in passato, aveva interloquito con questo modello, potremmo chiamarli i disillusi. Nelle parole di Greta questo è chiarissimo, le élites di questo processo delle COP  (Conferenze delle Parti) non sono più considerati degli interlocutori del movimento F4F perché hanno fallito: si rivolgono ad altri, cioè alle donne e agli uomini del pianeta. Questa è dunque la composizione del 15 marzo: spuria e molto variegata dal punto di vista dei temi, come dimostrato dai cartelli nelle varie piazze. Se questi sono i disillusi, quelli che scendono in piazza a Roma sono i disincantati, quelli che non hanno mai veramente creduto alla scommessa della green economy. Alcune ONG nel tempo hanno intavolato dei discorsi con le istituzioni, ma non si può dire che questo pezzo di movimento, anche a livello internazionale, abbia fatto parte del sistema delle COP: ne ha preso le distanze e ne ha combattuto gli effetti negativi che si sono susseguiti negli anni. Questo movimento mantiene un riferimento alla questione della diseguaglianza, da intendersi come diseguaglianza sociale complessiva interna alle società, e lo accompagna a una critica radicale del modello di sviluppo.

Se il 15 marzo prende il clima come obbiettivo singolo molto specifico, la manifestazione del 23 marzo mette a tema il rapporto distruttivo tra il modo di produzione capitalista e l’ambiente in generale. La composizione sociale di questo movimento è più definita. Lo zoccolo duro di militanti, in crescita anche se ancora relativamente circoscritto, cerca di ingrandirsi basando la propria strategia sulla radicalità delle vertenze e mi sembra trovarsi oggi nella condizione di fare quel passo per cui non era evidentemente pronto nel 2006. In quell’anno si tentò di creare un Patto di mutuo soccorso contro tutte le nocività, a guida di quelle che erano le vertenze più significative del tempo (No Tav, No Dal Molin, No Ponte) e di tantissimi altri comitati. Penso che oggi siamo nelle condizioni di riproporre un progetto politico come quello: una dinamica di integrazione delle singole istanze a livello più ampio, che miri a creare una forza di interposizione, un coordinamento nazionale (e non solo) molto più forte e potenzialmente in grado di durare. Questo è possibile perché le gambe sociali di questi movimenti sono cresciute enormemente negli ultimi 10-15 anni, in particolare dopo il crollo dei mercati finanziari del 2007-2008.

Questo marzo è stato anche segnato dal proseguimento della mobilitazione dei Gilets Gialli in Francia. Come inserisci questa mobilitazione nell’analisi che hai appena fatto del caso italiano?

Per prima cosa è fondamentale sgombrare il campo rispetto all’ipotesi più diffusa, quella che legge i gilets gialli come un movimento anti-ecologista, in ragione del fatto che si sia originato in risposta alla proposta di innalzamento del prezzo del carburante attraverso una tassa sulla benzina. 

Riprendo un articolo[1], molto interessante, della Plateforme d’enquêtes militantes, sviluppata da compagn* di base a Parigi, che sostiene che i gilets gialli esprimano tre aspetti centrali rispetto alla questione ecologista. Per prima cosa viene finalmente diviso il campo secondo la giusta linea di demarcazione, quella delle diseguaglianze sociali: il crollo della governance internazionale di cui parlavo prima ha dei risvolti a livello di politica interna – specialmente laddove capi di stato e figure politiche di rilievo avevano fortemente investito nella scommessa della green economy.

Il caso di Macron è esemplare. Macron infatti, in seguito all’elezione di Trump, invitò gli scienziati americani a trasferirsi in Francia, nazione a suo avviso all’avanguardia nella lotta contro i cambiamenti climatici. Qui c’è da tener conto di un passaggio concettuale importante elaborato da Andrew Ross. Egli sostiene che quando è uscito il rapporto del Club di Roma sui limiti della crescita, nel ‘72, le élites politiche capirono perfettamente che stava accadendo qualcosa di epocale, ma non seppero prevedere quale sarebbe stato l’effetto prodotto. Decisero quindi di fare quello che di solito fanno nei casi di incertezza: arraffarono il più possibile, portarono un attacco senza precedenti alle organizzazioni di classe e alle organizzazioni di movimento, per ristabilire un rapporto favorevole al capitale e riallargare una forbice sociale che nell’area euro-atlantica si era ristretta. Quello che in sostanza dicono i gilets gialli è quindi che se si vuole fare la transizione ecologica sulla pelle di chi è già impoverito, questa transizione non interessa e verrà osteggiata. Interessa, eccome, se invece la pagano i ricchi, che sono poi quelli che stanno all’origine del problema. C’è una linea di demarcazione sociale nella causalità del cambiamento climatico.

Il secondo punto che i compagn* della Plateforme mettono in evidenza riguarda le forme di lotta dei gilets gialli (il blocco dei flussi, l’utilizzo del territorio in una forma alternativa rispetto a quello del sistema di circolazione e produzione delle merci) come un tentativo di assumere la centralità dei territori nella produzione di valore (e come una conseguenza del divenire politicamente rilevante della questione ecologica). Il loro obbiettivo è quello di aggredire la produzione e la circolazione di valore laddove queste si danno in maniera più evidente che altrove. Una forma di lotta che aggredisce le modalità produttive contemporanee nel loro cuore.

Il terzo punto riguarda il compito politico che ci viene consegnato: lavorare queste potenzialità espresse dai gilets gialli, ma anche dagli altri movimenti citati in precedenza, per arrivare a una convergenza che separi nettamente l’ecologia politica di classe dall’ecologia politica delle compatibilità sistemiche. Questi 3 movimenti comunicano “oggettivamente” perché parlano della stessa crisi, ma questo non significa che debbano necessariamente convergere sul piano politico. La convergenza politica di questa comunicabilità dipende in gran parte dall’azione politica delle soggettività militanti. Questa è l’occasione politica, in tutti i sensi fondamentale, che ci viene consegnata.

 

[1]http://www.platenqmil.com/blog/2018/12/26/force-jaune–vert–rouge

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