Solo il popolo salva il popolo! Per un’autodifesa sanitaria!
Abbiamo tradotto questo interessante editoriale apparso sul sito francese ACTA di cui consigliamo la lettura!
Nel momento in cui scriviamo queste righe, la terza settimana di isolamento ha inizio e le misure restrittive si rinforzano. Non possiamo accontentarci di aspettare passivamente né il giorno che segue, né dei nuovi interventi delle istituzioni, non possiamo affidarci a coloro che sono i primi responsabili della situazione drammatica che abbiamo davanti agli occhi, non possiamo fidarci di coloro che, da troppi anni, hanno gestito gli ospedali come delle imprese che occorre capitalizzare al fine di massimizzare i profitti. No, quello che lo Stato è capace di fare è al massimo di amministrare il disastro. Bisogna, in questa situazione come in altre, imparare a contare sulle nostre proprie forze.
La volontà del governo di mantenere l’attività produttiva in dei settori «non essenziali» ricorda un’evidenza troppo spesso dissimulata: la nostra società, la società capitalista, si fonda in primo luogo su coloro che ne assicurano – perché vi ci sono stati assegnati – concretamente le mansioni materiali o immateriali necessarie alla soddisfazione dei nostri bisogni vitali. I quadri e altri dirigenti formati sul new management non sono là che per regolamentare, disciplinare, far rispettare la norma dominante della redditività economica.
Per definizione centrale, la questione della cura, della continuità delle nostre vite nella loro dimensione biologica, e del legame inscindibile tra questa biologia e le condizioni sociali che agiscono su di essa, è al giorno d’oggi in primo piano: da una parte gli Stati sono travolti dalla portata dell’epidemia (tanto dalla sua virulenza che dalla sua espansione), dall’altra essi se ne approfittano della crisi per sperimentare, su vasta scala, dei nuovi metodi di governo delle popolazioni. Il paradosso deriva dal fatto che i tagli compiuti agli ospedali non permettono agli Stati di arginare, mentre danno l’occasione di mettere in opera una nuova tecnologia del controllo sociale.
Per questo motivo, in numerose città in Francia come in Europa, delle solidarietà si sviluppano e si rinforzano, su scala di quartiere, di strada, di palazzo. Dei compiti che prima riguardavano una sfera ristretta, privatizzata nello spazio della famiglia nucleare, e la cui assegnazione a certe categorie era naturalizzata, sono ormai oggetto di un’organizzazione esplicitamente collettiva. Al contrario, dei luoghi che sono da troppo tempo deputati ad essere dei meri spazi di passaggio, dove le interazioni sociali sono strutturate esclusivamente dall’economia e dal consumo, diventano spazi dove la vita è rimessa al centro, ricordando che il dominio provoca delle resistenze e che «la vita come oggetto politico è stata in qualche modo presa in parola e rivolta contro il sistema che pretendeva di controllarla». [cit. da Michel Foucault, Histoire de la sexualité, I: La volonté de savoir, Gallimard, 2018, page 191.]
Ciononostante, in quanto militanti rivoluzionari provenienti dal ciclo dei movimenti degli ultimi anni – dalla primavera di lotta contro la Loi Travail all’insurrezione dei Gilets jaunes – sappiamo che questo disastro era prevedibile. Gli operatori sanitari sono in mobilitazione da molti mesi per denunciare la mancanza di posti letto e mezzi. Ogni anno sul lavoro muoiono degli operai per mancanza di protezioni. Persone anziane muoiono in condizioni d’isolamento e assolutamente indegne. Tutto ciò che oggi appare sotto una luce abbacinante esisteva già, ieri, nell’oscurità mediatica: è la vita di coloro che la borghesia e i media dominanti rendono inesistenti. L’inesistenza di un’organizzazione sociale definita dall’interesse privato, il profitto e la concorrenza, e in seno alla quale una parte sempre più consistente di popolazione, quella senza cui la vita stessa non potrebbe mantenersi, non conta affatto.
Partendo da queste constatazioni, sembrerebbe ormai innegabilmente che tali questioni sono le nostre. Che sono state da sempre le nostre: l’epidemia di HIV/AIDS alla fine degli anni ’80 e negli anni ’90 ci ha già insegnato fino a che punto lo Stato poteva disinteressarsi di certe vite, comprese quelle che più di tutte sono a rischio. Così facendo, questa storia ci ha insegnato la possibilità di un approccio che parta non dalle istituzioni statali, ma dai bisogni di quelle persone in prima linea, e fino a che punto tali bisogni, normalmente considerati marginali, si rivelino da sé antagonisti agli interessi dello Stato. [per un confronto tra l’epidemia attuale e quella di HIV: //medium.com/@GbrlGirard/covid-19-quelques-le%C3%A7ons-de-la-lutte-contre-le-vih-sida-1a25a25ba76b“>https://medium.com/@GbrlGirard/covid-19-quelques-le%C3%A7ons-de-la-lutte-contre-le-vih-sida-1a25a25ba76b>]
Se delle misure su grande scala sono senza dubbio necessarie, e persino vitali, ci occorre urgentemente approfondire un livello di organizzazione popolare autonoma in grado di dare consistenza alla parola d’ordine di autodifesa sanitaria. Ovvero: avviare un lavoro di solidarietà immediata, per e insieme alle persone più penalizzate dalla crisi, che sono anche quelle di cui lo Stato si disinteressa sistematicamente. Così facendo, si fa anche uscire la questione della cura dallo spazio privato entro la quale si ritrova confinata da secoli, definita da gerarchie di genere e razza, per farne la lente focale attraverso la quale ripensare la nostra organizzazione collettiva, la nostra riproduzione sociale.
Il nostro compito in questo scenario non è quello di rimpiazzare le associazioni umanitarie, ma di orientare nella stessa direzione delle pratiche frammentate, già esistenti e che si moltiplicano da quando è stato annunciato l’isolamento. Insomma di dar loro una traiettoria politica e antagonista. Una traiettoria che assume come prospettiva strategica la rottura dell’ordine capitalistico esistente e l’auto-organizzazione popolare su base territoriale come elemento di genesi di un contro-potere effettivo. Le solidarietà di cui noi parliamo si organizzano su scala locale e allo stesso tempo sorpassano i confini nazionali, aprendosi a connessioni su scala europea con un certo numero di altre realtà metropolitane alle prese con gli stessi problemi e le stese sfide. Queste solidarietà permettono ugualmente di inaugurare un’alleanza con certi settori definiti subalterni, ad esempio le cassiere e i cassieri, le infermiere e gli infermieri. Solo questi scambi renderanno possibile un discorso che permetta, di colpo e nello stesso tempo, di compiere un’azione che sia conforme ai bisogni della nostra classe: ai suoi bisogni più propri, piuttosto che a quelli che sono sottomessi alla sua riproduzione in quanto elemento essenziale al capitalismo. La solidarietà di cui parliamo non è un vacuo principio che trascende gli antagonismi, ma ciò che invece ci deve permettere di rinforzare la nostra capacità offensiva.
L’autodifesa sanitaria è dunque tutto tranne un concetto vago e oscuro: è una parola d’ordine che prende avvio da una realtà materiale effettiva, ovvero un insieme di pratiche quotidiane, tali quali sono per esempio portate avanti da brigate di solidarietà popolare distribuite ovunque in Europa – la spesa per le persone anziane, preparazione e distribuzione di cibo o di materiale protettivo per i lavoratori, apertura di spazi affinché i senza fissa dimora non si ritrovino isolati e indifesi, creazione di doposcuola per i giovani provenienti dalle classi popolari…
L’autodifesa sanitaria è un modo per ripensare la difesa delle nostre comunità, che non può essere assicurata se non tramite la messa in gioco, dal basso, di dispositivi di aiuto reciproco, di attenzione peculiare a persone in situazioni di forte precarietà, a coloro che subiscono l’isolamento e la repressione.
Questa autodifesa sanitaria non deve dunque costituirsi come prospettiva di lotta limitata al solo tempo dell’urgenza pandemica, e ancora meno deve essere pensata come una lotta settoriale. Non si tratta di compensare un sistema di previdenza sociale a cui mancano i finanziamenti, ma bensì di rimettere in causa il principio di razionalizzazione in virtù del quale le cause politiche e sociali di ciò che accade sui nostri corpi sono nascoste e affrontate separatamente dagli effetti che generano. La nostra autodifesa «sanitaria» è perciò un’autodifesa popolare, in quanto costituisce l’opportunità di ripensare il nostro rapporto con le modalità di riproduzione sociale nel loro insieme, nonché con l’organizzazione che ci permette, giorno dopo giorno, di produrre e riprodurre le nostre vite, e di interrogarci sulle forme di vita che vogliamo costituire assieme.
Le nostre resistenze sono vitali!
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