Strutture residenziali, il fascino indiscreto dell’internamento
I luoghi deputati al controllo dell’abnorme assorbono nel loro terreno separato la devianza, accettandola come tale e quindi assolvendo la funzione di normalizzare il contesto in cui la devianza si manifesta, spostandolo in un luogo in cui non possa interferire, neutralizzando il rischio che la “norma” possa risultare un valore relativo e discutibile, anziché un valore assoluto come deve continuare a presentarsi.
Franco Basaglia, Condotte perturbate
«Vorrei parlare del quadro profondamente preoccupante che sta emergendo nelle strutture di assistenza a lungo termine nella Regione europea e nel mondo nelle ultime settimane. Secondo le stime europee, fino alla metà dei decessi avvenuti per Covid-19 si è registrata in questi luoghi. Questa è una tragedia umana inimmaginabile». Le dichiarazioni del direttore regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa, Hans Kluge, fotografano una situazione che si è consumata, in tutta la sua drammaticità, anche in Italia.
D’altro canto, seppure le sovrapposizioni risultino sempre sommarie, restituendo solo un’impronta di superficie che necessita di ulteriori approfondimenti, è suggestivo provare a comparare alcuni dati. Nell’annuario di statistica del sistema sanitario nazionale (annualità 2017, l’ultima disponibile sul portale del ministero della salute), in Italia sono censite 7.372 strutture residenziali (Residenze Sanitarie Assistenziali, Case protette e in generale strutture che svolgono attività di tipo residenziale, ivi inclusi Hospice), per un totale di 251.701 posti letto. Le prime quattro regioni per numero di strutture residenziali sono la Lombardia (1.458 strutture, di cui 1.289 private e 169 pubbliche, 70.433 posti letto), il Piemonte (1.223 strutture, 1.061 private e 162 pubbliche, 36.319 posti letto), il Veneto (868 strutture, 742 private e 118 pubbliche, 36.608 posti letto), l’Emilia Romagna (852 strutture, 721 private, 131 pubbliche, 21.236 posti letto). Complessivamente si trova in questi territori circa il 60% delle strutture e oltre il 65% dei posti letto residenziali presenti in Italia.
Alle 17 del 1 maggio, secondo i dati del ministero, le quattro regioni più colpite dal Covid in Italia, per numero di casi, sono, in ordine, Lombardia (76.469), Piemonte (26.684), Emilia Romagna (25.644) e Veneto (18.098), per un totale di 146.895 casi sui 207.428 totali (oltre il 70%), con un totale di 22.015 morti sui 28.236 totali (circa il 78%). Se non si possono dedurre semplicistiche equazioni, e appare evidente l’intervento di ulteriori fattori ad aggravare gli esiti della pandemia (e innanzitutto l’aver mantenuto aperto l’intero apparato produttivo trasformando i lavoratori in corpi sacrificabili; l’ospedale-centrismo dell’intervento sanitario e l’assenza di controlli epidemiologici territoriali; l’abbandono domiciliare di chi non si trova in condizioni critiche), tuttavia appare evidente come la questione della residenzialità, per anziani, disabili psichici e fisici, ponga questioni non più procrastinabili.
Torniamo quindi ai dati. Dalle tabelle ministeriali risultano 3.365 strutture residenziali per anziani (199.737 posti letto, 278.865 utenti), 2.035 per l’assistenza psichiatrica (22.871 posti letto, 33.946 utenti), 911 per disabili fisici (13.111 posti letto, 25.209 utenti), 807 per disabili psichici (12.883 posti letto, 13.182 utenti), 271 per pazienti terminali (3.099 posti letto, 45.799 utenti). In totale, quindi, nel 2017 sono state 397.001 (656,4/100 mila abitanti) le persone ricoverate in strutture residenziali, con una media di oltre 200 giornate di ricovero per ciascun anziano, disabile psichico e persona in assistenza psichiatrica e 158 giornate per i disabili fisici. Come ricordato nell’articolo pubblicato su NapoliMonitor il 22 aprile scorso, si realizza poi un “vagare istituzionalizzato” tra più luoghi di ricovero, per cui, per oltre 350 mila persone in Italia, questi luoghi si trasformano in contenitori a lungo e lunghissimo termine, la maggior parte delle volte senza speranza d’uscita.
Molto interessante la distribuzione tra il pubblico e il privato con una netta prevalenza del secondo: sono 1.326 le strutture residenziali censite nel comparto pubblico, 5.998 nel privato, a fotografare un campo di intervento che è stato quasi del tutto delegato all’imprenditorialità capace di acquisire e gestire grandi strutture, realizzando enormi profitti e mettendo in campo impressionanti capacità di lobby.
Numeri da considerarsi, comunque, sottostimati e soprattutto incapaci di fornire un quadro esaustivo della situazione. Come avvertiva nel 2007 lo stesso ministero per la salute nel documento Prestazioni residenziali e semiresidenziali: “Una stima precisa è fortemente condizionata dalle diverse modalità di classificazione di queste strutture che le singole Regioni hanno adottato. Si dà atto infatti che la denominazione corrente di RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) ha assunto nelle singole Regioni significati diversi, con confini spesso mal definiti rispetto a Case Di Riposo, Case Protette, Residenze Protette, Istituti di Riabilitazione Geriatrica, Lungodegenze Riabilitative, etc. Se l’esatta classificazione delle strutture è molto incerta, i dati sulle prestazioni erogate sono praticamente inesistenti, in assenza di un flusso informativo nazionale che consenta di rilevare l’episodio di ricovero. Men che meno esiste un flusso in grado costruire indici di case-mix assistenziale dei soggetti assistiti e di valutare l’appropriatezza del trattamento”.
La condizione non sembra essere migliorata, ci sono alcuni (in realtà pochi) studi (per esempio quelli promossi in questi anni dall’Auser), ma un vero e proprio censimento pubblico in grado di fornire una precisa fotografia quantitativa e qualitativa delle strutture residenziali non esiste.
Il 30 aprile scorso, nel suo discorso alla Camera per annunciare le misure assunte per la “fase 2”, il primo ministro Conte ha affermato: “Dobbiamo incrementare il fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare per potenziare i percorsi di accompagnamento per l’uscita dal nucleo familiare di origine ovvero per la deistituzionalizzazione”, accennando a un programma di interventi che resta tutto da definire e decifrare. Ci chiediamo: si prefigura, allora, un orizzonte operativo volto a mettere in discussione il paradigma di internamento che ha portato anziani e disabili psichici e fisici a nuovi processi di anomia, marginalizzazione ed esclusione, o, piuttosto, si produrranno interventi parziali che al più realizzeranno un’azione di metamorfizzazione di questa assistenza, incapace di metterne in discussione il fondamento?
Purtroppo, al momento, in assenza di un vero dibattito democratico nel paese, che muova da dati quantitativi e qualitativi certi e da testimonianze e storie capaci di coinvolgere l’opinione pubblica, sembra più verosimile la seconda ipotesi. Anche perché, già in questi ultimi giorni, si stanno definendo ordini discorsivi volti a creare distinzioni se non a capovolgere le questioni in campo. Così, per esempio, nelle regioni dove si è registrato un minor numero di decessi in Rsa, come la Campania, anche in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, si approntano narrazioni volte a esaltare la capacità organizzativa delle strutture, chi le dirige, chi le sostiene. In quelle dove si sono consumate le maggiori tragedie si prova a definire responsabilità gestionali che comunque non mettano in discussione il modello.
Il fascino indiscreto dell’internamento è sopravvissuto al manicomio, tracimando in nuove forme di organizzazione produttiva dell’esclusione sociale. Ne La maggioranza deviante, Franco Basaglia e Franca Ongaro avvertono: “Il malato, il deviante esistono come esistono la malattia e la devianza. Ma se la finalità in cui ogni intervento viene assorbito è il controllo come strumento di dominio, una volta rivelatasi insufficiente l’ideologia della diversità come definizione e delimitazione della contraddizione, ci sono altri modi per inglobare l’abnorme nel sistema produttivo: l’equivalenza del più e del meno, del dentro e del fuori, del positivo e del negativo, della salute e della malattia, della norma e della devianza non è che l’organizzazione produttiva della diversità”. (antonio esposito)
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