Torino, Vanchiglia Lov: i bianchi sporcano, i neri puliscono
Domenica 7 giugno, ore 17, corso Regina angolo via Guastalla: una trentina di persone di origine africana sosta in prossimità del semaforo. Un tizio – bianco – sembra impartire ordini. Suo collaboratore e intermediario è un altro signore, dalla pelle nera: dotato di auricolare, inizia a distribuire scope e attrezzi da lavoro a tutti gli altri. Poi si mettono in marcia per ripulire i rifiuti dalle strade di Vanchiglia, dove è in corso #Lov7, l’iniziativa pre-estiva in cui esercizi commerciali restano aperti e l’intero quartiere è isola pedonale per il passeggio di abitanti e famiglie. Via Guastalla è un profluvio di negozietti aperti, gente che entra ed esce, assaggi dalle bancarelle; ma il grosso della festa, come sempre, ha epicentro in via Santa Giulia: musica, canti, birra – persino danza del ventre. Piccola fiumana di genitori con passeggini, pensionati e studenti, che si lascia dietro anche qualche cartaccia. Niente paura: i ragazzi si chinano e puliscono, si danno da fare con la pettorina giallaperché, nonostante l’affollamento e l’eventuale divertimento, l’intera area resti il più possibile pulita, e la raccolta sia differenziata. I commercianti si fanno pubblicità e guadagnano, gli italiani cazzeggiano, i neri puliscono. Tutto in ordine.
Eppure non siamo a due passi dalle piantagioni di cotone della Louisiana nel 1850, ma all’iniziativa finto-chic del tessuto commerciale vanchigliese, nel 2015. Tant’è: la stratificazione razziale del terzo millennio si propone ai nostri occhi con insolita ruvidezza, e magari è meglio così, se è la sostanza del mondo in cui viviamo. Inevitabili le perplessità e i commenti di passanti e di alcuni degli stessi esercenti. Un cartolaio borbotta: “Sto notando questa cosa dei ragazzi di colore che puliscono le strade… Mi sembra un po’ una cazzata”; su via Santa Giulia, una ragazza è più diretta: “Questo spettacolo è una merda”. Poco oltre, in piazza, dove un concerto di musica folk manda in brodo di giuggiole la solita manica di fricchettoni, una professoressa si dichiara amaramente stupita: “Inizialmente pensavo fosse una sorta d’installazione mobile, una performance ambulante, una provocatoria messinscena per denunciare il razzismo delle nostre democrazie; soltanto dopo ho capito che stava accadendo per davvero…”.
Quando il piccolo esercito di pulitori fa ingresso in via Balbo, costeggiando il centro sociale Askatasuna, la questione esplode: alcuni ragazzi avvicinano i coetanei africani e gli chiedono se sono pagati per ciò che stanno facendo, ma la risposta, molto imbarazzata è “Mmm… No… Cioè, non so…”. Subito il ragazzo con l’auricolare, distributore di scope e palette, si frappone preoccupato tra chi sta cercando di instaurare una comunicazione e i pulitori e, quando gli viene posta la stessa domanda, altrettanto imbarazzata è la risposta. Il segreto (di Pulcinella) è presto svelato dal ragazzo rigorosamente bianco e italiano che ha capitanato la truppa fin dalla prima apparizione. Appartiene alla Cooperativa Sociale “L’Isola di Ariel”, di cui tutti i migranti indossano la pettorina e, apostrofato dagli astanti con frasi come “Voi sfruttate questi ragazzi”, offre una risposta eloquente. Alla domanda sulla retribuzione della manodopera, infatti, piega l’indice e il pollice della mano destra quasi con aria di sfida, fino a formare un piccolo cerchio con le dita: zero.
Zero assoluto? C’è chi vocifera di un buono pasto, chi di un rimborso del biglietto del bus utilizzato per arrivare fin lì; ma ciò non fa che peggiorare la sostanza, in perfetto stile schiavistico. Si viene così a sapere che la cooperativa “L’Isola di Ariel” ha ricevuto nientemeno che dal prefetto di Torino l’incarico di “mettere al lavoro”queste persone (sbarcate sulle nostre coste dai territori africani come rifugiati) grazie ai finanziamenti del progettoMare Nostrum promosso dal Ministero dell’Interno tra il 2013 e il 2014. Un progetto che prevedeva pattugliamenti di coste ma anche appalto, da parte dello stato, dei percorsi di “accoglienza” ad associazioni e cooperative, anche attraverso i C.A.R.A. (centri di accoglienza per richiedenti asilo, specificamente rivolti a profughi e rifugiati), nei quali si sarebbero promossi “percorsi di accompagnamento e facilitazione all’inserimento dei richiedenti asilo, nell’ambito del tessuto sociale circostante”. Un’accoglienza e un inserimento il cui tenore è ben descritto dalle scene viste in Vanchiglia domenica pomeriggio: spazzare la monnezza per gli italiani, e gratis.
D’altra parte, come spiega il cooperante davanti a un capannello sempre più folto e allibito, “grazie a noi queste persone trovano un modo per passare la loro giornata”; altrimenti, poverini, “si annoierebbero e non farebbero niente dalla mattina alla sera”. Lo affianca una ragazza dell’associazione Eco dalle Città, che ha promosso questa iniziativa con i soliti finanziamenti della Compagnia di San Paolo: “Pulire le strade è giusto, differenziare la raccolta anche. In questo modo questi ragazzi dimostrano che possono rendersi utili alla collettività”. Bel concetto: dopo secoli di massacri, guerre ed espropriazione coloniale dei loro paesi, e nel bel mezzo di una crisi globale prodotta da null’altri che dall’Occidente, i profughi che affrontano viaggi terribili e superano tragedie a causa delle nostre leggi sull’immigrazione devono anche ripulire “Vanchiglia Lov” per essere accettati e dimostrare che “possono essere utili” alla società.
Un ragazzo tunisino segue la discussione, ma non accetta questo punto di vista: “Io non devo chiedere ‘per favore’ a nessuno per il fatto di essere qui. ‘Per favore’ si chiede al bar per una birra, a un amico per una sigaretta. ‘Per favore’ per stare qui, lavorare ed essere pagato non è educazione, è mancanza di carattere”. Il problema è che, dietro all’insopportabile retorica del ‘realismo politico’ e dell’‘assistenza concreta’ la sinistra social-imprenditoriale non soltanto lucra privatamente su problemi collettivi (causati peraltro proprio dal lucro come metro dell’organizzazione sociale), ma predispone un apparato ideologico-moralistico privo di qualsiasi rispetto che giustifica in senso progressista un razzismo agghiacciante, che assume silenziosamente una superiorità di fatto di popoli “civilizzati” su quelli ancora “da integrare” (sul piano dell’efficienza capitalista o su quello di una disciplinata etica del lavoro, che imbelletti una disponibilità di fondo a vendersi, sia pur modernamente, come schiavi).
Se la xenofobia salviniana è palese e divide, lacera e scandalizza, ma permette almeno di schierarsi, l’ipocrisia finto-sinistroide uccide la riflessione e la critica perché nasconde il problema, impedendo anche di nominarlo. La ragazza dell’associazione sbotta, non a caso: “Perché continuate a dire che i neri stanno pulendo per i bianchi? Io non vedo neri e bianchi, qui, ma soltanto persone!”. È albanese, e rivendica la storia d’immigrazione della sua famiglia, persino il suo essere comunista; cosa che purtroppo, come noto da tempo e come il suo caso dimostra, non vuol dire più nulla. Perché, infatti, prestarsi a una simile operazione? “Siete voi i veri arretrati, perché vedete nella raccolta rifiuti una cosa sporca, con cui non ci si deve sporcare le mani…!”. Insopportabile, insostenibile, intollerabilegreen-brain-wasching politically correct in stile Expo ma con più zucchero, dove il capitalismo è carità e il lavoro è dono al prossimo, in questo mondo bello e radioso che però, purtroppo, non esiste.
Se c’è chi, giunto in un paese sconosciuto senza mezzi e senza prospettive, accetta anche un umiliante, e fasullo,“inserimento nel tessuto sociale”, c’è anche chi, nato in loco e perfettamente “italiano” (come altri ragazzi dell’associazione), ma in una generazione precaria, accetta lo stesso sfruttamento travestendolo da volontariato, magari per “trovare contatti” o “fare curriculum” o, peggio ancora, per rompere quella solitudine e quel senso d’inutilità sociale che andrebbero semmai affrontati lottando contro, e non lavorando per, le istituzioni che ci affamano. Mentre l’istituzione pubblica, infatti, dismette i servizi, il colosso finanziario (San Paolo) ne offre surrogati e fa precipitare la città in una preistoria dove le necessità sociali non sono affrontate modernamente, distribuendo i compiti e gli utili (vale a dire pagando almeno chi lavora), ma secondo una logica due volte schiavistica, culturalmente medievale, dove la mano d’opera è formata ed educata per concedersi senza contropartita che non sia moralistico-macchiettistica, ideologica, con il risultato che chi ha “carattere” – per parafrasare il signore tunisino – affronta, se gli va bene, la disoccupazione e l’emarginazione: ci sarà sempre chi sarà pronto a lavorare gratis “volontariamente” al suo posto.
Vale per i rifiuti, vale per gli eventi e le fiere, vale per le arti e per la ricerca. Prendere o lasciare: è la democrazia di Renzi e Fassino, dove grande finanza e cooperative sociali costituiscono il potere assoluto di un capitale selvaggio e razzista, che guadagna nel fingere di tamponare i problemi locali e globali che crea (in primo luogo in rapporto ai fenomeni migratori), impendendo al mondo di sotto (nero, bianco o a pallini che sia) di togliere di mezzo questo rivoltante e parassitario mondo di sopra. Un mondo di lacché, trogloditi e mezze donne/mezzi uomini che si aggirano ricoprendo di una patina umanitaria ogni nefandezza, con la spocchia di chi, dall’alto di non si sa bene cosa, pensa persino di poter puntare il dito e millantare o giudicare: come l’ex assessore Paolo Hutter, principale organizzatore dello scempio di domenica (è presidente di Eco dalle Città) che, aggirandosi tra le belle immagini di profughi “al lavoro” con una polaroid al collo (non sia mai che la gente non sappia!), ha risposto, sbraitando, a un ragazzo dell’Aska che gli rinfacciava un simile atteggiamento: “Lei non sa chi sono io… Io è una vita intera che metto le mani nella merda!”. Come lui, tanti altri. Le mani nella merda, di sicuro. Dipende sempre da cosa si intende.
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