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Tra crisi della riproduzione sociale e welfare comune

Silvia Federici non ha bisogno di presentazioni. Militante e intellettuale femminista, da sempre impegnata nei movimenti sociali, è stata tra le fondatrice della campagna Wages for Housework. Le abbiamo rivolto alcune domande per offrire una lettura della crisi e delle possibili alternative con cui sicuramente occorre confrontarsi. L’intervista si chiude con un commento ad un articolo di Nancy Fraser. Nell’intervento, Silvia Federici ricorda l’importanza di quel femminismo che ha ispirato lotte e riflessioni teoriche e che non ha concesso nulla ai processi di istituzionalizzazione neoliberale. Un femminismo che fa definitivamente i conti con la fine di ogni possibile riformismo contro cui occorre invece “costruire nuove strutture e nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato”.

 

La crisi globale esplosa nel 2007, a sei anni di distanza, non trova una soluzione di continuità e se la guardiamo da una prospettiva storica perde il carattere di fenomeno contingente. Al contrario sembra rappresentare un ulteriore tappa del processo di ristrutturazione dell’economia globale iniziato nella seconda metà degli anni ’70 che, con una formula forse un po’ generica, abbiamo definito neoliberismo. Sono almeno tre le dimensioni interdipendenti di questa crisi che tu hai definito sistemica: è una crisi di accumulazione del capitale, è una crisi fiscale ed è anche e soprattutto una crisi della riproduzione sociale. Puoi dirci che cosa intendi con quest’ultima categoria?

Intendo che, sia pur in modi diversi, sempre meno il proletariato, in tutte le sue componenti, ha accesso ai mezzi necessari per la propria riproduzione. Dallo smantellamento del welfare, alla precarizzazione del lavoro, alla continua espropriazione di terre, boschi, acque, alla distruzione dell’ambiente, tutte le politiche al centro della globalizzazione tendono a separare i produttori dai mezzi di riproduzione, a svalutare la forza lavoro, e a creare una situazione in cui la possibilità di riprodursi implica una lotta quotidiana. È una crisi che assume aspetti diversi a seconda dei luoghi e dei gruppi sociali, ma ormai è verificabile in ogni parte del mondo, inclusa l’Europa. Per questo si riscontra sempre di più la necessità di creare forme di riproduzione alternative al mercato e ai servizi pubblici gestiti dallo Stato, sempre più evanescenti. Non si tratta, infatti, di una crisi contingente; anzi si dovrebbe smettere di definirla una “crisi”, termine che suggerisce una situazione temporanea. Il cosiddetto neoliberismo, in effetti, vuole “liberare” il capitale da ogni responsabilità nei confronti della riproduzione della forza lavoro, vuole cancellare i residui della politica keynesiana, che tuttora impegnano lo Stato a garantire (anche se sempre meno) certi livelli di riproduzione. Si tratta, quindi, di una svolta storica che spazza via ogni possibilità di mediazione, anche perché l’interdipendenza economica e politica che la globalizzazione ha creato nell’articolazione dell’accumulazione capitalistica riduce gli spazi di manovra delle singole regioni.

Gli effetti della crisi nella sua triplice dimensione si rendono evidenti soprattutto su scala metropolitana, come per esempio ci suggerisce il caso di Detroit, che abbiamo già analizzato su commonware.org. Le città però sono anche il terreno di lotte sociali e movimenti che insistono proprio sul terreno della riproduzione sociale. Le forme organizzative sembrano assumere i tratti di organizzazioni del comune, cioè di forme di produzione e riproduzione della vita alternative al mercato e allo Stato. In che modo queste esperienze di lotta arricchiscono il nostro concetto di comune o ne sottolineano alcuni limiti?

Nelle città si rendono evidenti gli effetti e gli scopi di una crisi che spesso, però, comincia nelle campagne con l’espropriazione delle terre, che oggi, come nel sedicesimo secolo, è la condizione essenziale dello sviluppo capitalistico. Le megacittà dell’America Latina sono il frutto di espulsioni massicce di contadini/e dalla terra. Proprio per questo è nelle periferie metropolitane che troviamo gli esempi più significativi di produzione del comune, come, per esempio, l’occupazione di terre per la costruzione di quartieri autogestiti, la creazione di forme di riproduzione collettiva come i comedores populares, i comitati per gli orti urbani, e così via. Che cosa abbiamo imparato da queste esperienze? Anzitutto che la “produzione del comune” non può essere mai solamente un fatto economico e/o una produzione di beni materiali da condividere, ma anzitutto deve essere produzione di rapporti sociali, circolazione di conoscenze, superamento delle divisioni che le politiche istituzionali continuamente creano nel sociale, in altre parole deve essere produzione di nuove forme di lotta e di cambiamento sociale.

Gli accampamenti periferici dell’America Latina, come Occupy Wall Street e le mille occupazioni che si sono verificate in tutto il mondo, e poi le banche del tempo, le libere università, le fabbriche autogestite, tutti questi “esperimenti” ci insegnano che la produzione del comune è tanto più efficace quando non è fine a se stessa, ma é parte di un processo più ampio – quando gli orti urbani si collegano alle scuole e diventano luoghi di apprendimento e socialità, luoghi in cui le nuove generazioni imparano che il cibo non è prodotto nei supermercati; quando la creazione di asili nido libera non solo tempo per il lavoro ma libera tempo per la lotta; quando le fabbriche autogestite sono inserite in una realtà sociale che garantisce la distribuzione di ciò che producono e aiuta a decidere cosa produrre. È necessario quindi collegare gli orti, le “libere università”, i vari knowledge commons o le strutture mediche comunitarie che si costruiscono nei quartieri, alle lotte nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche.

A questo proposito, negli Stati Uniti stiamo riscoprendo la grande varietà di iniziative che esistevano nel proletariato prima del New Deal e che il New Deal ha cancellato. Fino agli anni ’30 gran parte della “sicurezza sociale” era organizzata dal basso, da organizzazioni di lavoratori, che assicuravano pensioni, fondi per malattie o incidenti sul lavoro.

Oggi, invece, la produzione del comune, almeno in Europa e negli Stati Uniti, è solo agli inizi, perché la ristrutturazione industriale e la riorganizzazione del territorio che ne sono seguite hanno distrutto le basi materiali delle forme di organizzazione comunitaria che esistevano nelle aree proletarie, e viviamo in città il cui tessuto sociale è stato in gran parte disintegrato. Quindi il “comune” è una realtà in gran parte da costruire, possiamo intravederne solo alcuni elementi, e realisticamente progettare solo su scala limitata. Però è necessario immaginare i nostri “commons”, per limitati che ora siano, come parte di un progetto più ampio. É chiaro, comunque, che non sempre è facile, specialmente all’inizio, tracciare una linea precisa tra ciò che corrisponde a un’immediata necessità materiale e ciò che si inserisce in una prospettiva politica larga. Negli anni che seguirono al golpe di Pinochet in Cile, nei quartieri proletari, come la Victoria, le donne si mobilitarono di fronte allo spaventoso impoverimento delle proprie famiglie, unendo le proprie forze per fare la spesa insieme, cucinare insieme, cucire insieme, avendo come unico scopo la sopravvivenza; però in questo modo ruppero l’isolamento e la paralisi che il golpe aveva determinato e trasformarono anche il processo della propria riproduzione e il proprio ruolo nella comunità.

A livello più generale, direi che costruzione di forme cooperative/collettive di riproduzione anche quando motivata dalla necessità della sopravvivenza è un passo per rompere l’isolamento in cui oggi il lavoro di riproduzione è organizzato, cosa di cui fanno le spese soprattutto le donne, e assume forme drammatiche in presenza di bambini piccoli o malati.

Non possiamo evitare di notare la forte ambivalenza che caratterizza i commons. Se da un lato costituiscono straordinari dispositivi di soggettivazione, dall’altro sembrano perfettamente compatibili con le politiche di austerità in quanto strumenti di socializzazione dei costi di riproduzione. Non a caso in tempi di crisi i beni comuni sono entrati nell’armamentario retorico e politico dei partiti di governo. In Gran Bretagna, per esempio, il neoliberismo dei conservatori ha cambiato pelle. Se Margaret Thatcher, per giustificare le politiche di dismissione del welfare, sosteneva che “there is no such thing as society”, David Cameron qualche decennio dopo invece afferma la “Big Society”, ovvero la centralità dell’autonomia e delle capacità produttive e cooperative presenti nel tessuto sociale. In Italia le amministrazioni arancioni fanno ricorso sempre più spesso alla partecipazione e al lavoro volontario dei cittadini per sopperire alle lacune del pubblico nella fornitura dei servizi (biblioteche, manutenzione degli spazi urbani, ecc.). Quando il pubblico non riesce più a garantire la riproduzione sociale si ricorre al lavoro e ai saperi diffusi nella società. Come si può sciogliere questa ambivalenza? Come evitare che i commons siano strumenti di gestione della povertà invece che dispositivi di riappropriazione della ricchezza?

Sono d’accordo che il pericolo della cooptazione è forte, anche perché la scoperta del comune sta avvenendo in aree politiche diverse. Oltre al tentativo di utilizzare le “capacità produttive e cooperative presenti nel tessuto sociale” per risparmiare sui costi della riproduzione sociale, troviamo oggi anche la proposta di istituire il comune come area legale intermedia tra il pubblico e il privato, coesistente con entrambi invece che alternativa. C’è un area politica socialdemocratica, rappresentata, per esempio, da finanzieri come Soros, che si preoccupa delle conseguenze sociali di un processo di privatizzazione portato agli estremi, e si propone di creare spazi sociali capaci di attutire i contraccolpi della politica neoliberale.Come ho già accennato, l’unico modo per evitare che i commons siano cooptati, coinvolti in progetti di volontariato, o si traducano in una ridistribuzione della povertà è vedere il comune come un momento di un processo più ampio di cambiamento sociale, di costruzione di un interesse comune e non come un fine in sé. Non credo che esista una formula che ci immunizzi dalla cooptazione, ma esistono modi con cui misurare le potenzialità dei progetti che costruiamo, per esempio in che misura promuovo una ricomposizione sociale, nel territorio, o una riappropriazione di forme di ricchezza – tempo, spazi, beni comuni – o aumentano gli scambi solidali. Il vantaggio è che oggi disponiamo di una vasta rete di esperienze che ci permettono di valutare varie forme di costruzione del comune, rapportate al contesto sociale in cui si collocano. Penso al grande sforzo che le comunità zapatiste stanno portando avanti per costruire una società libera dai rapporti di mercato; penso anche alla rivoluzione nelle forme della riproduzione sociale che sta andando avanti nelle periferie urbane dell’America Latina, che porta Zibechi a parlare di “società in movimento”. Queste forme di produzione del comune hanno radici storiche molto diverse da quelle che troviamo in Italia, o in Grecia o a New York. Però ne possiamo trarre esempi utili[1]. Credo che un esempio utile per valutare come i rischi della cooptazione possano essere evitati è quello delle iniziative che si sono messe in piedi a Napoli in risposta alla cosiddetta crisi dei rifiuti. Io ne ho una conoscenza di seconda mano, derivata da interviste e articoli. Mi sembra però che in molti casi, soprattutto con la formazione della Zero Waste network, si sia trattato di forme di automobilitazione che si proponevano di cambiare i rapporti sociali nel quartiere e non solo eliminare la spazzatura. Per esempio si proponevano di resistere alla costruzione di inceneritori, di cambiare il sistema di riciclo dei materiali, di recuperare materiali destinati a essere scartati, di ridurre la produzione di scarti, e di aprire un dibattito pubblico sulle condizioni di un ambiente sano. Anche per questo, pare, il governo Berlusconi ha fatto ricorso velocemente all’intervento dell’esercito.

Sul blog di Effimera ospitato dai Quaderni di San Precario è stata pubblicata – con un bel cappello introduttivo di Cristina Morini – la traduzione di un articolo di Nancy Fraser che, dopo aver messo a critica la compatibilità di un certo femminismo con il neoliberismo, si conclude evocando un modello di welfare gestito dal pubblico. Tuttavia da qualche decennio, anche se in maniera differenziata, il settore dei servizi sociali e del welfare è stato investito da profondi processi di finanziarizzazione e di aziendalizzazione che molta letteratura ha indicato con la formula “New Public Management”. Se da un lato queste riforme possono essere lette come uno strumento che il capitale utilizza per espropriare su un nuovo terreno la ricchezza sociale e tentare risolvere la crisi di accumulazione, dall’altro probabilmente possiamo interpretarle come una risposta dall’alto alla critica, agita dai movimenti sociali e femministi nel corso degli anni ’70, al paternalismo e alle forme di controllo che caratterizzavano il vecchio welfare statale e fordista. Bisogna sottolineare che questi processi di riorganizzazione sono caratterizzati, a differenza di quanto sostiene la rappresentazione dominante del neoliberismo come Stato minimo, da un forte intervento dei poteri pubblici che devono assicurare per esempio la creazione e l’espansione di un mercato, promuovere adeguati strumenti finanziari e garantire competitività e deregulation. Di fronte a questa trasformazione del ruolo dello Stato e a partire dallo sforzo teorico e pratico di pensare e praticare forme di welfare comune, quale deve essere secondo te l’attitudine dei movimenti nei confronti del pubblico?

Ci si dovrebbe domandare che cosa ha spinto Nancy Fraser a questa improvvisa presa di coscienza che arriva con più di trent’anni di ritardo su quanto molte femministe hanno già largamente denunciato, ed è inoltre formulata in termini così generalizzanti da precludere la possibilità di una salutare autocritica. Risponderò invece con alcune precisazioni.

Anzitutto, come ho già accennato, attaccando il femminismo in generale Fraser contribuisce a seppellire tutta quell’ala del femminismo che già negli ’70 si muoveva in una prospettiva anti-capitalista e ha poi puntualmente contrastato il progetto di istituzionalizzazione del femminismo portato avanti dalle Nazioni Unite, a cui una buona parte del movimento femminista ha collaborato. È interessante che Fraser abbia deciso di ignorare la campagna internazionale per il salario al lavoro domestico e, inoltre, il movimento femminista che si è dispiegato negli anni ’80, negli Stati Uniti e in Europa, contro la guerra, le frange radicali dell’eco-femminismo, ispirate (per esempio) all’opera di femministe come Maria Mies e Ariel Salleh, il femminismo delle donne nere, e la grande varietà di gruppi di donne nel “Terzo Mondo” in lotta per un’altra globalizzazione. Aggiungo che la critica che Fraser muove al femminismo è a doppio taglio e, a mio avviso, inaccettabile. Se è vero, infatti, che buona parte del movimento femminista – a livello internazionale – ha appoggiato e stimolato l’integrazione delle donne nel progetto neoliberale, è altrettanto vero che le modalità di questo processo non sono quelle indicate da Fraser. Le femministe hanno giustamente criticato il salario familiare – the family wage – in quanto istituzione intesa a garantire un ineguale divisione del lavoro nella famiglia e nella società, costruita sopra il divario tra salario e non salario. Come io e molte altre compagne abbiamo spesso denunciato, questa ineguale divisione del lavoro e il contrasto tra lavoro salariato e non-salariato sono stati elementi fondanti dell’accumulazione capitalistica. Il problema è che sia le femministe liberali, sia le femministe socialiste hanno sottoscritto la svalutazione tipicamente capitalistica del lavoro di riproduzione, hanno abbracciato come unica via di emancipazione il lavoro salariato, proprio nel momento in cui era oggetto di una grande rifiuto da parte di lavoratori maschi e femmine in tutto il mondo, hanno abbandonato il terreno della riproduzione come terreno di lotta, accettando in pratica la sua svalutazione e la sua invisibilità come lavoro, nell’ipotesi che, una volta pienamente integrate nel mercato del lavoro salariato, le donne avrebbero avuto un maggiore potere sociale. Quello che è successo, che molte di noi già avevano previsto all’inizio degli anni ’70, è noto. L’entrata in massa delle donne nel mercato del lavoro ha aiutato la ristrutturazione capitalistica del lavoro. Non a caso, si è creata la necessità di un cambiamento nell’assetto istituzionale, volto a garantire una (parziale) de-sessualizzazione del mercato del lavoro e l’istituzione di un rapporto più diretto tra donne, Stato e capitale. Come ho detto, Fraser equivoca. La critica femminista all’organizzazione del lavoro e del salario nella famiglia, come anche la critica femminista al “welfare state”, è stata non solo giustificata ma strategicamente importante per una politica femminista di classe. Come una vasta letteratura, a cominciare dal libro di Mariarosa dalla Costa Famiglia, Welfare e Stato (1983), ha dimostrato, l’istituzione del welfare nel New Deal era in funzione di un nuovo contratto sociale finalizzato all’aumento della produttività del lavoro e organizzata in modo estremamente selettivo e divisorio –che per esempio escludeva le lavoratrici domestiche dalla Sicurezza Sociale (Social Security), oltre a essere organizzato in modo decisamente razzista. Ciò non vuol dire che il welfare non si dovesse difendere, in quanto terreno di negoziazione e scontro con lo Stato per la riappropriazione della ricchezza sociale. L’organizzazione che con altre compagne ho fondato a New York nel 1973, il Comitato di NY per il Salario al Lavoro Domestico, fin dall’inizio ha appoggiato le lotte che le donne in welfare portavano avanti contro i tagli, per un ampliamento del reddito, per l’abolizione dei sistemi disciplinari connessi, per una diversa organizzazione e definizione sociale del welfare. Abbiamo sempre sostenuto che i soldi che le donne riceveva mediante l’AFDC – Aiuto alle Famiglie con Bambini Dipendenti – rappresentavano un primo salario al lavoro domestico, in quanto rappresentava un riconoscimento da parte dello Stato che la cura dei bambini è lavoro – e lavoro sociale, non lavoro d’amore. Una parte centrale della nostra campagna è stata dedicata a protestare contro le misure intimidatorie e la campagna diffamatoria che sempre più lo Stato di New York e il governo federale, coadiuvati dalla stampa, hanno portato avanti contro le donne che ricevevano il welfare. Non capisco come Fraser possa ignorare tutto questo e spostare il tiro sulla critica femminista alla divisione sessuale del lavoro e al salario familiare.

Per quanto riguarda il presente, credo che siamo in momento molto interessante, in cui la critica al welfare e al pubblico – sacrosanta – si coniuga, almeno negli Stati Uniti (ma mi pare anche in Spagna) con il tentativo di congiungere pubblico e comune, in modo che le lotte in entrambe queste aree si possano potenziare reciprocamente. Mi spiego. Il dibattito sullo smantellamento del welfare ha portato alla luce il fatto che fino agli anni ’30, negli Stati Uniti, il 70% dei servizi poi organizzati dallo Stato era forniti da organizzazioni di lavoratori, che per esempio assicuravano pensioni, cure mediche, fondi per funerali, assicurazioni per la vita. Questa vasta area di iniziative (con tutti i suoi limiti, per altro riproposti dal welfare) ha provveduto alla riproduzione di milioni di persone e ha cominciato a dissolversi solo dopo il 1935 con l’avvento dello Stato del welfare. Ovviamente non si vuole riproporre un ritorno al passato, ma rileggere questa storia serve a sciogliere un immaginario collettivo spesso congelato riguardo alle possibilità di costruzione di un’alternativa. È altrettanto ovvio che lo Stato cerchi di catturare le iniziative con cui si cerca di creare forme più cooperative e più autonome di riproduzione; ma proprio per questo è importante ricordare che una delle ragioni per cui il “welfare state” fu introdotto negli anni ’30 fu proprio il tentativo di frenare l’espandersi di queste iniziative dal basso, che erano la base del potere sociale delle molte Fraternitiesche proliferavano tra il proletariato, oltre al tentativo di frenare l’ondata di lotte che era andata crescendo durante la Depressione. In conclusione, l’alternativa non si pone nei termini concepiti da Fraser. Non so come si possa concepire oggi di “vincolare il capitale a finalità di giustizia”, o come si possa pensare di “rafforzare i poteri pubblici”. Il discorso invece è come collegare le lotte per il comune alle lotte che i lavoratori e le lavoratrici nel settore pubblico – infermiere, insegnanti, ecc. – stanno portando avanti, in modo da congiungere le conoscenze e le risorse e costruire nuove strutture e nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato.


[1] A New York e in California, per esempio, alcuni collettivi, ispirandosi alle forme di autogoverno che esistono in varie comunità indigene dell’America Latina, hanno dato vita a “accountability projects”, cioè iniziative che permettono di affrontare gli abusi commessi nei movimenti stessi senza ricorrere alla polizia, attraverso collegamenti con organizzazioni di quartiere che intervengono in situazioni di crisi, non per punire e escludere, ma per evidenziare l’importanza di comportamenti solidali.

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