Tra stato d’emergenza e politiche della frontiera: lo spazio del dissenso
Riceviamo e pubblichiamo:
Le vicende che si sono susseguite negli ultimi mesi a Calais sono comprensibili solo attraverso l’intersezione di diversi ordini di discorso. La crisi umanitaria sta avendo luogo su una frontiera interna all’Europa su cui convergono molti elementi: i teatri di guerra e sfruttamento che si moltiplicano in Africa e Medio Oriente costringendo milioni di persone alla fuga; la gestione comunitaria dei flussi migratori; l’adozione di dispositivi particolari e inediti da parte di un paese in stato di emergenza in un contesto in cui si riaffermano prepotentemente partiti e movimenti di estrema destra e neofascisti (alle ultime elezioni, nella regione Nord-Pas-de-Calais, il Front National ha ottenuto oltre il 50% dei consensi).
È evidente come tale complessa intersezione richieda un’analisi puntuale e una genealogia che possano essere utili alla critica. Abbiamo scelto qui di circoscrivere lo sguardo ad una serie di nodi che, seppure parziali, ci sembrano urgenti da affrontare per cominciare una riflessione che sentiamo sempre più necessario condividere, anche tenuto conto della rapidità e della drammaticità con cui cambia il contesto in cui agiamo.
La Francia si mostra sempre più ostile nei confronti di chi fa delle proprie voci e dei propri corpi strumento di disobbedienza e avamposto di resistenza, come ci dimostrano l’arresto, la detenzione e la minaccia di espulsione che subiscono in questo momento Martina, Ornella e Valentina. A tutte e tre, e a tutt* gli/le arrestat*, esprimiamo la massima solidarietà e complicità.
Con l’aumento del numero dei migranti, nelle ultime settimane la violenza della frontiera di Calais si è fatta ancora più dura: la zona cuscinetto tra porto e campo è stata sgomberata, mentre la Gran Bretagna ha finanziato le nuove recinzioni e il filo spinato che circondano l’area del porto. Contemporaneamente, un’altra area del campo è stata evacuata, con l’obiettivo di iniziare il trasferimento dei migranti nei nuovi centri di accoglienza. Il centro ‘Jules Ferry’ è stato il primo ad essere messo in funzione la settimana scorsa: si tratta di un campo chiuso, a cui si accede solo dopo aver fornito le impronte alle autorità e dove sono al momento “ospitate” 1500 persone, in maggioranza donne e bambini.
La politica adottata dalle autorità locali ha il chiaro obiettivo di portare allo sfinimento gli abitanti della giungla e spingerli ad andarsene. Agli attacchi della polizia, che quasi ogni sera lancia lacrimogeni sul campo, si accompagnano le violenze dei gruppi neofascisti locali, che agiscono con la connivenza delle forze dell’ordine e nell’impunità.
Nel quadro della lotta per la libertà di circolazione in Europa, sabato 23 gennaio si sono tenute manifestazioni sui confini più attraversati negli ultimi mesi: Evros, Lampedusa e Calais hanno visto sfilare migliaia di persone per rivendicare il libero movimento di tutti gli individui.
A Calais quattromila persone hanno manifestato contro le politiche xenofobe dell’Unione Europea. Alla fine del corteo un folto gruppo di migranti ha deciso di riappropriarsi del diritto ad attraversare la frontiera, dirigendosi verso il porto: dopo aver divelto le grate che difendevano la zona securizzata degli imbarchi, alcuni tra manifestanti europei e migranti sono riusciti a salire su un traghetto, occupandolo per diverse ore, resistendo nonostante il tentativo violento dei marinai stessi di cacciarli. Durante gli scontri che hanno seguito quest’azione, almeno 35 persone tra solidali e migranti sono state arrestate. Gli altri manifestanti sono stati respinti a colpi di lacrimogeni e cariche dall’uscita del porto fino alla giungla.
I fermati hanno subito sorti differenti, ma il dato politico che ci sembra rilevante è che sono tuttora detenuti soltanto i non francesi. Tra i fermati, tre studentesse italiane da tempo residenti a Parigi, Martina, Ornella e Valentina, non sono state rilasciate allo scadere del fermo e sono state trasferite al Centre de Rétention Administrative di Lille. L’imputazione è di trouble à l’ordre publique (turbamento dell’ordine pubblico), che si è concretizzata in un OQTF (Obligation à Quitter le Territoire Français), ovvero un decreto di espulsione.
L’uso dell’ OQTF contro Martina, Ornella e Valentina ci sembra l’ultimo grave episodio in cui strumenti repressivi e prassi giuridiche concepite contro i migranti non comunitari, vengono rivolte verso l’interno dell’unione europea, definendo nuovi scenari di inagibilità politica. In particolare, in Francia questo avviene utilizzando lo stato d’emergenza introdotto dopo gli attentati del 13 novembre(1) e in via di costituzionalizzazione: nello stato d’eccezione permanente, il “laboratorio frontiera” può essere portato ovunque. L’azione delle forze di polizia è sempre meno soggetta a vincoli democratici e le possibilità di espressione e di azione conflittuale si restringono enormemente.
Ma è tutto il quadro europeo che si orienta a una moltiplicazione dei confini interni e delle forme di controllo: è di lunedì 25 gennaio la notizia(2) che alcuni stati del Nord Europa hanno chiesto alla Commissione Europea di poter prolungare i controlli alle frontiere interne fino a due anni, sospendendo Schengen e segnando di fatto la fine del trattato di libera circolazione.
Si direbbe che la sovrapposizione tra stato d’emergenza e politiche di frontiera determini una doppia ipotesi.
Da una parte si sfruttano le nuove possibilità permesse dallo stato d’eccezione di aumentare le espulsioni, intensificando le strategie di sgombero, invisibilizzazione (3) e dispersione (come avviene contemporaneamente a Evros, a Ceuta e Melilla, sulle rotte libiche verso Lampedusa, sul confine fra Serbia e Ungheria ecc.). Dall’altra, l’arbitrarietà continua del regime di frontiera si estende, nel clima dell’état d’urgence, a spazi politici quali la gestione delle periferie e dei movimenti sociali. Le linee della differenza (siano esse etniche/razzializzate, di classe, di genere,…) già esistenti nel corpo sociale, segmentato e gerarchizzato, sono riprodotte da questo dispositivo, trasformandosi in linee di demarcazione tra un dentro ed un fuori dal potere.
La proposta, dibattuta al momento, di déchéance de nationalité (4) ci sembra a questo proposito l’espressione massima di una tendenza a privare di soggettività politica sulla base dell’isolamento di una cittadinanza “pura”. Anche la proposta del primo ministro Manuel Valls all’indomani degli attentati è particolarmente indicativa: l’idea, non approvata, era di istituire particolari centri di detenzione destinati a persone classificate come “pericolose per la sicurezza nazionale” (la famosa fiche S), bypassando le vie giuridiche e ricorrendo semplicemente a segnalazioni dei prefetti. Questa proposta dimostra che dispositivi come il campo, tipicamente usati per il controllo e la gestione dei flussi migratori, possano trasferirsi a una gestione complessiva del territorio, ridefinendo l’“altro” rispetto al quale lo Stato deve mantenersi in sicurezza.
La morfologia di tale potere securitario rischia di costituire un modello riproducibile di conservazione politica in fase di crisi economica e sociale. Nella pratica si presenta di fatto come strategia di progressivo restringimento dello spazio del dissenso.
Formalmente, lo stato di emergenza è uno strumento temporaneo di salvaguardia della ragion di stato, che costituendo uno spazio extra-giudiziario (eccezionale) investe il potere politico di una nuova sovranità, che diventa essa stessa prima fonte di diritto(5). In questa eccedenza del politico sul giuridico lo stato si propone (o si impone?) come garante della sicurezza chiedendo in cambio la rinuncia a libertà fondamentali. In questo scenario, e in particolare nel caso francese, i dispositivi polizieschi e i provvedimenti citati si materializzano come esperimenti politici di controllo e di annichilimento di ogni movimento. Infatti, la loro applicazione nel caso di COP21 e di Calais nulla ha a che vedere con la lotta al terrorismo, terreno sul quale l’eccezione fonda la sua legittimità.
La normalizzazione di un regime di eccezionalità da parte di uno stato membro dell’Unione Europea ci sembra quindi un laboratorio, che disegna a tutti gli effetti nuove forme di governance per l’intero spazio europeo.
Le migliaia di persone presenti a Calais hanno manifestato un’indisponibilità radicale al tentativo di silenziare ogni dissenso. La minaccia di rimpatrio per le nostre compagne italiane rientra nell’attacco alle condizioni di possibilità di un’azione politica europea e transnazionale. In quest’ottica, la lotta per la libertà di circolazione ed installazione ci sembra paradigmatica e, nella misura in cui la sottrazione di soggettività politica e le forme di repressione accomunano europei e migranti extra-europei, mentre si estendono e generalizzano i processi di creazione di confini, essa si pone definitivamente oltre la mera solidarietà, affermandosi come una battaglia per i diritti di tutt*.
Mentre l’Europa che innalza muri e versa in un’emergenza democratica vede nella Francia di Holland-Valls-Le Pen la sua avanguardia autoritaria, difendere e costruire questo terreno di lotta è una delle principali poste in gioco contro lo scenario di guerra che si sta configurando.
Alcune compagne e alcuni compagni da Parigi
(1) La detenzione nei CRA di cittadini comunitari è permessa dall’état d’urgence ed è avvenuta anche durante le proteste contro il vertice sul clima COP21. Si tratta della prima volta che dei cittadini europei sono colpiti da questa misura fuori da un grande evento/incontro internazionale.
e anche http://greece.greekreporter.com/2016/01/25/europe-gives-greece-6-weeks-to-stop-migrant-flow/
(3)quando si parla di invisibilizzazione crediamo che la giungla di Calais offra un esempio che è al contempo concreto e simbolico e particolarmente indicativo: se cercate lo spazio del campo su Google Maps non lo troverete. Al suo posto, un terreno vuoto in una foto precedente alla costruzione di baracche e tende.
(4)ovvero, di ritirare la cittadinanza francese a individui condannati per terrorismo in possesso di doppia nazionalità
(5) Nel caso specifico, la proposta di costituzionalizzazione dell’état d’urgence permette un fondamento costituzionale di misure eccezionali, che altrimenti sarebbero prive di giustificazione dal punto di vista giuridico. Questi provvedimenti sono, nella proposta di legge, ancora più restrittivi rispetto a quelli contenuti nella legge del 1955.
-controllo d’identità senza bisogno di circostanze particolari che lo giustifichino e perquisizione dei veicoli se si stabilisce che la situazione attenti all’ordine pubblico;
-possibilità di detenzione amministrativa senza necessità di previa autorizzazione della persona presente nel luogo di una perquisizione amministrativa;
-sequestro di oggetti – computer – durante una perquisizione (la legge attuale non prevede altro che il sequestro di armi e l’accesso ai sistemi informatici e loro copia, ma non il sequestro).
– le perquisizioni possono svolgersi a qualsiasi ora del giorno e della notte, mentre ora la legge impedisce che esse abbiano luogo tra le 21 e le 6 del mattino.
Il risultato di una tale manovra è che le sole forze di polizia sono responsabili della messa in atto di queste misure straordinarie, sottoposte al controllo di un giudice solo a posteriori. I prefetti diventano dunque depositari di un potere discrezionale enormemente accresciuto, con la possibilità ad esempio di dichiarare il coprifuoco in qualsiasi momento, di chiudere edifici a funzione pubblica (teatri, cinema, impianti sportivi..), di interdire al traffico alcune zone, qualora questi provvedimenti fossero giustificati da una situazione di “pericolo” per lo Stato.
N.B. La legge non prevede alcun limite temporale alla fine dell’état d’urgence!
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