Una crisi italiana. Alla radice della teoria dell’autonomia del politico
di Dario Gentili
La questione dell’“autonomia del politico” esplode in Italia nel corso degli anni Settanta e rientra nel dibattito se attribuire il primato o all’organizzazione o all’autonomia, e cioè o al luogo del conflitto (Tronti, Cacciari) o alla soggettività antagonista (Negri). Tuttavia, ciò che queste posizioni hanno in comune è il fatto di poter essere comprese all’interno di un dispositivo della crisi.
Per limitare la questione dell’“autonomia del politico” nella tradizione filosofico-politica italiana a tre autori (Mario Tronti, Antonio Negri e Massimo Cacciari) e a un arco di tempo determinato (gli anni Settanta), prendo lo spunto iniziale da Operai e capitale. Mi riferisco in particolare al punto in cui Tronti passa dall’analisi operaista del rapporto economico classe operaia-capitale alla proposta politica. Innanzitutto, egli prende criticamente le distanze – anzi rovescia – il paradigma gramsciano (fatto proprio a suo modo da Togliatti) per la conquista dell’egemonia politica da parte della classe operaia: il passaggio politico da compiere non è tanto quello dalla classe operaia al popolo, ma, viceversa, dal popolo alla classe operaia. Lo scopo è quello di definire l’organizzazione politica operaia, il partito di parte operaia. Tronti scrive:
Come far funzionare il popolo dentro la classe operaia è problema tuttora reale della rivoluzione in Italia. Non certo per conquistare la maggioranza democratica nel parlamento borghese, ma per costruire un blocco politico di forze sociali, da usare come leva materiale per far saltare una per una e poi tutte insieme le connessioni interne del potere politico avversario […]. Così, su questa base, dai compiti del partito rimane escluso proprio quello che sembra averlo finora caratterizzato: il compito di mediare i rapporti tra classi affini, e cioè tra ceti diversi, con tutte le loro ideologie, in un sistema di alleanze.[1]
Il problema è pur sempre quello gramsciano della conquista dell’egemonia politica.
Per Tronti, il popolo – in quanto “sintesi dialettica” e, al di là delle intenzioni di Gramsci, prodotto di una cultura della mediazione se non proprio del compromesso – non è la soluzione, perché neutralizza al suo interno la classe operaia, l’unica contraddizione del sistema capitalistico davvero rivoluzionaria. Eppure, come a suo modo già sapeva Gramsci, l’antagonismo della classe operaia dentro e contro il capitale, la lotta in fabbrica, la lotta sindacale, non si traducono immediatamente in lotta per la conquista del potere politico. C’è bisogno, a questo punto, di uscire fuori dal rapporto di produzione capitalistico, di natura esclusivamente economica, e quindi controllabile e gestibile dalla posizione dominante del capitale. Affinché ci sia politica, la classe deve andare contro se stessa, contro la sua stessa natura economica: «È propriamente la separazione della classe operaia da se stessa, dal lavoro, e quindi dal capitale. È la separazione della forza politica dalla categoria economica»[2]. E deve rendersi autonoma: «Una separata autonomia politica dei movimenti di classe delle due parti è tuttora il punto di partenza da imporre alla lotta: di qui, di nuovo, tutti i problemi di organizzazione della parte operaia. Lo sforzo del capitale è di chiudere entro la relazione economica il momento dell’antagonismo, incorporando il rapporto di classe nel rapporto capitalistico, come suo oggetto sociale. Lo sforzo di parte operaia deve all’opposto tendere continuamente a spezzare proprio la forma economica dell’antagonismo»[3]. Il problema politico diventa discriminante per portare l’antagonismo dalla fabbrica alla società. Cambia il luogo, ma il soggetto deve restare lo stesso: la classe operaia. E tuttavia, il rendersi autonoma della classe operaia dal rapporto economico che la lega al capitale non ne fa immediatamente un soggetto politico. All’autonomia della classe operaia deve corrispondere allora un’organizzazione politica dove possa aver luogo la sua soggettivazione politica senza neutralizzarne – come popolo – la peculiarità dell’antagonismo. Questo luogo però non può essere – o non è più – la fabbrica, dove la forma di antagonismo è ormai esclusivamente economica. Stringere insieme classe operaia, antagonismo e organizzazione politica: ecco il compito.
È possibile tuttavia pensare la classe operaia al di fuori della fabbrica, come soggetto politico autonomo, senza scendere a compromessi con la forma-popolo e senza accettare le logiche democratiche e riformistiche che la ridurrebbero a una parte tra le altre, che deve negoziare il proprio “interesse di parte” in nome dell’interesse generale? Può la società, ambito costituito e dominato dalla tendenza uniformante delle ideologie borghesi, dar luogo al conflitto di due parti? Che ne sarebbe, infine, della classe operaia al di fuori del contesto determinato in cui ha luogo quella forma di antagonismo che ne determina la soggettivazione? Queste sono le questioni che Operai e capitale lascia sul terreno del dibattito filosofico e politico del marxismo italiano, e non solo[4]. Se con la teorizzazione della centralità della classe operaia di fabbrica e con la determinazione del soggetto antagonista Tronti ha definito le peculiarità di una scienza operaia, ha invece dovuto riscontrare la difficoltà di trasporre tutto ciò a livello di organizzazione politica. “La classe operaia è il segreto del capitalismo”, segreto che la scienza operaia ha svelato[5]; resta tuttavia da svelare il segreto del Politico, che non è – come insegna, per Tronti, la regola dei fallimenti delle iniziative politiche operaie, la cui unica eccezione è la rivoluzione d’Ottobre – a disposizione della scienza operaia. Il segreto del successo politico di Lenin non va ricercato nell’esperienza delle lotte operaie, bensì nella grande tradizione del realismo politico, appannaggio della classe avversa. Siamo nel 1970 e, nel Poscritto di problemi aggiunto alla seconda edizione di Operai e capitale, si sta consumando la deviazione di Tronti dall’operaismo degli anni Sessanta – deviazione che non implica affatto un disconoscimento delle sue conquiste teoriche, bensì la consapevolezza che, per poter proseguire la ricerca all’altezza della politica, bisogna trasporla su un altro piano:
Contrapponendo un tipo di organizzazione all’altro, Lenin elabora la teoria di entrambi. Ne aveva bisogno, perché il suo discorso era veramente tutto politico, non partiva dalle lotte, non voleva partirci, la sua logica era fondata su un concetto di razionalità politica assolutamente autonoma da tutto, indipendente dallo stesso interesse di classe, comune semmai alle due classi, il suo partito non era l’anti-stato; anche prima della presa del potere era l’unico vero stato della vera società. […] Pur senza essere mosso dalla spinta della lotta operaia, Lenin centra in pieno le leggi della sua azione politica. Per questa via subisce un processo di rifondazione, da un punto di vista operaio, il concetto borghese classico di autonomia della politica.[6]
La fase operaista di Tronti – e il cosiddetto primo operaismo – si esaurisce con la conclusione dell’esperienza della rivista “classe operaia”, nel 1967[7]. Dopo quegli ultimi bagliori di “vera” politica (nota bene: prima del ’68) inizia il suo lungo tramonto[8], cominciato proprio con l’indebolirsi e il disgregarsi della concentrazione di luogo, epoca e soggettività antagonista. Sul piano teorico, dunque, il primo operaismo si esaurisce con la rottura dell’unità di soggetto antagonista e luogo dove tale antagonismo si mostra nella massima intensità, la fabbrica. È la fine dell’epoca della forma di produzione fordista – e, con essa, dell’epoca moderna stessa – a determinare l’estinguersi della figura storica dell’operaio della fabbrica fordista, il cosiddetto operaio-massa. In fondo, è lacollocazione del conflitto a sembrare prioritaria rispetto all’individuazione della soggettività antagonista. Anzi, una soggettività antagonista è stata possibile finché la fabbrica era ancora luogo di soggettivazione politica[9]; ha avuto una potenzialità politica finché la fabbrica era ancora luogo di divisione e, al contempo, di aggregazione sociale, finché soddisfaceva il criterio del politico: quel “criterio” che definisce crisi e scissione come costitutive del politico. Il criterio del politico è dunque la contrapposizione più intensa amico-nemico[10]; ed è stato pienamente soddisfatto finché, in fabbrica, Lenin ha incontrato Carl Schmitt, la lotta di classe il realismo politico: «La contrapposizione è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti amico-nemico»[11]. Ecco perché Tronti, in conclusione al Poscritto di Operai e capitale, critica le posizioni di coloro che vogliono collocare la classe operaia dopo e fuori la fabbrica. Ma non solo. La critica più sottile e profonda è rivolta alla possibilità di rintracciare un’altra “definizione oggettiva” della soggettività antagonista al di fuori della classe operaia caratterizzata dall’operaio-massa:
Si può, ad esempio, abbandonare una definizione “oggettiva” di classe operaia? E definire “classe operaia” tutti quelli che lottano soggettivamente in forme operaie contro il capitale dall’interno del processo di produzione sociale? […] Vanificare la materialità oggettiva della classe operaia in pure forme soggettive di lotta anticapitalista è appunto un errore di nuovo ideologico del neoestremismo. Non solo. Ampliare i confini sociologici della classe operaia per includervi tutti coloro che lottano contro il capitale dal suo interno, fino a raggiungere la maggioranza quantitativa della forza-lavoro sociale, e addirittura della popolazione attiva, è una grave concessione alle tradizioni democratiche.[12]
Per Tronti, invece, il problema non è tanto quello dell’individuazione di una nuova soggettività antagonista, quanto piuttosto quello di una nuova collocazione del conflitto, all’altezza stavolta della tradizione del realismo politico, del Politico moderno. Il passo che lo condurrà a tematizzare l’“autonomia del Politico” è, a questo punto, davvero breve.
2. Contro e fuori: Negri
Le nuove soggettività antagoniste sono figlie della crisi economica. Sotto la pressione del succedersi continuo delle crisi, la produzione – e con essa il rapporto più intensamente antagonistico capitale-classe operaia – abbandona la fabbrica fordista come suo luogo privilegiato e investe l’intera società: il soggetto della crisi non può essere più l’operaio-massa di Tronti, ma diventa l’operaio sociale. Durante gli anni Settanta, è Antonio Negri a essere impegnato nel delineare la figura dell’operaio sociale e, di conseguenza, a marcare la discontinuità rispetto alla fase del primo operaismo. Ecco come, in Proletari e Stato del 1976, Negri delinea il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale:
È un’ipotesi sconvolgente quella che comincia a configurarsi, la categoria “classe operaia” va in crisi ma continua a produrre tutti gli effetti che gli sono propri sul terreno sociale intero, come proletariato. […] Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario. […] Avevamo visto l’operaio-massa (prima concretizzazione massificata dell’astrazione capitalistica del lavoro) produrre la crisi. Ora vediamo la ristrutturazione che, lungi dal superare la crisi, ne distende e allunga l’ombra su tutta la società.[13]
Non è semplicemente il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale a determinare la deviazione di Negri dalle posizioni del Tronti di Operai e capitale, anzi è evidente l’intento di avvalersi del metodo operaista: la precedenza delle lotte operaie – quelle dell’operaio massa dei primi anni Sessanta – rispetto alla ristrutturazione capitalista è pienamente rispettata; come è in accordo con l’insegnamento operaista ritornare, in seguito alla trasformazione del modo di produzione capitalistico che stava avvenendo in quegli anni, ad analizzare la composizione di classe operaia. Anche la problematica rimane la stessa: individuare il soggetto antagonista. Che cosa emerge allora nell’operaio sociale di così radicalmente divergente dalla precedente analisi operaista della composizione di classe, tanto che lo stesso Negri scrive vent’anni dopo di averne introdotto la figura in modo, a volte, “troppo timido”[14]? È il termine stesso, “operaio sociale”, che, come “fabbrica sociale”, lo spiega: è un ossimoro, sosterrebbe Tronti, per il quale la classe operaia e la fabbrica si oppongono radicalmente a ogni dimensione sociale e a ogni possibile assorbimento nella società. Per Tronti, infatti, la società è la dimensione dell’ideologia borghese, che neutralizza il conflitto e l’antagonismo: nella società il punto di vista di parte operaia viene compreso all’interno dell’idea sintetica di popolo. Magari anche Tronti ha riconosciuto il dissolversi della fabbrica nella società, ma, a differenza di Negri, vi ha visto il tramonto definitivo della classe operaia e non, con la sua proletarizzazione, una nuova potenzialità politica. Politica si poteva dare nella fabbrica in quanto luogo in cui si concretizzava il criterio schmittiano del politico come contrapposizione amico-nemico; la società – come la forma politica a essa corrispondente, la democrazia moderna – ne è esattamente l’opposto: un non-luogo. In essa è impossibile prendere parte e partito in quanto per Tronti ciò equivale a dar luogo al conflitto. È nel passaggio al postfordismo che si compie quindi il tramonto della politica; infatti, in quanto movimento generato e diffuso nella società, il ’68 rappresenta, per Tronti, un’accelerazione della ristrutturazione capitalistica. Negli stessi anni in cui Negri teorizza con la figura dell’operaio sociale una soggettività antagonista fuori dalla fabbrica, Tronti continua quella ricerca di una politica operaia che aveva lasciato in sospeso nel Poscritto di Operai e capitale, con la consapevolezza qui acquisita che, mentre il segreto del capitalismo è stato svelato dalle lotte della classe operaia, il segreto della politica è custodito nella teoria e nei luoghi appannaggio del nemico di classe. Il presupposto indiscusso è che vera politica si dia esclusivamente nelle modalità e nei luoghi della politica moderna e, quindi, l’unico modo per la classe operaia di conquistare davvero l’autonomia politica e uscire dall’aporia in cui la costringeva il rapporto economico di fabbrica – essere dentro e contro il capitale – è farsi Stato. Ecco configurarsi la svolta trontiana degli anni Settanta, ecco l’autonomia del Politico:
L’obiettivo è quello di ricreare un effettivo dualismo di potere; però in grande, non più nella fabbrica, cioè non più nel rapporto di produzione, e neppure più nella società, ma addirittura tra società e stato. Per concludere. L’autonomia del politico risulta addirittura un’utopia, una volta presa come progetto politico direttamente capitalistico; risulta addirittura l’ultima delle ideologie borghesi; diventa realizzabile, forse, soltanto come rivendicazione operaia. Lo stato moderno risulta, a questo punto, nientemeno che la moderna forma di organizzazione autonoma della classe operaia.[15]
Non potrebbe esserci distanza maggiore rispetto a quanto Negri scriveva in quegli stessi anni; anzi, le concezioni della politica che ne scaturiscono sono esattamente agli antipodi: sebbene per entrambi lo Stato sia il luogo del potere, per Tronti, la politica è essenzialmente scontro per il potere che si svolge quindi a livello del Politico, dello Stato; per Negri, al contrario, politica è la potenza immanente alla dimensione sociale, che si contrappone al potere dello Stato, la cui funzione capitalistica – e quindi di parte – è ormai pienamente manifesta. Negri rivendica allora un’autonomia operaia proprio dallo Stato in quanto “impresa capitalista”, in quanto forma del dominio e del controllo del capitale sulla società, quella società che invece diventa progressivamente il terreno di germinazione dei nuovi antagonismi. Ed è, infatti, fuori dalla fabbrica, nella società, che si vanno formando le nuove soggettività antagoniste ed è sempre dentro la società che si creano nuove potenzialità politiche[16]. Scrive Negri in Proletari e Stato: «A questo punto qualsiasi operazione trasformistica a livello di “autonomia del politico” cozza contro l’irrealtà della categoria, contro la sua mera adeguatezza all’ideologia e alla pratica mistificatoria del capitale. Un uso operaio delle istituzioni statali è oggi inconcepibile»[17]. E ancora, in Il dominio e il sabotaggio, dove si congeda esplicitamente da Tronti: «Dice bene l’ultimo Tronti che lo Stato moderno è la forma politica dell’autonomia della classe operaia. Ma in che senso? Nel senso, anche per lui, del suo rinverdito “socialismo”, di compatibilità e convergenza? No davvero, caro compagno: qui la metodologia della critica dell’economia politica va modificata a partire dall’autovalorizzazione proletaria, dalla sua separatezza, dagli effetti di sabotaggio che determina»[18].
Lo schema trontiano del lavoro di fabbrica, “dentro e contro il capitale”, per Negri, non può più funzionare, tantomeno come presupposto per la determinazione di una soggettività politica, soprattutto se pensata con i criteri della politica moderna. Il processo di soggettivazione che aveva luogo in fabbrica determinava, infatti, un soggetto omogeneo e uniforme: la classe operaia. Il nuovo soggetto di Negri, invece, si costituisce politicamente fuori dalla fabbrica e dentro la società capitalistica in quanto spazio della produzione dove sono messe a lavoro la conoscenza e le capacità relazionali (quel General Intellect su cui si concentrerà la riflessione post-operaista). La nuova soggettività assume pertanto proprio quel carattere “plurale”, “multilaterale” e “differenziato” che per Tronti è il contrassegno del sociale in contrapposizione al politico. Ma il criterio del politico moderno per Negri è ormai inefficace; non è più la contrapposizione il criterio della soggettivazione politica operaia, bensì la separazione: «Dentro quest’intensità della separazione c’è il massimo di libertà. L’individuo sociale è la multilateralità. Il massimo di differenza è il più alto approccio al comunismo. […] Ogni omogeneità è dissolta. Lo schema metodologico “plurale”, multilaterale, trionfa»[19]. Il nuovo soggetto antagonista non ha bisogno del nemico di classe per definirsi, non è nella contrapposizione che si valorizza politicamente: si autovalorizza, èautonomo. Il criterio del politico moderno non può più fare da riferimento per un uso operaio della crisi perché non ha più presa su una realtà economica e sociale ormai postfordista e postmoderna. È il capitale piuttosto ad avvalersi del “criterio del politico”, ad aver bisogno della dialettica amico-nemico, dellanegazione da togliere nella sintesi, della crisi da superare con lo sviluppo. Inoltre, come non è da dentro il capitalismo fordista che il soggetto antagonista si definisce, è nemmeno da dentro il corrispettivo pensiero borghese che si costituisce un pensiero antagonista, un “pensiero negativo”. Non il rovesciamento dall’interno, bensì la separazione è la prassi politico-teorica dei nuovi antagonismi:
Si tratta di cogliere il progresso dell’accumulazione capitalistica in forma rovesciata. Ma non c’è possibilità di farlo se questo concetto di rovesciamento non viene ridotto a quello di separazione. Il rapporto di capitale è un rapporto di forza che si tende verso l’esistenza separata e indipendente del suo nemico: il processo di autovalorizzazione operaia, la dinamica del comunismo. L’antagonismo non è più una forma della dialettica: la sua negazione. Si parla tanto di “pensiero negativo”: bene, il pensiero negativo è – strappato dalle sue origini borghesi – un elemento fondamentale del punto di vista operaio. Cominciamo ad usarlo, anziché nella critica dell’ideologia, nella critica dell’economia politica.[20]
C’è da chiedersi – e Negri se lo chiede in conclusione di Marx oltre Marx – se il dispositivo della crisi, fondamentale per manifestare e radicalizzare il dualismo di potere insito nel sistema capitalistico, e così porre il conflitto, non debba essere abbandonato nel momento in cui si cerca, attraverso la pratica della separazione, di affermare l’autonomia e l’antagonismo del potere costituente della nuova soggettività al di fuori della dinamica binaria e, quindi, al di fuori del legame costitutivo con il nemico di classe. La crisi è l’inizio, rappresenta l’occasione e l’opportunità per uscire dal sistema capitalistico-borghese. Perché la via d’uscita indicata dalla crisi possa essere percorsa bisogna, al contempo, che qui e ora sia determinato un fuori, un altrove: Negri schiva così il problema –l’individuazione e la determinazione del luogo del conflitto – che ha indotto Tronti a cercare nello Stato le potenzialità di conflitto politico che la fabbrica e poi il partito avevano perduto. È su questo passaggio, il passaggio dalla logica del “dentro e contro” il capitale a quella del “contro e fuori” il capitale – tra le quali intercorre lo scarto decisivo fra pensiero della crisi e autonomia del potere costituente – che si gioca la sfida teorica di Negri sia all’operaismo di Tronti sia al “pensiero negativo” di Massimo Cacciari: «Su questo passaggio, dentro questo metodo la soggettività operaia diviene classe rivoluzionaria, classe universale.Su questo passaggio il processo costitutivo del comunismo si sviluppa con pienezza. E va subito sottolineato che, posta in questa luce, la logica antagonistica smette di svolgersi su un ritmo binario, smette anche di accettare la realtà fantasmatica dell’avversario sul suo orizzonte. Cancella la dialettica anche solo come orizzonte. Rifugge ogni formula binaria»[21]. Ci sarebbe da chiedersi, tuttavia, come farò in conclusione, se il dispositivo della crisi renda effettivamente possibile il passaggio dalla decisione di separazione alla decisione di autonomia di una parte rispetto all’altra.
3. Dentro è contro: Cacciari
Nel 1977, in Pensiero negativo e razionalizzazione, sembra quasi che Massimo Cacciari anticipi la risposta alla critica che Negri gli avrebbe mosso nelle conclusioni di Marx oltre Marx; se – come lo stesso Negri arriva a sostenere seppure in senso riduttivo – il “pensiero negativo” rappresenta la “teoria” della crisi, per Cacciari è proprio questa teoria, cioè la “critica della sintesi dialettica”, l’essenza della crisi. La critica dell’economia politica, dunque, ne è soltanto la conseguenza: «La crisi della sintesi classica è ben più radicale della crisi della political economy. Essa è altresì la crisi di ogni “teoria generale” del Politico. Lacritica della economia politica non si “avvera” nel Politico, ma nella critica del Politico. Se qui riscontriamo le “assenze” più significative nella stessa teoria marxiana, a maggior ragione concepire tale critica è oggi finalmente il problema»[22]. La critica dell’economia politica si basa sul medesimo presupposto di Negri: lo sviluppo come risposta alla crisi non ne comporta il superamento dialettico; anzi, la sintesi dialettica fallisce come riequilibrio del sistema: è infatti come squilibrio che si ristabilisce il ciclo capitalista. Tuttavia, per Cacciari, a differenza di Negri, la crisi non rappresenta l’esplosione della contraddizione fondamentale intrinseca al sistema capitalistico a cui il potere operaio deve imporre il proprio, autonomo “uso politico”: potere contro potere, ovvero potenza del sociale contro potere del politico. Il dispositivo della crisi, piuttosto, è già tutto compreso nella dimensione del Politico moderno: nulla resta al di fuori di esso e, quindi, nessuna via d’uscita. La decisione che dall’antagonismo conduce all’autonomia resta dentro la crisi, non ne fuoriesce. La crisi ha sì travalicato i confini dell’economico, e in particolare l’ambito della “produzione immediata”, permeando la totalità del sistema – tanto che il capitale stesso ha imparato a farne un uso politico – ma appunto per questo la conflittualità che si produce e si diffonde al suo interno non può essere agita dal di fuori. La critica del Politico, per Cacciari, non rappresenta allora un ambito tra gli altri, ma denomina la condizione stessa di conflittualità, immanente al sistema. Se il Politico moderno definisce con Hegel il proprio vertice prospettico nella Forma che supera le contraddizioni e toglie il conflitto, la critica del Politico mostra l’impossibilità di tale Forma e l’irriducibilità del conflitto – anzi, rappresentando il Politico la sintesi dialettica per eccellenza, la sua critica diventa critica di ogni pretesa di sintesi.
La triade filosofica del pensiero negativo è composta, nell’ordine, da Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche. Ma è con Nietzsche che si raggiunge l’esito estremo: «La sintesi è divenuta per Nietzsche soltanto il dominio, la vittoria della più “perfetta” volontà che agisce nella pura immanenza. Tale sintesi non avrà, quindi, alcun carattere di “valore”, non cercherà alcuna “giustificazione” nell’universale – sarà, anzi, il rifiuto di ogni valore, sia estetico, che etico, che religioso»[23]. La “volontà di potenza” nietzschiana rappresenta pertanto la s-valutazione di ogni valore e l’assunzione consapevole del potere – e non dellapotenza come invece sostiene Negri[24] – in quanto capacità di dominio non sul mondo, che comporta ancora la Sintesi dialettica del Soggetto, bensì nelmondo: “pura immanenza”. Nietzsche è oltre sia rispetto alla Volontà come “rinuncia” al mondo di Schopenhauer, sia rispetto al Singolo di Kierkegaard che trascende il mondo nel Religioso. “Potere è integrarsi nel sistema”, scrive Cacciari in Krisis, il libro del 1976 dove si conclude e si compie la sua ricerca sul pensiero negativo. Ma per integrarsi nel sistema nulla deve rimanerne fuori, nulla può affermarsi come “autonomo”: neanche il Soggetto. L’“organizzazione” si afferma sull’autonomia. Perché il suo potere sia pienamente dispiegato, il Soggetto stesso deve perdere la propria posizione privilegiata, la propria “autonomia”:
Il soggetto pare così ritrovarsi in una situazione paradossale. Da una parte, esso riscopre una sua funzione attiva, “creativa”, prima impensabile – dall’altra, però, perde qualsiasi posizione “prospettica”, qualsiasi “privilegio” gnoseologico. Esso pone il sistema nella sua dinamica e contraddittorietà – ma, insieme, non ne risulta più in alcun modo distinguibile. […] Ma ponendo tale processo, il soggetto ha perduto ogni auratica “autonomia”, ne è divenuto parte, proprietà. […] Potere è integrarsi nel sistema.[25]
Non è più pensabile nessuna soggettività al di fuori del sistema; la decisione del soggetto che, alla Schmitt, deve imporvi la propria sovranità non mostra altro che l’ineffettualità di tale decisione. La crisi del Politico moderno produce il Sistema di Potere. Ma non solo: essendo le prerogative soggettive di trasformazione, innovazione, produzione, creazione – di antagonismo stesso – passate al Sistema, quest’ultimo è caratterizzato da conflitto e crisi: è a questo potere che si partecipa integrandosi nel sistema. Non è più il soggetto a essere antagonista, lo è il sistema stesso; non c’è conflitto fuori dal sistema: dentro è contro. E tuttavia, in quanto Soggetto, proprio garantendo la conflittualità al suo interno, il Sistema la sussume e la domina. Il problema che l’esito del pensiero negativo lascia aperto è dunque: è possibile una politica rivoluzionaria – o almeno la decisione per una politica di innovazione all’interno di un Sistema politico la cui organizzazione converte, pur senza risolverlo e superarlo, il conflitto in conservazione? In che modo una soggettività che non ha più potere sul sistema, pur partecipando alla sua conflittualità, può decidere e rendere effettuali le proprie rivendicazioni? Insomma, dal momento che il disincantamento non trasforma il sistema in quanto tale, come si può invertire il segno conservatore delle trans-formazioni al suo interno? È questo il problema di Krisis: «Il problema è: come [il soggetto] vi partecipa?, perché, con quale scopo? […] In che misura e in che modo [le forme di questa sua “partecipazione”] sono ancora effettuali? Con quali parametri andrà ora misurata questa effettualità? Il nihilismo radicale può giungere fino a quel “disincantamento” – ma non può affrontare e tantomeno risolvere queste domande»[26]. Sono domande “politiche”, queste, che tuttavia non sono rivolte ad alcuna soggettività politica, vecchia o nuova che sia. Weber ha infatti integrato compiutamente il Soggetto politico all’interno del sistema, facendone una sua funzione a discapito di ogni sua “qualità”: il politico diventa “funzionario” e quello dell’intellettuale è un Beruf, una “professione”.
Se il Politico è per coerenza “funzionale” all’amministrazione del sistema; se, parafrasando il Wittgenstein del Tractatus, fondamentale in Krisis, “su ciò di cui non si può parlare – su ciò che non è integrato nel sistema – si deve tacere”, come può darsi trasformazione innovatrice entro questi limiti? Ovvero: come pensare la crisi non in quanto conservazione, oltre quindi lo stesso pensiero negativo? L’esito sul piano della critica del Politico moderno, del tutto corrispondente a quello di Krisis sul piano logico-epistemologico, è rappresentato dall’Impolitico, che, in Dialettica e critica del Politico (1978), rappresenta la “soluzione” nietzschiana alla crisi dello Stato dialettico hegeliano: «L’impolitico nietzschiano è […] critica del Politico. Che nessun soggetto e nessuna Verità si esprimano nello Stato non comporta l’utopia del Singolo – ma il problema della grande Politica. […] Ma proprio perché il Politico non appare più come il Linguaggio capace di pro-durre nello Stato la Verità del soggetto, questo Stato è trasformabile – quel Politico è continua rivoluzione delle sue forme»[27]. Il Politico si è compiuto in Hegel, nello Stato dialettico; una volta constatata la sua crisi irreversibile e l’irresolubilità delle sue contraddizioni (di classe, prima di tutto), non resta che l’Impolitico comecritica di ogni ritorno del Politico in quanto Sintesi e Valore e, di conseguenza, l’assunzione della trasformabilità dall’interno dello Stato. Sembrerebbe quasi che, seppur seguendo una linea in origine diversa, Cacciari finisca per convergere, almeno nell’esito politico, sulle posizioni del Tronti di Sull’autonomia del politico. Eppure, la concezione di Cacciari dell’autonomia del politico si differenzia per diversi aspetti da quella trontiana, ma principalmente perché non conferisce alcun primato al Politico, ma rappresenta piuttosto una modalità del discorso sull’impolitico, come si può evincere da questo passo dell’Introduzione a Pensiero negativo e razionalizzazione:
Autonomia del Politico e sua ri-definizione (nel senso suddetto del termine) costituiscono, dunque, il tema obbligato di ogni introduzione al problema storico del Politico. L’“autonomia” di cui “gode” non conferisce al Politico alcuno statuto prospettico privilegiato. Essa definisce la particolarità delle funzioni, il “valore” delle funzioni, che esso è chiamato a svolgere nei confronti e a causa delle limitazioni intrinseche agli altri elementi del sistema. Senza tali limitazioni, e dunque senza tali elementi, non si darebbe “autonomia” del Politico. Un sistema complesso di “autonomie”, del quale differenze-conflitti-contraddizioni non sono che “altri nomi”, subentra alla struttura omogenea e centripeta della Rationalisierung dialettica. Il Politico è-in questo universo.[28]
Il Politico è un elemento tra gli altri dentro il sistema; ogni elemento ha una propria “autonomia” in conflitto con quella degli altri, che ne limita le pretese egemoniche. In sostanza, il Politico non può rappresentare il luogo per eccellenza del conflitto per il potere, perché il conflitto è tra le diverse “autonomie” poste sul medesimo piano, all’interno del sistema: insomma, l’autonomia del politico di Cacciari non colloca lo Stato nel luogo centrale che invece vi attribuiva il Politico moderno. Si potrebbe anzi sostenere che, nella sua crisi, il Politico moderno si sia diviso in due e lo Stato corrisponde alla sua unica collocazionepossibile, quella burocratico-amministrativa, mentre l’altra, quella del progetto rivoluzionario, è pura Utopia: ou-topia, non-luogo[29]. Quello di cui scrive Cacciari è dunque lo Stato che risulta dalla crisi del Politico moderno. È l’organizzazione dispiegata – sulla scorta di Heidegger – dalla Tecnica che si fa politica: organizzazione funzionale non alla conquista del Potere, bensì a che nessuna forma di potere si possa sottrarre alla trans-formazione e imporsi così sulle altre. Soltanto all’interno di tale organizzazione della crisi – logico-epistemologica e statuale – si danno autonomie e antagonismi[30].
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Nel corso degli anni Settanta, in Italia, come risulta dall’itinerario attraverso il pensiero di Tronti, Cacciari e Negri che ho provato a tracciare, la questione dell’“autonomia del politico” viene compresa all’interno del dibattito sul primato da attribuire all’organizzazione o all’autonomia – ovvero sul primato politico da attribuire al luogo del conflitto (Tronti, Cacciari) o alla soggettività antagonista (Negri). Tuttavia, ciò che hanno in comune ognuna di queste posizioni è il fatto di essere comprese all’interno di quello che ho chiamato dispositivo della crisi; un dispositivo la cui influenza, nel pensiero filosofico e politico italiano, travalica l’arco di tempo preso in considerazione, arrivando fino a oggi. In che cosa consiste il dispositivo della crisi? L’analisi etimologica del termine “crisi” può fornire indicazioni importanti. In greco, krisis significa: “forza distintiva, separazione, scissione”; ma anche: “decisione, risoluzione, giudizio, elezione, scelta”. Ne risulta che: la “scelta” di un aspetto rispetto all’altro che la “separazione” della krisis “distingue”, il tentativo di “risolvere” la crisi, non rappresenta affatto l’uscita dalla crisi, ma ne resta all’interno in quanto suo elemento costitutivo. Vengo adesso alla nostra questione. La crisi è la condizione di possibilità dell’autonomia del politico, ilpresupposto su cui poggia ogni collocazione del conflitto. Prima di ogni autonomia del politico – prima cioè dell’individuazione del luogo dove il conflitto produce soggettivazione politica – c’è una divisione, una separazione in due parti: ecco la crisi. E tuttavia, il dispositivo della crisi comprende anche la decisione per fuoriuscirne, non esclusa quella finalizzata all’autonomia e all’autovalorizzazione del soggetto, che vi resta altrettanto implicata. Ogni decisione pone dunque un’ulteriore separazione e un ulteriore dualismo: un’ulteriore crisi – e così all’infinito. La soluzione della crisi è pertanto indistinguibile dalla produzione stessa di crisi. Certo, di contro a tante concezioni tecnocratiche e procedurali della politica, il dispositivo della crisi contempla il carattere produttivo del conflitto. Ma se, catturato all’interno del dispositivo della crisi, il conflitto fosse funzionale soltanto alla produzione di crisi e, quindi, all’assunzione dell’impossibilità di una scelta effettiva, di una decisione risolutrice? Bisognerebbe forse svincolare il conflitto dalla crisi, cioè porre radicalmente in questione l’idea – maturata in Italia proprio negli autori e nel periodo che ho trattato, ma oggi più che mai d’attualità – che una politica in quanto conflitto sia inconcepibile senza presupporre la crisi.
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[1] Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 114-5.
[2] Ivi, p. 262.
[3] Ivi, p. 219.
[4] Di tal genere sono le questioni che solleva Roberto Esposito nella sua interpretazione di Operai e capitale: porre la classe operaia al contempo “dentro e contro” il capitale – nei termini di Esposito: tenere insieme “immanenza e conflitto” –, nel passaggio dal piano economico a quello politico, comporta un’aporia e una contraddizione che ricade sulla sostenibilità filosofico-politica della stessa classe operaia in quanto soggetto antagonista. Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente, Einaudi, Torino 2010, pp. 207-12.
[5] «Quando ci si chiede perché solo dal punto di vista operaio si può cogliere il segreto del capitalismo, ecco l’unica risposta possibile: perché la classe operaia è il segreto del capitalismo» Tronti, Operai e capitale, cit., p. 230.
[6] Ivi, p. 279.
[7] Cfr. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 7.
[8] Tronti tematizza compiutamente tale periodizzazione in La politica al tramonto, in cui colloca le lotte degli anni Sessanta nella fase crepuscolare dell’Occidente, che proprio allora si compie definitivamente: cfr. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998.
[9] Oggi, infatti, Tronti scrive: «La grande fabbrica è il contrario dei non-luoghi, che oggi configurano la consistenza, o meglio l’inconsistenza, del post-moderno. La grande fabbrica è il classico del moderno. La concentrazione dei lavoratori nel luogo di lavoro determinava le masse, senza fare massa» Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 94-5.
[10] Ancora in Noi operaisti: «L’amico-nemico operai-capitale non era un’invenzione filosofico-letteraria. Era un dato di fatto economico-sociale. Stava lì, sotto gli occhi di tutti e nessuno lo vedeva. O meglio, si vedeva con gli occhiali del padronato o con i binocoli del sindacato, ma con gli occhi della politica, e del pensiero politico, non si vedeva niente, perché si guardava altrove. Ecco, l’operaismo mise a fuoco un’immagine, accese una lampada in un interno di fabbrica: e fotografò» Ivi, p. 39.
[11] C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 112.
[12] Tronti, Operai e capitale, cit., p. 314.
[13] A. Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico (1976), in I libri del rogo, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 144-5.
[14] Cfr. A. Negri, 1997: vent’anni dopo. Prefazione alla seconda edizione, in I libri del rogo, cit., p. 7.
[15] M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano 1977, p. 20.
[16] Per un confronto tra Tronti e Negri, cfr. A. Toscano, Chronicles of Insurrection: Tronti, Negri and the Subject of Antagonism, in L. Chiesa e A. Toscano (a cura di), The Italian Difference. Between Nihilism and Biopolitics, re.press, Melbourne 2009, pp. 109-28.
[17] A. Negri, Proletari e Stato, cit., p. 166.
[18] A. Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, in I libri del rogo, cit., pp. 256-7.
[19] Negri, Marx oltre Marx (1979), manifestolibri, Roma 1998, p. 200.
[20] Ivi, p. 250.
[21] Ivi, pp. 251-2.
[22] M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, p. 12.
[23] Ivi, pp. 172-3.
[24] A differenza di Cacciari, Negri pone Nietzsche sulla linea spinoziana della potenza e del potere costituente. Tale divergenza interpretativa è in parte giustificata dall’ambivalenza e ambiguità dello stesso termine tedesco Macht, che può essere tradotto in italiano sia con “potere” che con “potenza”.
[25] Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976, p. 66.
[26] Ivi, p. 63.
[27] Cacciari, Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 73-4.
[28] Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, cit., p. 11.
[29] Cfr. Cacciari, Progetto, in “Laboratorio politico”, anno I, n. 2, 1981, pp. 88-119.
[30] Per un confronto tra Cacciari e Negri a partire da Krisis, cfr. M. Mandarini, Beyond Nihilism: Notes towards a Critique of Left-heideggerianism in Italian Philosophy of the 1970s, in Chiesa e Toscano (a cura di), The Italian Difference, cit., pp. 55-79.
Dario Gentili (Napoli, 1975) è stato borsista post-dottorato in Filosofia e storia delle idee presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM). Su questi temi, di recente ha pubblicato:Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Il Mulino, 2012). Collabora con la cattedra di Filosofia Morale dell’Università di Roma Tre.
da: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it
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