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Un’arma di depoliticizzazione di massa

Vladimir Lenin

L’atteggiamento del partito operaio verso la religione (1909)


Facciamo una premessa: il discorso su cosa ha rappresentato e rappresenta Charlie Hebdo è particolarmente complesso da fare dall’Italia. La distanza comporta una difficoltà ulteriore a rendere chiare questioni e contesti già di per sé complessi. È comunque importante lanciare spunti per articolare una discussione ardua che ci mette davanti ai nostri limiti semantici ancor prima che politici.

La strage di Charlie Hebdo sta rivelando la vacuità del concetto ormai imputridito di libertà d’opinione. L’episodio più esemplificativo, in cui si vede finalmente convergere commosse la liberté invocata nel maggio sessantottino e la libertà liberale, è rappresentato da quel corteo parigino dove tutti diventano Charlie, guidati dal blocco nero in giacca e cravatta. Un’idea di libertà che ricopre pressappoco la parabola della sinistra degli ultimi trent’anni, dalla libertà d’opinione come possibilità dialettica per cambiare l’esistente alla libertà d’opinione come inevitabilità dello Spettacolo. Che, sia detto en passant, è la sola libertà difesa manu militari dallo Stato e la sua polizia.

All’indomani dell’attacco, sui quotidiani europei troneggiavano suggestive immagini delle matite di Charlie impugnate come fucili, riconoscendo così implicitamente che la parola è un arma, salvo poi domandarsi verso chi erano rivolte prima del tragico attacco al giornale. Perché osservare quella traiettoria di tiro implica posizionare il proprio sguardo, ancorare il concetto di libertà al desiderio di giustizia.

In Francia è dagli anni ’80 che la laicità, declinazione religiosa della sopra-citata libertà d’espressione, si è trasformata in un’arma reazionaria rivolta contro il nemico interno. È il trait d’union tra la destra e la sinistra sul come reagire a un terribile riscontro: il caparbio rifiuto di assimilarsi delle popolazioni ex-colonizzate.

Le politiche progressiste, che, almeno a parole, si auguravano che per il bene della democrazia la giustizia sociale dissolvesse quella contraddizione nella società francese, lasciano spazio a quelle liberali di cui le leggi contro il velo a scuola – che, di fatto, condannano a restare de-scolarizzate numerose donne musulmane – sono uno degli esempi più evidenti. Il patto repubblicano diventa una dichiarazione di guerra.

Anche le critiche più interessanti e profonde di quest’evoluzione s’intestardiscono a negare l’esistenza di un nemico interno in Francia ascrivendolo a feticcio immaginario agitato dai reazionari di tutto lo spettro politico. È che l’orizzonte del “cittadino” come solo soggetto dell’agire politico è dura a morire.

Invece quel nemico c’è. Come c’è una volontà politica di schiacciarlo sulla dimensione religiosa, sia da parte dello Stato che, a quanto pare, da parte di frange qaediste. Non è un caso che nel 2005 la scintilla che accende la prateria delle banlieue è la morte di due ragazzi inseguiti dalla polizia mentre nel 2013 gli émeutes di Trappes sono causati dal fermo di una ragazza col velo integrale.

La questione di cosa oggi significhi libertà richiede una sensibilità che il ritmo mediale deliberatamente non concede. Tutto vale e tutto si assomiglia perché il collassare dello spazio e del tempo nel presente congelato dell’emozione impedisce di situarci storicamente e politicamente. Ed ecco, dopo l’attacco a Charlie Hebdo, che si materializza sui social network un filo interrotto in cui si confondono le vignette del giornale di ieri e di oggi un omaggio commosso quanto indistinto.

Rendersi conto che il linguaggio è un campo di battaglia, ancorare i concetti ai conflitti e decentrare il nostro sguardo è un primo riflesso per evitare l’afasia che ci fa scappare dei #jesuis vuoti tanto quanto pesano.

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