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Al macrolotto di Prato vige un sistema di sfruttamento irregolare e le istituzioni si voltano dall’altra parte

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Su sessantaquattro aziende controllate dall’Ispettorato del Lavoro nel distretto tessile di Prato nessuna è risultata in regola. Lavoro in nero, sfruttamento, caporalato, risparmio sulle misure di sicurezza sono parte integrante del meccanismo di estrazione di valore che permette a questo distretto “d’eccellenza” di fare profitto. Non sono casi isolati, ma un intero sistema che con il silenzio assenso delle istituzioni e di molti corpi intermedi funziona con le proprie regole non scritte. Un sistema che per lungo tempo è stato sistematicamente nascosto come la polvere sotto il tappeto, ma che oggi grazie alle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici emerge in tutta la sua brutalità, facendo intuire connessioni, responsabilità e complicità di chi ancora oggi fa finta di non schierarsi.

Di seguito riprendiamo il comunicato del SI Cobas Prato e Firenze sui risultati dell’ispezione:

Sessantaquattro aziende del distretto tessile di Prato controllate: tutte irregolari. Su 570 lavoratori coinvolti dai controlli, 250 lavoratori “in nero”. 40 gli operai senza permesso di soggiorno schiavizzati nelle fabbriche controllate. I dati diffusi dall’Ispettorato del Lavoro al termine dei controlli straordinari per l’operazione “Alt caporalato!” raccontano il segreto di pulcinella che da anni denunciamo. Sono numeri che dovrebbero fare imbarazzare chi continua a definire sfruttamento ed illegalità nel distretto “fenomeni marginali”.

Qualcuno dirà: “i controlli sono la prova che c’è consapevolezza del fenomeno e capacità di dare risposte. Di cosa vi lamentate?”. Il punto è che conosciamo la realtà di cui parliamo. E più di ogni parola parlerebbero altri numeri (quelli che probabilmente mai avremo): quanti dei 250 lavoratori a nero, a seguito del controllo, hanno ottenuto un regolare contratto di lavoro? Quante aziende di quelle controllate tra pochi mesi avranno cambiato partita iva e ripreso l’attività nelle stesse identiche condizioni eludendo anche le sanzioni? Mentre scriviamo, in quante di queste 64 aziende si sta già continuando a lavorare a nero, su turni massacranti e senza diritti? Quanti dei 40 schiavi senza permesso di soggiorno otterranno un permesso di soggiorno per sfruttamento e verranno realmente regolarizzati?

Con le leggi attuali un’azienda che viene “beccata” con lavoratori a nero non è obbligata ad assumere il lavoratore. Può liberamente “optare” per farlo e gli basta registrare un contratto della durata di 3 (tre!) mesi per vedere la sanzione ridotta al minimo. La sanzione minima è di 1800euro. Se contiamo il fatto che ogni mese dallo sfruttamento di un solo operaio a nero impiegato per 12 ore su 7 giorni la settimana l’azienda “risparmia” circa 3000 euro tra retribuzioni, tasse e contributi è facile capire perché la lotta al lavoro nero abbia bisogno di altri strumenti e perché “il giorno dopo” il controllo, molto spesso, la situazione è immutata. Si paga e si ricomincia. I profitti illeciti superano incredibilmente le sanzioni. Questo è il semplice problema.

Bisognerebbe aprire una riflessione seria su quali armi vengono date agli Ispettori che portano avanti la lotta allo sfruttamento su questo territorio. Parliamo di un distretto dove le aziende obbligano alle 84 ore di lavoro (con straordinari non retribuiti) migliaia di lavoratori assunti con finti contratti part-time (Prato detiene il record del 70% di part-time). E abbiamo una legge che punisce “il superamento delle 48 ore medie settimanali” con multe dagli 800 ai 3000 euro se i lavoratori coinvolti sono meno di 10 (la maggioranza nel distretto) e da 2000 euro a 10000 euro se sono “più di dieci” (anche 100!) i lavoratori sfruttati. Si paga e si ricomincia.

L’Ispettorato del Lavoro fa quello che può fare, con gli strumenti e le risorse che ha a disposizione. E con il suo lavoro ci restituisce la fotografia di un “sistema” sfacciato, radicato, diffuso di sfruttamento ed irregolarità. Un sistema che esiste perché riesce ad esistere e resistere, anche ai controlli. Questo banale fatto, però, sembra non lo voglia guardare in faccia nessuno e meno che mai chi governa il territorio. Si preferisce chiudere gli occhi quando è evidente che il problema non è un pugno di aziende “cinesi” ma le filiere globali della produzione dell’abbigliamento, in un sistema-giungla di appalti e subappalti di lavorazioni che abbatte i costi attraverso lo sfruttamento selvaggio del lavoro e l’inquinamento del territorio. È il mercato che fa la legge. In Bangladesh come a Prato. Perché anni di occhi chiusi sono serviti a far diventare Prato, nei fatti, una “zona economica speciale” dove si può andare in deroga dei contratti nazionali e delle leggi statali. Ma questo proprio non si può dire. Perché in ballo c’è l’immagine del made in Italy. E infatti nessuno lo dice.

Stamattina nei bar di Prato, chi leggeva la notizia sugli esiti dei 64 controlli commentava: “hanno scoperto l’acqua calda!”.

Al Macrolotto da duecento giorni, davanti ai cancelli della #Texprint, 18 operai denunciano lo sfruttamento subito per anni.

Dopo duecento giorni, chi governa la città, prima di “prendere posizione” aspetta ancora di “verificare”…

 

 

 

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