Cagliari. I “Figli della crisi” non smontano le tende
Dal 23 dicembre il comitato spontaneo “Figli della crisi” del sulcis-iglesiente ha dato vita ad presidio sotto il palazzo della Regione, nel centro di Cagliari. Studenti medi, universitari e giovani disoccupati dai 17 ai 30 anni piantando le loro tende in via Roma hanno aperto uno spazio di incontro e discussione sulle problematiche di un territorio dilaniato dalla crisi, il Sulcis, oggi provincia più povera d’Italia. Le tende dovevano essere smontate oggi, 2 gennaio, dopo dieci giorni di lotta, ma gli occupanti hanno deciso di prolungare l’azione fino al 4.
L’accampamento ha dimostrato di poter sviluppare nuove dinamiche di incontro, capaci di intaccare chi protegge e chi legittima le strategie di sfruttamento di un sistema che ha offerto a un capitalismo di rapina l’occasione di saccheggiare un territorio per poi abbandonarlo con il pretesto della crisi. Infatti in questi giorni gli studenti insieme ad operai e disoccupati, si son ritrovati al presidio per immaginare e costruire le lotte dei prossimi mesi. A tal riguardo hanno rivestito particolare importanza le assemblee pubbliche del 28 e del 29 dicembre partecipate anche dalle realtà operaie in lotta del Sulcis come Eurallumina e Alcoa.
Dunque, sicuramente, il presidio dei Figli della crisi ci consegna un’indicazione di metodo importante: occupare le strade e i palazzi delle istituzioni è un passaggio obbligato per consegnare alla condivisione e alla partecipazione diffusa la nostra indisponibilità verso politiche che attentano direttamente alle nostre vite e ci consegnano un futuro fatto solo di precarietà e incertezza, lasciandoci, come unica alternativa, l’emigrazione. Il consenso, la simpatia popolare riscossa dall’iniziativa e la grande solidarietà dimostrata in questi dieci giorni dai tanti cagliaritani che si univano al presidio, testimonia questo fatto.
Allo stesso tempo, però, questa indicazione chiede di essere potenziata e radicalizzata. Non si può lasciare che gli spazi dell’organizzazione della resistenza restino semplici testimonianze del disagio che attraversa i nostri territori. Non bastano i “gesti nobili” che raccolgono il plauso anche degli stessi complici del sistema di gestione politico-sindacale che per decenni ha consentito lo sfruttamento selvaggio di una regione. È questo il caso della lamentosa nota diramata ieri dal segretario provinciale CGIL, Enzo Costa: sappiamo bene che la Sardegna deve cambiare ma, al contrario di Costa, noi, come giovani soggetti in lotta, non riponiamo nessuna fiducia nel fatto che “anche la classe politica isolana si dia da fare per restituire un lavoro a chi l’ha perso, e dare una speranza a quei figli della crisi che pagano errori fatti da altri”.
Infatti il carattere costituente dei presidi di lotta immediatamente sorge dal rifiuto di un sistema complessivo di sfruttamento del territorio e della vita delle persone. Interpretare questo rifiuto significa rompere direttamente con un ceto politico che ancora crede di poter dialettizzare il dissenso continuando ad aprire inutili canali di dialogo e ad apparecchiare nuovi tavoli tecnici utili solo a farci perdere del tempo.
Interpretare questo rifiuto significa trasformare spazi di resistenza in effettivi percorsi di lotta che sappiano separare i responsabili della crisi dalle vittime di questa per poterli superare nella costruzione di nuove relazioni sociali e nell’organizzazione di un nuovo produrre. Perché no, non è vero che siamo tutti nella stessa barca, e questo, tra noi che invece subiamo la crisi, dobbiamo iniziare a dirlo per poter buttare a mare chi ci sta facendo colare a picco.
L’ottica dell’occupazione degli spazi come luoghi in cui far confluire le lotte richiede di esercitare e organizzare politicamente sul lungo periodo il nostro rifiuto per far sì che questo non diventi il semplice teatro del nostro disagio. In questi mesi in Sardegna si sono moltiplicati i presidi di lotta come quello di via Roma. Non ultimo quello degli operai ex Rockwool che occupavano dal 12 novembre la galleria di Villamarina nella miniera di Monteponi a Iglesias e che dal 21 dicembre vi si sono murati dentro. La protesta si è conclusa solo all’alba del 31 dicembre.
È indispensabile forzare l’immagine di quegli uomini in lotta chiusi, con tutta la loro dignità, dietro le sbarre dell’ingresso di una galleria prima e poi addirittura dietro un muro. Per un anno di lotte è indispensabile buttarle giù quelle mura nei nostri presidi, mura che si presentano nella forma delle mediazioni impossibili, nella ricerca di interlocutori e di garanti politici. Buttiamole giù per trovare le forme di un movimento destituente che sappia poi da se stesso ricostruire con le lotte la ricchezza di un territorio saccheggiato.
Interpretare nelle lotte il rifiuto della crisi significa da un lato costruire nei presidi le forme della condivisione e dell’incontro, dall’altro lato sancire l’irriducibile autonomia conflittuale delle nostre iniziative per poter rompere con l’assistenzialismo politico-sindacale, responsabile storico dello sfruttamento di una terra intera e dell’attuale stagnazione dei rapporti di partecipazione politica al cambiamento.
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