Con queste domande in testa torno in città ad agosto, pochi mesi dopo aver vissuto quei giorni di incredibile solidarietà e forza della società civile. Sento subito che qualcosa è cambiato. Dopo le azioni criminali della polizia, molte persone hanno terrore a scendere di nuovo in strada per gridare il proprio dissenso e la loro voglia di libertà. I numeri parlano chiaro: 7 persone uccise, 8000 ferite e più di 2000 arrestate. Allo stesso tempo, però, su un’altra parte consistente della popolazione la repressione ha prodotto l’effetto opposto, convincendo che abbandonare la lotta è terribilmente sbagliato, ma anche che per continuarla bisogna articolarla secondo altri schemi.
I luoghi cambiano. Da Piazza Taksim e Gezi park, i meeting, le assemblee, i forum vengono organizzati in quanti più quartieri possibili, nei parchi o comunque nelle aree pubbliche della città (se ne contano più di trenta). Yoğurtçu Parkı a Kadıköy (quartiere della sponda asiatica della città) diventa il quartiere dove il forum è più frequentato e partecipato. Da questa esperienza si sono formati diversi collettivi, che praticano alternative di resistenza contro l’autoritarismo di Erdoğan.
Nelle prime settimane di settembre, tuttavia, la violenza della polizia ritorna protagonista della scena. In quei giorni di fine estate, ad Ankara esplode la protesta degli studenti della più importante università turca, attestata da sempre su posizioni antigovernative, la Middle East Tecnichal University (ODTÜ). Gli studenti protestano perché il sindaco, appartenente all’AKP (il partito al governo), vuole costruire, con l’avallo di Erdogan, una nuova autostrada che dovrebbe passare esattamente attraverso il parco dell’Università, luogo storico e uno dei pochi polmoni verdi della città. E nuovamente il dissenso si diffonde in tutte le altre principali città turche, Istanbul compresa. Stavolta è Kadikoy il centro della mobilitazione.
In quegli stessi giorni di settembre, viene organizzato un concerto sul piazzale del porto. In realtà, non si tratta soltanto di un concerto, ma di un momento di rabbia e di omaggio alle vittime uccise dalla polizia. Tra una canzone e l’altra si scandiscono gli slogan della protesta. Un enorme striscione chiede all’AKP di pagare il conto della violenza perpetrata contro i manifestanti. Alcuni amici e parenti delle vittime parlano dal palco. L’atmosfera è carica di emozione, rabbia e voglia di giustizia. Il concerto finisce, ma la gente non può, né vuole tornare a casa come se nulla fosse. Per questo partono cortei spontanei, ma la polizia ha deciso di non concedere neanche un minuto in più e inizia ad attaccare. Con il solito infame copione: TOMA, idranti, gas lacrimogeni e urticanti lanciati ad altezza uomo. Da quel giorno, per più di una settimana, durante la notte il quartiere diventa lo scenario di nuovi e durissimi scontri con la polizia. I fumi dei gas lacrimogeni sono visibili persino dalla sponda europea. Un ragazzo muore soffocato per i gas all’interno del bar dove sta lavorando. Lo stesso giorno, un ragazzo che era entrato in coma agli inizi di luglio, dopo essere stato colpito da un lacrimogeno, se ne va per sempre. La rabbia diventa di nuovo incontrollabile!
Io vivo a Kadıköy e in quella settimana non ho avuto bisogno di fare molta strada per scendere in piazza: i carri armati (sì! sono esattamente carri armati!) hanno seminato terrore anche di fronte al portone del palazzo dove abito. La risposta del quartiere è stata all’altezza della situazione: sulla polizia piombava continuamente di tutto, dalle finestre venivano lanciate sedie e tavoli, piatti e bicchieri. Ma anche acqua, aceto, limoni e latte per i manifestanti, per supportarli e aiutarli a resistere ai gas. Ancora una volta la città dava sfoggio di tutta la sua solidarietà e forza.
Dopo una decina di giorni di scontri, la polizia ha continuato a minacciare il quartiere con la sua disgustante presenza. Ma nella mente e nel cuore delle persone niente poteva ritornare ad essere come prima: le barricate di giugno, le assemblee estive nei parchi, la guerriglia a Kadikoy, sono stati un punto di cesura, di non ritorno.
E infatti… una notte, passeggiando per il quartiere, noto un edificio abbandonato, con dei poster e con simboli dell’autogestione graffitati sopra. Ha tutte le sembianze di uno squat, di un centro sociale, come siamo abituati a intenderlo in Italia. Rimango sorpreso e incredulo… sarà un caso, mi dico. Non esistono spazi occupati in Turchia, non esistono centri sociali. Figurati con la repressione e la violenza della polizia che c’è da queste parti… posti del genere non possono assolutamente esistere qui. Dai…
Sono tornato il giorno dopo, di mattina, per capire se avessi ragione oppure no. Che gioia sbagliarmi! Mi trovo di fronte all’ingresso: un brulicare di persone che indossano elmetti di sicurezza, guanti. Hanno fogli in mano con progetti di stanze, carrucole, scalette. Entro: i graffiti sono bellissimi. Ci sono degli stencil a grandezza d’uomo dei 7 ragazzi uccisi dalla polizia. Mi guardo intorno, purtroppo il mio turco è al di sotto della soglia minima di comunicazione, ma fortunatamente più di qualcuno parla inglese. Inizio a fare domande. Sono troppo curioso, voglio capire bene. Un centro sociale occupato a Istanbul, sto sognando. Dico qualcosa in turco, voglio partecipare, mi danno caschetto e guanti. Detto fatto. Mi trovo con dei ragazzi turchi e curdi a preparare del cemento per alzare un muro. Il ritmo è frenetico, si scherza, mi prendono in giro per l’accento italiano. Finiamo questo muro e scendiamo giù. C’è da portare sul tetto un sacco di materiale. Si suda, si beve il tè caldo, si mangia. L’atmosfera è bellissima. La gente del quartiere passa e dice ‘kolay gelsin’ (‘che vi sia facile’, riferito al lavoro da fare). Qualcuno si ferma a dare una mano, qualcun altro porta del cibo. Si fanno foto.
Durante una pausa chiacchiero con Kadin, che mi inizia a spiegare un po’ di cose. Il posto è stato occupato agli inizi di settembre da un gruppo di persone di questo quartiere, chiamato
Yeldegirmeni, che in italiano significa ‘mulino a vento’. Il primo giorno erano solo in 12, ma con alle spalle moltissima gente, casalinghe, lavoratori, studenti, studenti in erasmus, ingegneri, insegnanti, migranti, artisti, precari, disoccupati. L’edificio era abbandonato da circa 20 anni e durante i meeting a ‘Yoğurtçu Parkı’, dopo varie discussioni sulla necessità di avere un luogo fisico nel quale portare avanti le idee nate a Gezi park, si è deciso di occuparlo. Quindi, continua a spiegare Kadin, questo spazio può essere visto come un effetto, un risultato delle proteste di giugno. Mi dice: siamo le stesse persone che erano accampate a Gezi park. Gli dico che non avevo mai sentito parlare di spazi occupati a Istanbul. Lui risponde che in Turchia, a dire il vero, in diversi quartieri come Sulukule – noto quartiere gipsy – la pratica dell’occupazione ha permesso a molte famiglie di avere almeno un tetto sotto cui dormire. Adesso, però, i piani speculativi vogliono trasformare la zona in un quartiere residenziale. Non è l’unico caso. Mi cita un altro esempio: a Ümraniye – un altro quartiere che si trova vicino Kadikoy – vennero occupate delle fabbriche negli anni ‘70, come atto di resistenza contro i progetti urbanistici del governo di allora. Si trattava di occupazioni caratterizzate da un alto grado di spontaneità.
Kadin cambia discorso e mi parla di quanti suoi compagni hanno avuto esperienze di occupazioni in Europa, in Spagna, Inghilterra, Italia e Germania. Da parte loro c’è il desiderio di creare qualcosa di nuovo, che si differenzi dal modello ‘classico’ delle occupazioni del vecchio continente. Mi dice: ‘Noi abbiamo solo risposto alle domande: Cosa possiamo fare? Di cosa abbiamo bisogno? Ma per il momento la prima necessità è finire i lavori e rendere lo spazio fruibile al massimo’.
Sono curioso di sapere come ha reagito il vicinato. Il mio amico mi spiega che c’è stata prima curiosità e poi un pizzico di diffidenza. Ma questo è comunque il quartiere dove hanno avuto luogo i meeting durante l’estate, quindi i volti degli occupanti erano già conosciuti nella zona. Con il passare dei giorni e dei lavori, i vicini hanno iniziato ad apprezzare, a capire che è un posto aperto a tutti ed è di tutti, ad aiutare, a portare dolcetti a chi lavora all’interno del centro sociale. Kadim dice che adesso, dopo 2 mesi di lavori, il vicinato è alle loro spalle, è pronto a supportarli. Anche perché i ragazzi vogliono che questo sia un punto di riferimento per il quartiere, soprattutto per i bambini e le donne.
Mentre ascolto, penso alla polizia turca, a come ha potuto reagire, a cosa può aver detto. Mi domando se le leggi turche proibiscano le occupazioni. Kadim mi spiega che sono venuti in borghese, per controllare, in diverse occasioni senza dire che erano poliziotti, altre volte dichiarandolo. Ma non sapevano cosa fare. Perché si sono trovati di fronte gente che stava pitturando, disegnando. C’erano bambini e donne. Studenti olandesi in erasmus presso un’università d’arte che abbellivano il centro. E comunque la legislazione, mi dice, è molto lacunosa in materia.
Le attività che si propongono sono tante, ovviamente quelle più legate all’organizzazione politica, ma anche arte, teatro, biblioteca, attività per i bambini, per le donne, cinema… ogni idea è bene accetta. Perché il posto è di tutti.
Non hanno relazioni dirette con i partiti e non ne vogliono avere, ma non mi nasconde che alcuni di quelli che frequentano lo spazio hanno alcuni riferimenti tra i partiti, ma questo non sembra essere un problema.
Come avevo detto in precedenza la zona dove si trova il centro sociale si chiama Yeldeğirmeni, in italiano ‘mulino a vento’. Il nome scelto per lo spazio, quasi ovviamente, è Don Kişot.