Gli esterni Alcoa occupano la torre di Serbariu
In occasione dell’accordo sulla CIG dal ministero si comunicava che per l’estensione delle tutele anche all’indotto sarebbe stato necessario l’impegno di altri soggetti istituzionali: della Regione Sardegna al ministero dello Sviluppo. Tuttavia la situazione si è fatta più drammatica dopo l’annuncio del taglio dei fondi destinati alla mobilità e alla cassa integrazione in Sardegna. Da qui la decisione di occupare la torre di Serbariu chiedendo il rispetto del cosiddetto “accordo quadro” che invece dovrebbe riunire anche i lavoratori degli appalti.
La vertenza Alcoa sembrava essersi bruscamente conclusa con lo spegnimento dell’ultima cella dell’impianto il 2 novembre. Per questo l’occupazione arriva in un momento di tragica esasperazione. Già nella giornata di oggi un operaio ha minacciato di lanciarsi dalla torre. Sotto la torre intanto diversi compagni hanno montato le loro tende e a Portovesme oggi è prevista una assemblea dei dipendenti diretti dell’Alcoa e degli appalti iscritti alla Fiom.
Come testimoniano le lotte di questi ultimi mesi, la crisi e lo fruttamento rapace di un territorio con la complicità di un intero sistema politico, hanno, nel corso degli anni, prodotto nel Sulcis una tale desertificazione e una dipendenza da un modello di industrializzazione forzato da rendere inevitabile il rapido estendersi a un piano sociale delle vertenze sull’occupazione. Da questo punto di vista le problematiche sollevate dall’inadeguatezza, oltre che dall’insufficienza, degli ammortizzari sociali, investono appieno sia la crisi di un modello di accumulazione, ormai esauritosi per un territorio, sia la crisi dello Stato, ovvero l’incapacità di fornire risposte da parte del pubblico e la sua inefficacia come agente dell’organizzazione e della garanzia sociale delle nostre vite.
E tuttavia questa prospettiva chiede però di essere accolta e interpretata anche dalle lotte nella direzione dell’intensificazione delle relazioni sociali.
La problematica dell’isolamento della conflittualità operaia nel territorio probabilmente va interrogata anche a partire dalle forme in cui questa conflittualità si esprime: i soggetti vivi del produrre si arrampicano su torri o silos, si murano in galleria o scendono nel pozzo in miniera. Ma ciò di cui abbiamo bisogno è che questi soggetti circolino, comunichino e si incontrino nel territorio perché le istanze del territorio stesso pemeino le lotte stesse senza lasciare che queste vengano inghiottite dal gioco di specchi della rappresentazione e autorappresentazione mediatica del disagio, da un’impotente testimonianza d’esistenza senza trasformazione.
Occorre fare anche un’altra riflessione in merito. Se è certo che comunque è sarà a partire dalle forme di pressione esercitate dalle lotte che i soggetti investitori, dallo stato alle multinazionali, decideranno di ristrutturare gli assetti di sfruttamento sul territorio, le lotte però , dal canto loro, se appunto interpretate socialmente, non possono accettare la fatalità di questi processi senza ridiscutere i livelli di potere che li ordinano.
La recente svolta nella vertenza dell’Eurallumina, altro gigante in crisi di Portovesme, illustra adeguatamente questa problematica. La firma dell’accordo tra la Rusal, azienda proprietaria dell’Eurallumina di Portovesme, e la Repubblica della Guinea per lo sfruttamento di una miniera di bauxite, materia prima necessaria per la fabbrica di Portovesme, apre uno spiraglio per il riavvio dello stabilimento sardo. Tuttavia vediamo replicarsi lo stesso modello di governo del territorio che ne ha determinato la crisi recente: un capitalismo globalizzato che colonizza o delocalizza a seconda degli umori dei mercati e la totale negazione della possibilità per le persone di decidere della propria vita e del produrre sul proprio territorio.
Analogamente, anche in questo in caso, ciò che conta è la capacità delle lotte di parlare per un territorio, la capacità di tematizzare la questione del produrre in termini sociali anche quando si tratta di difendere reddito.
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