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Gramsci, il Primo Maggio e le manette in via Po

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In occasione dell’ottantesimo compleanno di Diego Novelli, Fassino l’aveva salutato così, in Sala Rossa: “Un uomo animato da un’idea di politica come passione, basata sul disinteresse personale e sulla capacità di mettere al centro del suo agire i cittadini, a partire da quelli più umili”. Gli “umili”: espressione di cui Fassino ha abusato in campagna elettorale, e che sembra essersi ritorta contro di lui il Primo Maggio, quando è stato contestato da borsisti senza borsa, maestre senza futuro e operatori senza stipendio. In un editoriale su Nuova Società, proprio Diego Novelli ha deplorato queste contestazioni che, a suo dire, sarebbero state portate avanti da “quaranta giovanotti” che hanno “guastato” la festa dei lavoratori. Io sono uno di quei “giovanotti”: uno di quelli che hanno urlato a Fassino, in via Po, di andarsene dal corteo. L’ho gridato per me stesso e per la città che amo, contro la cricca di affaristi e speculatori senza scrupoli che si cela dietro il PD a Palazzo Civico. Mentre fatichiamo ogni giorno a racimolare il necessario per pagare la spesa al supermercato, la nostra parte di bolletta e due litri di benzina, quest’uomo utilizza Torino come momentaneo ripiego per la sua carriera politica, usando il tempo a disposizione per “risanare” i debiti creati da Chiamparino con la svendita dell’acqua pubblica, dei trasporti, del territorio e della cultura alle compagnie di credito (tra cui quella di cui oggi Chiamparino è dirigente) e alle grandi banche.

Io voglio una Torino che mi appartenga, una Torino dei torinesi, non una Torino di Unicredit e di San Paolo Intesa. Voglio che la forza e l’intelligenza dei torinesi siano messe in comune, non che siano usurpate per finanziare speculazioni edilizie, grandi eventi organizzati dagli amici degli amici e “grandi opere” che fruttano guadagni esclusivi al partito trasversale degli affari (detto anche partito del tombino e del cemento, e sappiamo in Italia questo cosa significa). Per questo, per aver gridato che il corteo di chi lavora non doveva essere aperto da chi toglie il lavoro, sono stato inseguito, percosso, ammanettato in mezzo alla strada e trascinato in questura. Me ne sono andato con una denuncia, qualche livido e un sacco di insulti, non senza esser stato obbligato a spogliarmi fino a restare in mutande da tre poliziotti, tra cui un dirigente, in uno squallido bagno degli uffici di via Grattoni –  naturalmente con le immancabili battutine da caserma. Sono, queste, le istituzioni democratiche che Novelli vuole difendere dai nostri “attacchi”. Davanti al Municipio, si lamenta infatti l’ex sindaco, la polizia è stata troppo tollerante mentre centinaia di persone appendevano una bandiera e degli striscioni in solidarietà al movimento No Tav e ai suoi arrestati. Poco importa che due ragazzi abbiano subito fratture agli arti per trenta giorni di prognosi, e non siano gli unici feriti tra i manifestanti; bisognava picchiare di più: alle istituzioni democratiche l’ex sindaco concede un buon diritto, evidentemente, alla “pancia della violenza”.

La prima arma per attaccare il proprio avversario, quando non si hanno argomenti, è la menzogna. Novelli parla di contestatori vestiti di nero; ma mente, perché non eravamo tutti vestiti di nero, ed eravamo a volto scoperto di fronte al sindaco: le facce di chi paga la crisi le deve vedere bene, e gli toccherà rivederle ancora e ancora. (Io ero vestito di nero, ma io vesto sempre di nero, perché adoro il nero, e non ho bisogno di consigli sul look.) Se non c’è il “nero”, in ogni caso, bisogna inventarselo, visto che permette, nell’angusta percezione di qualcuno, una duplice derubricazione del dissenso: (1) a “black bloc” (che noia), ossia a infiltrati/minoritari/estranei allo “spirito” della “brava gente comune”, delle mamme, dei bambini, ecc. e (2) a fascisti, o quantomeno a persone estranee ai valori fondanti di una presunta, benché inesistente, koiné della sinistra “che si rispetti”. “Il nero è un brutto colore il Primo Maggio”, scrive infatti Novelli, e via di questo passo, tra allusioni e insinuazioni risibili ma non per questo meno gravi, fino a dire che tra noi e Bossi e Berlusconi non c’è poi così tanta differenza. È imbarazzante, ma istruttivo, rendersi conto di come la sinistra da salotto di questa città non riesca a produrre nulla più di tutto questo; e dire che nel suo articolo l’ex sindaco si è sforzato di scomodare mezza Treccani (ed ha anche citato un dizionario, diamine) menzionando – regolarmente a sproposito – la Vandea, il Brigantaggio, i moti antiasburgici a Genova e chissà cos’altro, quasi si rendesse conto che il suo pubblico non può che essere formato da coloro che da cose del genere, perbacco, rimangono impressionati.

Il pubblico degli asini da salotto non può “riflettere”, però, sul Primo Maggio e su ciò che nel suo piccolo ha significato, perché la riflessione richiede pazienza, mentre noi siamo già stati bollati come stupidi e ignoranti un po’ fascisti. L’aveva già detto Amendola negli anni di Berlinguer, quando il partito comunista si alleava con la DC per far fare agli operai i “sacrifici” necessari ad “affrontare la crisi” (ricorda qualcosa?); e lo fa per l’ennesima volta, in piccolo, Novelli oggi, mentre i danni provocati dal modello di sviluppo neoliberista li paghiamo ancora noi giovani salariati a intermittenza, o i nostri genitori che, esausti dopo quarant’anni di lavoro, aspettano la pensione. Oggi come ieri è la sinistra perbene, quella dei salotti e dei Fassino, dei Chiamparino e dei Bersani, a imporre l’austerity; l’unica differenza è che, ai tempi in cui sindaco era Novelli (1975-1985), il partito di cui faceva parte non era alleato, in parlamento, anche con i fascisti, mentre – quello sì! – oggi lo è. La nostra generazione è cresciuta, a Torino, nella devastazione politica, sociale e culturale lasciata dalla politica industriale di Romiti in Fiat, durante gli anni del mandato di Novelli, e si confronta oggi con la distruzione del tessuto sociale prodotta da sciacallaggi industrial-finanziari come quelli di Marchionne, durante i mandati di Chiamparino e Fassino; e sono queste, vedete, le persone che parlano degli “umili”, e che si fanno i complimenti a vicenda per quanto sono bravi ad essere dalla parte degli “umili”.

Magari, visto che li hanno tartassati a dovere nella pratica, almeno agli “umili” sapessero dare consigli nella teoria: invece no, il consiglio è state zitti, ma non state a casa, venite al Primo Maggio in silenzio, in coda dietro a noi, a Fassino, Chiamparino e Novelli, a loro che idealmente sono in coda al fantasma di Romiti e al feticcio di Marchionne, alla Fondazione CRT e alla Compagnia di San Paolo. I contestatori, come scrive Novelli, dovrebbero imparare da Gramsci: non dal Gramsci che, al numero 12 di corso Galileo Ferraris, poco più che ventenne, si infiammava per il teatro di Pirandello e per la Rivoluzione d’Ottobre, la “rivoluzione contro Marx” (cioè contro il ceto politico che si era appropriato di Marx, addomesticandone il pensiero), ma il Gramsci letteralmente neutralizzato, ben più che addomesticato, dalla propaganda di Togliatti, che doveva obbedire alla coesistenza dettata da Stalin (lo stesso che istituì la moda di dare del fascista a chi gridava fuori dal coro). Così scopriamo che i luminari di Fiorio ancora pensano che crediamo alla storiella per cui l’egemonia gramsciana sarebbe un concetto funzionale alla pace sociale; che si identificherebbe con l’educazione (quella propinata degli asini da salotto, probabilmente), ed escluderebbe il conflitto; e, udite udite, sarebbe funzionale alla democrazia per come oggi è intesa, che della democrazia immaginata da Gramsci – territorio di conquista, idea a venire – è l’esatta negazione.

Se l’eredità intellettuale e militante di Antonio Gramsci, a Torino, di questo compagno ed esempio rivoluzionario, fosse nelle mani di chi la usa in modo maldestro per difendere un amico sindaco, essa sarebbe in pericolo. Ma non lo è: perché c’è ancora chi è disposto a studiare lui e tanti altri martiri della causa comunista come autori di rottura, che possono spezzare anche il conformismo dell’oggi, dopo aver spezzato quello di ieri. Ci sono, a Torino, borsiste che leggono negli interstizi dell’orario di lavoro nel call-center, detenuti No Tav che leggono in cella, ultras che leggono al Valentino, e ragazzi incazzati neri che leggono quando e come gli pare, e vestono pure di nero. Queste persone non hanno e non devono avere nulla da dimostrare; non devono dimostrare, loro, di essere “dalla parte degli umili”, perché loro sono gli umili; e, anche a chi umile non è, non farebbe male, alle volte, un po’ di umiltà. Se non altro perché il nostro Gramsci scrisse nei Quaderni del carcere che “nell’intellettuale italiano l’espressione di ‘umili’ indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento ‘sufficiente’ di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o peggio ancora un rapporto da ‘società protettrice degli animali’”. Riflettete, sul Primo Maggio e su Gramsci; riflettete.

__________________________

(*) In risposta agli editoriali di Diego Novelli su Nuova Società:
 

Usare il “cervello della democrazia” e non la “pancia della violenza”

UN PRIMO MAGGIO A TORINO CHE FA RIFLETTERE

 

vedi anche l’editoriale-risposta del Network Antagonista Torinese:

A sun mac asu sensa cultura?

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