Grazie Roma. Riflessioni sul 15 ottobre
Torino, 16 ottobre, tardo pomeriggio.
Ieri a Roma si è svolta una grande manifestazione, una delle tante che – in un climax ascendente, da un po’ di tempo a questa parte – vede un’intera generazione imporsi sulla scena politica. Il filo che lega tempi e luoghi di questa esplosione costituente pronta a travolgere l’Europa può essere riassunta con i due slogan “noi la crisi non la paghiamo” e “que se vayan todos” (a cui qualcuno aggiunge – a ragione – “ma proprio todos”). I due motti della piazza inquadrano gli ambiti dell’economia e della politica e, sapientemente, alludono alla loro connessione.
La formula politica che si è affermata in Occidente nel secondo dopoguerra – e che ha retto alle proprie contraddizioni interne già oltre tempo massimo – era fondata su una declinazione specifica del rapporto tra capitalismo e democrazia che, in un moto circolare, ha garantito legittimità all’uno e all’altra. Ci si riferisce, come ovvio, allo stato sociale o welfarestate. Quest’ultimo, ampiamente in crisi sin dagli anni Ottanta, è giunto ora al capolinea. A sostegno di questa affermazione non abbiamo bisogno di snocciolare elementi di erudizione politica, ci bastano le nostre vite. Basta inviare un curriculum o cercare una stanza in affitto (una stanza e non una casa!) per comprendere che la promessa implicita in tutte le cosiddette «costituzioni lunghe» del dopoguerra – tra cui quella italiana – viene oggi radicalmente smentita. Del nesso lineare e necessario tra crescita economica, giustizia sociale e stabilità politica non vi è infatti più traccia.
Il venir meno del sistema economico-politico del welfarestate (che come detto sopra le nostre vite ci mostrano assai meglio di qualunque querelle filosofica) coincide con il venir meno, al contempo, della credibilità dei suoi argomenti di legittimazione e delle istituzioni che ne incarnano l’autorità. Ciò sia detto con buona pace di tutti coloro che cercano di convincerci della bontà della causa: paternalisti di ogni schieramento e colore che invitano a credere ancora in un progetto già defunto (si vedano a tal proposto i vari editoriali dei quotidiani di oggi che, paterni, si compiacciono delle utopie giovanili e, al contempo, ne bacchettano severi le pratiche).
Vi è un’enorme differenza tra il valutare le democrazie per quel che sono e l’esaminare il concetto di democrazia nella sua valenza prescrittiva. La differenza è quella che passa tra l’essere e il dover essere. Al movimento composito che si è espresso ieri a Roma interessa il primo dei due termini: interessa ciò che è. Questa precisazione è della massima importanza per rivendicare la politicità di un movimento a cui, al contrario, si cerca di attribuire o un’anima utopica-moralistica o un corpo criminale-nichilista a seconda che se ne enfatizzi la “parte buona” o se ne criminalizzi la “parte cattiva”.
Interessarsi a “ciò che è” significa focalizzare l’attenzione sui rapporti reali che reggono l’attuale sistema di crisi per prendere una parte attiva all’interno della relazione. Entro questa relazione il sistema democratico non può giocare un ruolo super partes in quanto, nella concretezza della sua forma storica, il suo legame con il capitalismo non è né occasionale né neutro. Nel momento in cui l’illusione della sintesi tra profitto e giustizia sociale viene smentita con brutalità inaudita, risulta più che mai evidente da che parte stia la democrazia (quella vera, s’intende e non quella come “dovrebbe essere”). Il que se vayan todos delle piazze, tra cui quella romana di ieri, non va interpretato come un moto di indignazione rivolto soltanto ad alcuni rappresentanti specifici di un sistema altrimenti perfetto o perfettibile. Esso, al contrario, esprime una ben più radicale sanzione di illegittimità di un sistema che si legittima attraverso il ricorso a una promessa che, tuttavia, si è già esaurita/smentita.
Laboratorio sguardi sui generis
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