Il pettine, l’Apecar, la frattura e noi
Quella che si è consumata a Taranto non è per noi solo la cristalizzazione del conflitto tra capitale e vita. Non è solo la denuncia e cacciata dei sindacati filopadronali dalla fabbrica. Quello che è accaduto a Taranto è molto di più. E’ la comunità del rione Tamburi, i precari, i disoccupati e in prima battuta gli operai della fabbrica stessa, che rifiutano di farsi schiacciare ancora una volta da un ricatto occupazionale e cercano di rovesciarlo. Ricatto che quando l’Ilva si chiamava Italsider e le morti che portava a Taranto avevano il marchio dello Stato, era ordito dal pubblico (lo stessa gestione pubblica che ha segnato i sogni, gli orizzonti, il colore del cielo e persino l’urbanistica di una Taranto che sembra uscita da una cartolina del socialismo reale) e ora invece, dopo la svendita della fabbrica, continua a essere attuato dal privato, una gestione comunque capace di speculare anche sugli aiuti dello Stato, grazie a finanziamenti di bonifiche più volte erogati , ma mai realizzate.
E poco importa se, al dato di oggi, il tribunale conferma il sequestro degli impianti Ilva, vincolandolo però alla messa a norma e non alla chiusura degli stessi, perchè quello che è accaduto a Taranto rappresenta un vigoroso punto di inflessione. E’ la costruzione fuori e contro la fabbrica di nessi sociali, di una ricomposizione larga, è la saldatura di nuove e radicali alleanze. E’ la caduta, in ultima istanza, dell’elemento centrale che in Italia ha tenuto in piedi per decenni forza padronale e rappresentanza sindacale e che ha depotenziato i conflitti sociali e le battaglie per la costruzione di un welfare degno di questo nome: l’apologia del lavoro, l’ossessione salariale, la paranoia da piena occupazione.
Una caduta pesante, simbolicamente ma anche praticamente. E’ una caduta che innervosisce e fa perdere lucidità alla controparte (in primis ovviamente la controparte più vicina alla linea di frattura) che inizia a dare patenti di parassitismo sociale (cfr. Landini su Repubblica il quale evidentemente non ha mai fino in fondo compreso cosa fosse il reddito garantito) e arriva ovviamente alla repressione (più di quaranta compagni denunciati dai sindacati stessi per aver spostato qualche transenna).
Per questo il messaggio è arrivato forte e chiaro: reddito e diritti contro il ricatto occupazionale, senza accettare fallimentari elargizioni caritatevoli (vedi qualche misera e becera legge regionale sperimentata in Campania o nel Lazio) o dispositivi mediati dai sindacati di cassintegrazione.Per non parlare di proposte di legge che rivendicano il diritto al reddito con cifre molto inferiori persino alla soglia di povertà. Reddito, invece come orizzonte di conflitto, attacco ai profitti e redistribuzione della ricchezza per i soggetti precarizzati dalla crisi nel contesto di austerity. Per questo quello che è accaduto a Taranto parla oltre i cancelli dell’Ilva, parla a tutta Italia ed all’Europa, e dimostra che il concetto di non rappresentanza politica e istituzionale si sta traducendo in una rotta indipendente di attivo protagonismo di trasformazione sociale.
Quello che è accaduto in questi giorni in Italia è una caduta che, oltretutto, avviene nell’agosto dello spread e che sbeffeggia persino la mitologia dell’ “economia reale (tutti in fabbrica!) contro l’economia finanziaria” che qualche furbetto voleva utilizzare per la propria campagna elettorale (che poi altro non è che un dispositivo retorico per ulteriormente muoversi dentro l’infausta tradizione del “lavoro bene comune” italiota).
Insomma quello che è accaduto a Taranto è innanzitutto un punto di chiarezza. E’ un solco tra il secolo passato e questo secolo; è un solco profondissimo tra quelli che dicono “riaprite la fabbrica” (l’1% che potremmo rappresentare con un elenco lunghissimo dal Papa alla Fiom) e una comunità che supera anche l’ambientalismo civista che era stato in qualche modo persino funzionale alla reiterazione del dramma Ilva con il suo settario minoritarismo; è un solco che segna la differenza tra noi e loro. E’ un solco in cui da una parte c’è una comunità larga che si dispone, pratica e si organizza nel conflitto e dall’altra ci sono i pretoriani dello status quo, i crumiri, i poliziotti, i potentati economici.Quello che è accaduto a Taranto per noi fa storia perchè sgombra il campo dall’ambiguità e costruisce l’unità dentro la crisi dal basso, fuori da ogni tentativo di sommatoria politicista di ceto politico. Sgombra il campo dalle ambiguità e sottolinea l’irrappresentabilità e l’indipendenza del comune nel momento in cui lotta per la propria esistenza.
Taranto, in questo contesto, rappresenta una condizione globale dell’odierno conflitto: un’intera comunità schiava della logica del profitto che paga, in termini di vivibilità, salute e devastazione ambientale la necessità di riproduzione di un rapporto sociale arroccato sul bisogno unico di accumulare i frutti della ricchezza sociale prodotta, attraverso l’imposizione di rapporti di lavoro insostenibili, con il ricatto costante della componente del lavoro, in nome di una produttività spinta all’estremo senza alcuna tutela del territorio e dei lavoratori stessi; utilizzando, da un lato, tecnologie obsolete, negando e distruggendo, dall’altro, la vocazione territoriale verso forme produttive diverse e compatibili con i bisogni sociali ed ambientali della popolazione locale.Il conflitto tra il bisogno sociale e l’ordine che stabilisce la divisione internazionale della produzione, su scala globale, esprime oggi tutta l’incompatibilità tra i poli di una contraddizione che non si risolve con mediazioni di maniera.
Oggi, la crisi si ritorce sul mondo del lavoro, della precarietà e del non lavoro, facendo pagare i suoi costi insostenibili su tutti segmenti di classe; oggi, la nostra risposta alla crisi del sistema non può che essere una richiesta di reddito incondizionato che, proprio a partire dalle situazioni simbolo, come quella di Taranto, supera la logica e la retorica lavorista per rivendicare un diritto all’esistenza fuori dai rapporti sociali di produzione capitalistici.Ora sarebbe quindi utile interrogarsi non su come “esportare” un modello che è evidentemente difficilmente riproducibile per specificità e numeri, ma su come fare di Taranto, della battaglia fuori e contro l’Ilva una battaglia comune.
Una battaglia che parli al precariato diffuso, che parli ai disoccupati e alle disoccupate, che parli a tutta quella moltitudine che la crisi stà stritolando in un ricatto esistenziale del tutto simile al ricatto occupazionale che nel Mezzogiorno conosciamo bene e che è sovrapponibile al ricatto della precarietà.
Per questo crediamo innanzitutto fondamentale esprimere la nostra più completa, incondizionata solidarietà e complicità al Coordinamento cittadini e lavoratori pensanti di Taranto ed alle denunciate e denunciati. Ed è per noi importante discutere e rivedersi fuori dai cancelli dell’Ilva con la complicità di tutti quelli a cui questa battaglia parla, non solo a Taranto.Una prima occasione di confronto utile sarà Adunata Sediziosa a Napoli il 15 Settembre. Crediamo sia importantissimo in quel momento, insieme a tutti quei contesti che svilupperanno conflitti nell’autunno, dotarci del lessico comune dal profondo sud est al profondo nord ovest. Il lessico comune di tutte quei soggetti che difendono la vita contro il capitale, di tutte quelle comunità che rivendicano e si riappropriano di reddito fuori e contro il lavoro che oggi più di ieri è a tempo determinato, a nero, sottopagato, senza garanzie e nocivo. Un lavoro che non solo non è bene comune ma è evidentemente un’arma formidabile di ricatto sulle nostre vite.
Dovremo tornare tutte e tutti a Taranto. Fuori e contro i cancelli dell’Ilva.
Villa Roth Bari – Comitati di quartiere Taranto: Città vecchia, Salinelle,
Paolo VI – Area Antagonista: Lab. Okk. Ska – C.S.O.A. Officina 99 Napoli – C.S.
O.A. Asilo 45 Terzigno – C.S.O.A. Rialzo – Cosenza – LOA Acrobax Roma
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