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L’allarme democratico (quello vero)

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È in corso un’offensiva politico-poliziesco-giudiziaria contro il sindacato Si Cobas e soprattutto contro le centinaia di lavoratori e lavoratrici che stanno affrontando, sotto la direzione di questa sigla, durissime battaglie sul terreno della difesa dei posti del lavoro e del diritto alla contrattazione.

Non è la solita recriminazione contro la repressione – che in Italia, del resto, non guarda in faccia a nessuno e interviene puntuale, da sempre, dentro ogni contraddizione reale. Qua siamo davanti a un salto di qualità, coordinato e organizzato, che potrebbe anche preludere alla costruzione di un qualche “teorema” nazionale, se si troverà una Procura di buona volontà pronta a prestarsi. È tradizione italiana ricondurre alle aule dei tribunali tutti i fenomeni sociali che non si riescono a normalizzare.

Il rosario della repressione, solo per restare agli ultimi giorni, è impressionante e va aggiornato con il passare delle ore. Sul piano propriamente vertenziale, gli attacchi sono molteplici: a Tortona, a Brescia, a Fermo, a Bologna, a Castellarano: si va dall’ordinario cambio appalto con mancato rinnovo degli iscritti, al licenziamento mirato delle avanguardie (20 alla Coop di Tortona), al licenziamento di massa di chi sciopera (140 dipendenti alla Ambruosi e Viscardi di Fermo), alle cessioni di ramo d’azienda fatte al solo scopo di “ripulire” il personale riottoso e sindacalizzato (alla ex Pamm di Castellarano) e numerose altre situazioni analoghe. Poi c’è il versante poliziesco e giudiziario: si estende in tutta Italia la pratica dell’attacco manu militari ai presidi e ai picchetti, così come i fermi arbitrari contro dirigenti e militanti sindacali, i provvedimenti punitivi, le denunce, le sanzioni amministrative. Le Questure sono tutte allertate per stroncare a colpi di manganello ogni resistenza ai cancelli.

Modena si conferma laboratorio di queste pratiche antisindacali: dopo le centinaia di candelotti sparati ai cancelli dell’Italpizza per mesi, ora è in corso un bel maxi processo (che nostalgia) contro 86 ex dipendenti della Alcar. Fioccano i fogli di via contro i sindacalisti e arrivano le prime pericolosissime richieste di revoca della carta di soggiorno – che per i proletari stranieri sono una minaccia peggiore della galera. A questo ordinaria follia si aggiungono strane voci (e qualcosa di più) circa maneggi, manipolazioni e pressioni sui lavoratori più fragili ed esposti, allo scopo di coinvolgerli in una provocazione di più ampio respiro, da utilizzare magari in qualche ipotesi di “associazione a delinquere” – vecchio pallino degli ambienti giudiziari modenesi che hanno fallito con l’operazione Milani e non vedono l’ora di riprovarci. Il dispiegamento di uomini e mezzi smentisce tutte le chiacchiere sulle “carenze di organico”: quando c’è da bastonare gli operai, l’organico è adeguatissimo. Bisognerebbe farlo notare al piagnucoloso cittadino medio che chiede “più polizia”: vada davanti ai cancelli degli stabilimenti in agitazione e ne vedrà a volontà.

Se si sommano tutti gli elementi di questo contesto mefitico, si contano diverse centinaia di provvedimenti repressivi di vario tipo già in essere (dai rinvii a giudizio ai divieti di dimora) e considerando il pregresso, alcune migliaia di posizioni processuali, riconducibili unicamente a vertenze sindacali. Numeri impressionanti, totalmente occultati dalle cronache mainstream.
L’inquietante salto di qualità di cui parlavamo all’inizio, è nelle modalità in cui questo tsunami si sta dispiegando: mentre prima nei diversi territori l’approccio era variabile e condizionato anche da dinamiche locali, oggi pare esistere una strategia coordinata e generalizzata che mira a sconfiggere sul campo le vertenze (per scoraggiare i segmenti più attivi e sindacalizzati) e fare più male possibile al sindacato e alle sue avanguardie. “Impantaniamoli nella giungla giudiziaria, così non avranno tempo per fare altro”. Un’autentica resa dei conti pre-natalizia. Ma mirante a cosa? E gestita da chi?

Allarghiamo il focus del ragionamento. I dati macroeconomici sono in drastico peggioramento: Pil, produzione industriale – e segnatamente manifatturiera –, ordinativi e aspettative: ogni indice ha il segno meno. Tutte le strategie di sopravvivenza sono già state bruciate: in questi vent’anni la compressione dei salari e la precarizzazione di massa, attraverso lo stiracchiamento delle filiere e l’abuso degli appalti interni, sono stati l’unico strumento – ampiamente utilizzato – per mantenere margini di competitività abbassando il costo del lavoro e intensificandone lo sfruttamento: una specie di “delocalizzazione interna” praticata con entusiasmo da tutta l’impresa italiana, grande e piccina. Oltre, però, non si può andare. La corda è ormai consumata.
Un clima di panico serpeggia oggi nel micro mondo delle imprese italiane; l’interrogativo che rimbalza da un centro studi all’altro, che tutti ripetono con voce bassa e tremante, è: “stiamo tornando al 2008? Dopo un decennio, siamo tornati alla casella di partenza della Grande Crisi?”.

Al punto in cui siamo, rischia di essere una domanda retorica: ormai ci siamo dentro fino al collo. E del resto in un paese in cui ogni anno cala il reddito disponibile delle famiglie, calano gli investimenti privati, non decollano quelli pubblici, aumenta la pressione fiscale, all’interno di un quadro continentale stagnante da oltre un anno, nella debole condizione di terzisti dell’industria continentale europea, che situazione si potrebbe manifestare, se non quella che è sotto i nostri occhi?

Siamo di nuovo in quella sacca tremenda da cui avevamo solo avuto l’illusione di essere usciti. E la affrontiamo con un armamentario di ammortizzatori molto più povero e meno tutelante, rispetto a dieci anni fa – su questo piano Ichino e compagnia bella hanno lavorato bene, esercitando un’egemonia di lunga lena su tutti i governi tecnici, di destra o di sinistra, i quali, un pezzetto alla volta, hanno rosicchiato gli strumenti difensivi che riparavano un minimo i lavoratori e che nel 2008 avevano impedito un adeguamento meccanico e immediato dei livelli occupazionali all’andamento produttivo.

Torniamo ai facchini. Chi sta concretamente gestendo questa nuova escalation antioperaia e antisindacale? Questori ardimentosi, prefetti intraprendenti, graduati bellicosi in cerca di medaglie e promozioni? Crediamo di no. Queste cose non si decidono nelle sedi locali. C’è un livello di decisionalità politica più alto. Certe operazioni di piazza sono anche pericolose; a Castellarano un dipendente è stato investito da un capo cooperativa pochi giorni fa, mentre in tutti i picchetti i tentativi di sfondamento dei camion sono all’ordine del giorno – la tragedia del povero Abdel Salam è dietro l’angolo, anche senza eccedere in allarmismi. Quindi: chi si prenderebbe la briga di organizzare queste grandi manovre paramilitari, senza la copertura politica del Ministro dell’Interno?

E qui c’è il primo nodo da sciogliere (lo sottoponiamo volentieri alle Sardine democratiche): al Viminale oggi non c’è più il puzzone Salvini, con il suo “linguaggio violento” e le sue “retoriche sovraniste” e la sua “cultura dell’odio”; al governo oggi c’è il centro sinistra, e a gestire l’ordine e la sicurezza pubblica c’è una funzionaria di lungo corso, dall’aria presentabile e l’impeccabile bon ton istituzionale (vabbè, era nella squadra di Salvini, ma questo in Italia è abbastanza normale, siamo gente laica e pragmatica).

Però, le domande che vanno poste sono: chi al governo del paese sta sollecitando o coprendo questa ondata repressiva antisindacale? Qualcuno si è assunto questo ruolo di killer delle lotte, facendo fare “alla sinistra” il lavoro sporco della destra, come nella migliore tradizione italiana?
E ancora: l’impossibilità di fare pratica sindacale vera – cioè scioperi e picchetti –, rappresenta un vulnus democratico grave almeno quanto “le retoriche populiste” del cattivone Salvini?
Massacrare lavoratori, prevalentemente stranieri, spesso donne, è più politicamente corretto e sopportabile delle sparate xenofobe o antifemministe dei trogloditi leghisti?
E in ultimo. È normale che si debbano passare anni nelle aule di tribunale (o peggio), per aver reclamato l’applicazione della legalità – giusti contratti per giusto lavoro, equo salario, tutele contro i licenziamenti, diritti sindacali? Cioè: la normalità costituzionale sta diventando oggettivamente sovversiva?

Cosa succederà se dentro la crisi sociale incipiente, larghe masse impoverite cominceranno a rivendicare reddito e servizi, a fronte di una disoccupazione di massa? La post-democrazia italiana è in grado di sopportare tale domanda senza implodere e delegare ai suoi corpi armati il simulacro della pace sociale?

Ecco, questa è la situazione. Una pesantissima crisi sociale in arrivo, centinaia di migliaia di persone che rischiano concretamente di trovarsi senza un lavoro nei prossimi due anni, le crisi storiche – Ilva, Alitalia, il settore bancario, l’automotive tutto intero – nelle quali nessuno sa dove mettere le mani e che tutti sanno come andranno a finire. I salari ulteriormente falcidiati dalla riduzione, pesante, delle ore lavorate. La ristrutturazione tecnologica usata come una clava contro i segmenti più deboli di forza lavoro.

Un popolo già frastornato, livoroso e impaurito, potrebbe trovarsi davanti a un concretissimo smottamento sociale. Gli esiti di tale passaggio sono onestamente non prevedibili. Anche la Bella addormentata della favola a un certo puntò fu costretta ad aprire gli occhi. Magari la nostra favola sbocca nell’incubo e la Bella addormentata si risveglia zombi, ottusa e feroce. Non lo sappiamo.
Quello che sappiamo è che mentre nella Francia dei gilets jaunes, si sciopera per una settimana intera, dando corpo, voce e dignità al malessere sociale, in Italia Landini auspica un “fronte comune imprese, sindacati, governo per una nuova idea di paese”.
Prepariamoci a un risveglio che sarà comunque brusco.

Di Giovanni Iozzoli per Carmilla

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