Dopo l’annuncio da parte del regista Ken Loach di non voler ritirare il premio alla carriera al Torino Film Festival in segno di protesta per il trattamento riservato ai lavoratori della cooperativa Rear impegnati da anni nell’evento torinese e il conseguente ritiro del suo film ‘La parte degli angeli’ dalla rassegna, anche lo sceneggiatore Paul Laverty si è espresso favorevolmente rispetto alla scelta fatta dal regista.
Di seguito riportiamo le sue dichiarazioni in merito alla questione dei lavori in subappalto e le conseguenti implicazioni in materia di responsabilità.
Tralasciando tutti gli insulti che sono stati scagliati contro Ken Loach, ritengo sia importante concentrare l’attenzione sul principio centrale della questione e devo dire che il comunicato stampa pubblicato dal Museo nazionale del cinema di Torino lo ha fatto con grande chiarezza.
In sostanza, questa controversia solleva la questione più critica nel campo delle relazioni di lavoro in ogni parte del mondo, vale a dire quella dei subappalti.
Tutti concordano sul fatto che i servizi di pulizia e sicurezza del Museo nazionale del cinema di Torino sono stati concessi in subappalto a una ditta esterna, la Cooperativa Rear.
Vale la pena di riportare fedelmente la posizione del Museo: “Il Museo non può essere ritenuto responsabile dei comportamenti di terzi, né direttamente né indirettamente. Di conseguenza, non sarebbe in alcun modo legittimato a intervenire nel merito di rapporti di lavoro fra i soci di una cooperativa esterna e la loro stessa società.”
Questa posizione coincide con quella delle più potenti multinazionali a livello mondiale, le quali possono godere di leggi sulle aziende e sul lavoro che sono state plasmate a loro favore. Ciò solleva questioni etiche e legali profonde che sono meritevoli di un dibattito rigoroso poiché condizionano la vita di centinaia di milioni di lavoratori in tutto il mondo.
Se accettiamo la posizione riportata sopra, secondo la quale l’azienda che esternalizza a una ditta appaltatrice non ha responsabilità “diretta o indiretta”, quali possono essere le implicazioni? (Questo era il tema che affrontammo nel nostro film “Bread and Roses”).
Significa che le catene di negozi di abbigliamento nelle capitali europee non devono assumersi alcuna responsabilità per lo stato di miseria in cui vivono le sarte e i loro figli in Bangladesh, dove le condizioni di lavoro sono peggiori di quelle dell’Inghilterra vittoriana. Significa che i supermercati non devono assumersi alcuna responsabilità per i prodotti alimentari sui loro scaffali, confezionati da migranti clandestini che lavorano per salari inferiori a quello minimo. (Una realtà che abbiamo conosciuto quando abbiamo condotto le ricerche per il film “In questo mondo libero”). Significa che le aziende globali che producono computer e parti di ricambio per le automobili nella città di Juarez, in Messico, un luogo che ho visitato, non si assumono alcuna responsabilità per le condizioni di miseria e di pericolo in cui vivono e lavorano questi operai.
Non diciamo che la controversia nel Museo sia di questa natura o di questa scala, ma in ogni caso questo è il rapporto contrattuale che hanno adottato e che ora difendono.
Se accettiamo questo principio, riconosciamo ai potenti non solo la possibilità di fare come vogliono, ma anche di evitare le responsabilità. Significa che prenderanno la decisione più importante di tutte, quella della ditta a cui aggiudicare il contratto, che potranno ottenere i vantaggi dello sfruttamento dei più deboli senza avere alcun rapporto con loro e che potranno poi dare la colpa a qualcun altro.
È il modello aziendale perfetto: la “sindrome di Ponzio Pilato”.
Al di là dei suoi aspetti più specifici, questa controversia dimostra quanto è cambiato il mondo, perché chi dovrebbe essere maggiormente consapevole di ciò che accade negli angoli più remoti di questo nostro complesso pianeta sostiene oggi pubblicamente questo principio.
Paul Laverty
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