Le parole dei minatori. Intervista con un occupante della Carbosulcis
Ma è l’incertezza a regnare sovrana. Nessuna risposta certa dalle parti coinvolte. Il ministro Clini ha dichiarato di avere un progetto pronto per la Carbosulcis, nessuno ha potuto sapere quale però. L’incertezza stringe i lavoratori fino a condurli al gesto esasperato di ieri che ha visto un minatore ferirsi davanti alle telecamere. Ricoverato all’ospedale Sirai di Carbonia con alcuni punti di sutura le sue condizioni paiono ora rassicuranti.
L’incertezza è lo spettro principale sotto il pozzo. Un’incertezza prodotta da una politica non più capace di garantire la sopravvivenza del territorio, un territorio sul quale, entro l’univoca logica dello scambio tra sfruttamento ambientale e la creazione di occupazione, si è costruita una rete di potere politico come livello separato e capace di riprodursi da sé. A questa stessa rete sono state vincolate le relazioni sociali e produttive della regione. È proprio questa empasse che rende, anche in un momento di così profondo scollamento e sfiducia, la politica un interlocutore obbligato nello sviluppo delle lotte sul lavoro nel Sulcis. Si tratta di aggredire allo stesso tempo i due corni del problema: la politica e l’occupazione industriale da questa creata come strumenti di governo e di impoverimento del territorio, perché, come riferitoci fuori dalla lampisteria da un minatore ormai prossimo alla pensione, “finché esiste questa classe politica, ha ragione di esistere anche la Carbosulcis”, con tutte le sue contraddizioni, le sue nocività.
Ogni giorno che passa l’occupazione del pozzo carbonifero è sempre più snervante. I compagni si danno il cambio, scendono a turno nella gabbia. Quelli che risalgono aspettano l’informativa in mensa delle due. Gli spazi di lavoro sono ingombri di giornalisti, e, come nel pozzo, l’aria, complice il caldo afoso, secca la gola.
Si aspettano notizie che non arrivano. L’incertezza per l’appunto. Le uniche notizie provengono dal pozzo stesso. Due minatori decidono di scendere ancora più giù nel sottosuolo, a meno 400 metri in una galleria dalle condizioni ambientali al limite: livelli di umidità altissimi, acqua sopra le ginocchia, ancora meno ossigeno nell’aria. È servita una squadra di 12 compagni per convincerli a risalire, per riportarli alla gabbia. Ambulanze hanno raggiunto l’ingresso del pozzo e soccorso i due minatori (vedi il filmato).
Nel vialone che porta all’ingresso del pozzo abbiamo incontrato Luciano, da 30 anni in Carbosulcis, assunto perché figlio di un minatore morto a causa della miniera. Ci siamo fatti raccontare il lavoro, la storia della miniera, le lotte passate e quella di questi giorni, e ancora il rapporto della miniera con il territorio, la crisi del Sulcis.
È questo un momento in cui i riflettori, eccezionalmente, vengono massivamente puntati su quella che Luciano ha chiamato la “terra bastarda del Sulcis”. Un momento in cui l’opinione pubblica si affretta a schierarsi, spaccandosi tra chi solidarizza con i minatori – spesso in nome di un nominale ed ideologico “diritto al lavoro” – e chi, invece, nel tentativo di smarcarsi criticamente, denuncia l’insostenibilità ambientale del rilancio della Carbosulcis, senza però cogliere la gradualità politica di questa problematizzazione, separandosi inevitabilmente dalla condizione lavorativa, dalla materialità del ricatto occupazionale, dalla ricerca delle forme dell’organizzazione collettiva per il riscatto comune. Uno strappo che non possiamo permetterci.
Sappiamo che dobbiamo interrogare i rapporti esistenti, le concrete forme di composizione delle lotte, nei loro caratteri, nei loro limiti, per costruire nel territorio le condizioni per la comprensione del lavoro e ribaltare, nella pienezza produttiva delle nostre relazioni sociali, la subalternità delle vite, della salute, della riproduzione del territorio al ricatto del lavoro.
Domani sarà un’altra giornata di attesa. Si dice che arriveranno notizie da Roma solo nel tardo pomeriggio. Certamente una cosa è chiara: se le risposte domani non dovessero arrivare, allora dopo venerdì le risposte, i minatori, andranno a cercarsele. Infatti questa occupazione è soprattutto una lotta contro l’incertezza. L’incertezza che attraversa allo stesso modo lavoro e territori nella crisi e che ci pone improrogabilmente una domanda sulla volontà dell’organizzazione comune delle nostre vite e sulla volontà di riscattarle.
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