Ma chi ha detto che non c’è (-ero)
dopo il 1 maggio milanese..
“Sta nel sogno dei teppisti e nei giochi dei bambini” G. Manfredi
“Fin a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.” L’odio
“Non ricordo se c’ero o non c’ero, ma qualcosa accadeva in città…” (cit.)
Dopo il primo maggio siamo stati travolti dalla pornografia giornalistica e dalla smania giustizialista di politicanti, apparati di controllo e opinionisti da bar. Ci siamo quindi presi del tempo prima di scrivere, un pò esterefatti dall’improvviso baccano di una società anestetizzata alle violenze e ai soprusi quotidiani. Ci piacerebbe invece dare un nostro contributo per riuscire a vedere in queste giornate milanesi non un cataclisma, ma un contesto con cui confrontarci per superarne i limiti e valorizzarne la forza.
Il primo maggio eravamo trentamila persone a sfilare nelle vie di Milano. Le diverse realtà politiche e sociali che da anni lottano nei propri territori contro lo sfruttamento di uomini e risorse ha trovato nella lotta all’Expo un’occasione di opposizione sociale praticabile collettivamente. Dalla testa del corteo alla sua coda, dallo spezzone dei comitati territoriali ai precari, ai facchini e agli occupanti di case, passando per la samba, la trash e la banda degli ottoni era un unico grande e netto rifiuto. Un corteo numeroso, vitale ed eterogeneo in cui erano presenti tutte le lotte e le realtà che si oppongono a questo governo e a ciò che l’EXPO rappresenta: lo sfruttamento nei posti di lavoro, gli sfratti nei quartieri popolari, la cementificazione a uso e consumo di mafiosi e capitalisti, lo strapotere e l’arroganza di banche e multinazionali. La molteplicità dei contenuti, delle esperienze messe in campo e delle diverse modalità di stare in piazza è stata reale e visibile, lo sa bene chi in quelle strade c’era. Tutte e tutti hanno potuto esprimersi e nessuno ha subito le scelte di altri. C’era chi voleva ballare e chi voleva urlare il proprio sdegno, chi voleva manifestare pacificamente e chi voleva creare conflitto: così è stato, per scelta.
In piazza c’erano quindi anche migliaia di giovani che hanno deciso di non lavorare gratis per nessuno, di agire con il proprio corpo la rabbia e la frustrazione contro un futuro negato, un’esistenza precaria, una classe politica e dirigente marcia, arrogante e corrotta. A queste migliaia di giovani dobbiamo guardare, per valorizzarne la voglia di riscatto e portarla nella pratica politica quotidiana, nei nostri quartieri, nelle nostre città, nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro se ancora ne rimangono. Ci siamo lamentati per anni del silenzio, della passività delle nuove generazioni, della regressione culturale di un paese devastato da vent’anni di “berlusconismo”: Milano dimostra il contario e ne siamo sollevati.
Di certo non è stato un primo maggio qualunque. A Milano EXPO ha aperto i battenti con la città blindata ed il centro chiuso e vietato a pochissimi giorni dal corteo. A Milano comanda comunque EXPO: il volto spettacolarizzato e brutale del capitalismo. Insomma lo specchio di un paese che non ci piace e che vogliamo cambiare. La scelta di blindare la città è stata una provocazione, al pari dei blitz preventivi dei giorni precedenti nei quartieri popolari, le perquisizioni illegali a casa di compagne e compagne, la fabbricazione del mostro mediatico, gli arresti e le espulsioni, la criminalizzazione del dissenso. Notiamo con dispiacere come negli stessi ambienti di movimento cresce e si radica pericolosamente la percezione di una divisione tra buoni e cattivi funzionale alla repressione ed al controllo sociale. In questo senso abbiamo percepito come assordante ed incomprensibile il silenzio seguito agli attacchi polizieschi ai quartieri popolari dei giorni immediatamente precedenti al corteo, come se quella repressione riguardasse solo chi la subiva.
E’ ridicolo chi parla di infiltrati. Qualche poliziotto sì, qualche giornalista di troppo pure, ma l’ultimo spezzone, quello che ha sostenuto gli scontri lungo tutta la giornata, era uno dei più numerosi. Ciò non certo perchè fosse un entità distinta, ma proprio perchè dal resto del corteo continuavano ad affluire persone e ad ingrossarne le fila. Inoltre, cosa non da poco, nonostante l’ingente dispositivo di forze dell’ordine, l’aria resa irrespirabile dai lacrimogeni e la presenza di comitati territoriali, famiglie e attivisti delle più svariate aree politiche il corteo è arrivato fino alla fine con determinazione e coraggio, autotutelato e in sicurezza. Non è quindi nel metodo né nelle pratiche il limite di giornate come queste, ma nella difficolta di spiegare il dato politico e sociale di una rabbia diffusa e non addomesticabile e nella difficoltà a saperla indirizzare lucidamente e collettivamente contro il modello di sfruttamento capitalistico, superando paure e pressioni, legittimando quel conflitto a cui nessuno può sottrarsi.
Chi è rimasto a casa, o indietro, oggi si compiace nel giudicare le forme di lotta di chi, nonostante tutto, si assume le proprie responsabilità e mette in gioco la propria vita e il proprio futuro. Ci auguriamo che questi telespettatori abbiano l’occasione per ricredersi, si fa in fretta a proletarizzarsi di questi tempi. Da parte nostra diciamo che dobbiamo rispetto alle compagne e ai compagni che si sono spesi per quella giornata di lotta, per la generosità e la coerenza messi in campo. Così come dobbiamo solidarietà agli arrestati, il cui status sociale non corrisponde esattamente a quello del professionista degli scontri con il rolex al polso: una barista, una disoccupata, un elettricista, uno studente ed un commesso. Di certo qualcosa di molto più reale e quotidiano delle favoleggianti narrazioni mediatiche.
La violenza della piazza del primo maggio non è la violenza di pochi teppisti, ma l’espressione della rabbia di un intera generazione. Il riscatto della violenza subita quotidianamente durante gli sfratti nei quartieri popolari, sui posti di lavoro e nelle Università, nelle strade delle nostre città, nei meccanismi di esclusione e marginalità di una società che antepone il profitto a tutti i costi alle esigenze e ai bisogni delle persone. Certo, crediamo nella necessità di rapportarsi al contesto e comprendere che porsi degli obiettivi e dei criteri, anche e sopratutto nelle pratiche di piazza più radicali, sia la premessa fondamentale alla riproducibilità delle pratiche e alla generalizzazione del conflitto. Le poche macchine bruciate ed altre intemperanze difficilmente comprensibili dai più non ci scandalizzano e di certo non monopolizzano la nostra attenzione sui fatti, ma evidenziano a nostro modo di vedere limiti e contraddizioni che, è bene riaffermarlo, tutte e tutti dobbiamo assumerci e superare. Assumere la rabbia e la sua espressione violenta come un fatto sociale e saperla indirizzare ed auto-organizzare verso obiettivi collettivamente praticabili e comprensibili è politicamente più intelligente del credere di evitarne la degenerazione semplicemente voltando la testa dall’altra parte.
La piazza del primo maggio nonostante tutto ci è piaciuta, ci è piaciuto il coraggio e la determinazione di migliaia di persone che hanno sfidato divieti e provocazioni per affermare la propria incompatibilità ad un sistema capitalista, quello si, che devasta e saccheggia. Questa incompatibilità, evidente nelle diverse forme del conflitto sociale presenti nel nostro paese (non solo a Baltimora o ad Istanbul…) è il nostro punto di partenza: in una casa occupata cosi come nell’attaccare la zona rossa di una città-vetrina blindata c’è un agire diretto e collettivo che crea legami di solidarietà e pratiche di vita differente. Come in ogni sperimentazione a volte bisogna fermarsi a riflettare, ma con lo sguardo sempre proiettato in avanti, consapevoli che in ogni contraddizione c’è una possibilità di avanzamento.
Difendere l’allegria, organizzare la rabbia!
Tutt* liber*!
Territori solidali in lotta
Collettivo per l’Autogestione – Urbino
CSA Oltrefrontiera – Pesaro
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