Meglio una proposta di lotta che una proposta di Letta
Mentre la pandemia sembra allentare la morsa sulle nostre vite e la stesura Draghi del Recovery Fund continua a favorire “impresa” e capitale da un lato, disuguaglianze e devastazione ambientale dall’altro, giunge come un fulmine a ciel sereno la timidissima proposta di tassa sull’eredità fatta dal Segretario PD, Enrico Letta.
La proposta è timida perché quantitativamente irrisoria. L’incremento della tassa di successione, ad oggi la più bassa tra i grandi paesi europei, modificherebbe di poco l’aliquota ereditaria per l’1% più ricco al fine di creare una dote di 10.000 euro per i 18enni appartenenti alle famiglie meno abbienti. Di certo non la peggiore idea del PD, e nemmeno di Letta, e infatti metà del partito è contrario.
La debolezza della proposta e la levata di scudi contrari che ne è seguita evidenziano due aspetti che possono tornare utili ad un ragionamento collettivo realmente conflittuale e redistributivo.
In primo luogo, il dibattito sulle disuguaglianze, similarmente a quanto avviene con il green-washing, viene declinato dai sopravvissuti del campo socialdemocratico in maniera remissiva e strettamente compatibile con l’asse di comando capitalistico odierno.
In secondo luogo, il governo Draghi, senza opposizione di alcun tipo, sta applicando le solite ricette economiche neoliberiste “all’italiana”, socializzare le perdite ed il peso del debito per tutelare la rendita e sopportare collettivamente i costi d’impresa di Confindustria.
Andiamo con ordine e partiamo dalla parzialità, se non inutilità, della proposta di Letta.
La compatibilità della lotta alle disuguaglianze in un quadro sistemico.
Com’è ormai noto e ben documentato, l’avvento negli anni ‘80 della fase capitalista “neoliberista” ha prodotto un’ulteriore polarizzazione della ricchezza globale a vantaggio del cosiddetto mondo “occidentale”. Se escludiamo l’ascesa dell’Asia orientale imperniata sul successo Cinese, tema che meriterebbe una trattazione specifica, la capacità dell’élite capitalista occidentale di appropriarsi in della ricchezza è cresciuta sia a livello interno-nazionale sia globale-periferico.
Un esempio recente viene dalla crisi finanziaria globale, la “grande recessione” del 2007-08 che segna un passaggio rilevante del nostro perdurante impoverimento collettivo. Se è facile legare lo scoppio di quella crisi alla deregolamentazione e all’irrazionalità della finanza “neoliberista”, è utile soffermarsi su quelle interpretazioni che hanno fornito lenti più ampie di quanto successo all’interno del sistema, ossia perché l’accumulazione attraverso la finanza sia uno stadio essenziale dei cicli capitalistici.
L’allocazione crescente di capitali nella sfera finanziaria, incentrata su Wall Street, scaturisce dalla necessità dei capitali di trovare impieghi più remunerativi nel momento in cui l’economia materiale/commerciale diviene satura, cioè quando si manifesta l’incapacità del consumo di tenere il passo delle capacità produttive.
Seguendo questa logica, il fatto che il 10% più ricco del pianeta abbia visto aumentare la propria ricchezza nei confronti del restante 90% non è che una naturale conseguenza del “successo” capitalista che si è tradotto in una competizione globale del fattore lavoro.
L’aggettivo “costante” affianco a “crisi” sembrerebbe contradditorio, tuttavia un’altra caratteristica “efficace” del capitalismo è quella di dilatare il tempo in cui le contraddizioni esplodono. Infatti, nel periodo 1980-2008, una ‘soluzione’ fittizia adottata progressivamente nei paesi occidentali è stata la concessione dell’indebitamento di massa. Il debito massificato ha permesso che la domanda globale si arrestasse più lentamente fino alla sua implosione con il crollo del mercato finanziario nel 2008.
Questa crisi di sistema, dettata linearmente dall’eccessiva appropriazione di ricchezza da parte dei ricchi del pianeta, non si è minimamente risolta e continua ad essere bilanciata da un mercato dei capitali fondato su una sconsiderata, ma inevitabile, immissione di moneta, in particolare dollari. La crescita del debito individuale, aziendale e nazionale indica come l’incapacità sistemica di distribuire la ricchezza sia ancora legata alla possibilità di indebitarsi sfruttando politiche monetarie fortemente espansive. Alla luce di ciò, le disuguaglianze si possono definire come una contraddizione intrinseca che il comando capitalista tenta di post-porre il più a lungo possibile nel tempo.
Questa breve ricostruzione riesce a fornirci degli elementi per capire perché parlare di disuguaglianze e della loro parziale riduzione non è nemmeno lontanamente un tema incompatibile con la riproduzione del sistema capitalistico stesso.
Infatti la polarizzazione della ricchezza è divenuta talmente acuta che gli stessi economisti main stream e gli addetti ai lavori delle istituzioni finanziarie internazionali made in USA, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, si sono spinti a suggerire politiche redistributive della ricchezza ben più drastiche della proposta “Letta”.
Al fine di evitare nuovi crolli della domanda, soprattutto in un futuro in cui la moneta non sarà stampata e quindi “economica” come lo è adesso, molti attori del sistema capitalista si interrogano sulla necessità di redistribuire oggi per rilanciare i profitti di domani. Il tutto allo scapito della vivibilità del pianeta terra, si intende.
Draghi & Confindustria: il solito copione.
Arriviamo quindi a parlare della levata di scudi contro Letta.
Partiamo dal dato:
L’1% più ricco degli italiani detiene il 22 % della ricchezza nazionale, un dato pazzesco (Oxfam 2020) che tuttavia non è nemmeno in grado di incorporare la capacità dei capitalisti nostrani di nascondere ed espatriare verso i “paradisi fiscali” una buona parte della loro ricchezza.
Come si accennava sopra, buona parte della stampa, i partiti di destra e Confindustria hanno subito fatto quadrato sull’irricevibilità della proposta, paventando la fine proprietà privata. Draghi ha risposto con un ecumenico “non è il momento di prendere (le tasse), ma di dare (i sussidi)”. Infatti la cricca capitalista italiana prende, eccome se prende dal Recovery Fund e figuriamoci se possono fare l’elemosina in tempi di vacche magre. Chi si era immaginato un Draghi da “Stato innovatore”, keynesiano fuori tempo massimo e paternamente giusto verso le nuove generazioni, si è dovuto ricredere in circa tre mesi.
Draghi è lo stesso banchiere liberista di sempre, niente tasse e soldi alle imprese, una ricetta già vista ma che presenta almeno due novità di forma. La prima novità è che i sussidi a pioggia verso gli industriali adesso si chiamano digitalizzazione e green, ossia i soldi collettivi del Recovery andranno a sostituire i costi d’impresa nell’avanzamento del processo produttivo sia in termini di produttività (digitale) sia in termini di impatto ambientale (green). La seconda novità è che il patto di stabilità, ossia le norme che non permettevano all’Italia di indebitarsi ulteriormente, rientrerà in vigore nel 2023, e Draghi si fa forte dei 220 miliardi del Recovery da utilizzare nei prossimi 6 anni (Commissione Europea 2021-2027). Erano anni che Confindustria, costruttori e mafie non intravedevano un tesoretto del genere.
La proposta di Letta è un pannicello caldo per nascondere le vergogne del capitalismo.
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