G7, le tasse che piacciono alle multinazionali
Sabato 5 giugno a Londra si è tenuto il primo G7 “in presenza” dallo lo scoppio della pandemia. In attesa del prossimo weekend (11-13 giugno, Carbis Bay, UK), quando si incontreranno i capi di stato e degli esecutivi, la giornata del 5 è stata caratterizzata da un meeting dei ministri delle finanze dei sette paesi occidentali più influenti.
Un incontro, il cui esito, è stato accolto come storico da buona parte della stampa globale. Infatti, il comunicato conclusivo annuncia un accordo sulla tassazione globale che rappresenti un argine allo strapotere delle multinazionali, in grado di evadere strutturalmente ogni forma di imposizione fiscale.
Il centro dell’accordo è il seguente, i 7 paesi, ben lontani dal rappresentare il globo, si impegnano a portare avanti una strategia per imporre una tassazione minima del 15% da far pagare alle grandi compagni tecnologie (i “big tech” Google, Amazon, Facebook, Apple) in ogni paese. A loro dire, imporre una tassazione minima obbligatoria eviterà il dumping fiscale, ossia la capacità delle multinazionali di registrare la loro proprietà in paesi che offrono importanti vantaggi in materia di tassazione, (vedi Olanda e Lussemburgo in Europa).
Come avevano già sottolineato per la proposta di Letta sulla tassa di eredità, questa iniziativa rappresenta una palese ingiustizia che di redistributivo non ha nulla ma è interamente atta a non far inceppare il sistema capitalistico.
Per prima cosa è necessario sottolineare che i membri del G7, per quanto ovviamente molto influenti, non sono in grado di imporre immediatamente questo tipo di azioni su scala globale. Infatti, i protagonisti hanno subito rilanciato sulla necessità di affrontare questo tema al G20 di Venezia (8-11 luglio).
Passiamo al nodo centrale, ossia all’aspetto quantitativo di questo nuova postura fiscale. Il 15% è una miseria, un regalo, un contentino. Chiamatelo come volete. Facciamo dei facili esempi. L’aliquota fiscale minima per lavoratori e lavoratrici in Italia è pari al 23%, ma chi ha stipendi superiori ai 2000 euro si ritrova a pagare oltre il 30% di tasse, chi sopra i 3 mila addirittura il 43%. Parliamo di individui in lavoro subordinato.
Anche per quanto la rendita immobiliare, la cedolare secca sugli affitti in canone libero (anche un BnB) è al 21%, la tassazione sulla rendita finanziaria è al 26%. Questi tre dati, se ce ne fosse bisogno, mostravano già una sproporzione tra chi si guadagna da vivere lavorando e chi paga tasse su rendite e capitali.
Tuttavia al cospetto delle multinazionali nostrane e straniere, tutte registrate in Olanda, che non pagano da anni un euro all’erario, la classe media, impoverita o meno, si percepisce sempre derubata dal fisco. Ancora più incredibile, ahinoi, è che a berciare su questa contrapposizione tra tassazione interna ed evasione delle multinazionali sono Salvini e Meloni.
Il grafico OCSE sottostante ci aiuta a fare il paragone tra il livello di tassazione che dovrebbero affrontate le imprese italiane (e di altri paesi) rispetto alle già nominate “big tech” (tutte americane). La linea rossa è il 15%, ben al di sotto di quanto pattuito con le imprese che sono registrate nei propri paesi di produzione e commercio.
Non è un caso che i consigli di amministrazione di queste multinazionali non abbiano sollevato nemmeno un dubbio o una critica a questa proposta made by Joe Biden. Se questa iniziativa sarà di successo i ricchi della terra sanificheranno la propria posizione anche dal punto di vista istituzionale-globale andando a perdere una piccolissima fetta dei loro infiniti ricavi.
Secondo le prime stime, un paese come l’Italia, recupererebbe circa 2.7 miliardi di euro l’anno, come dicevano in principio, una miseria che non sarà in grado di sanare nessuna delle deficienze dei conti pubblici e dei problemi materiali che la popolazione vive.
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