Migranti e periferie: inquadrare il nemico comune
“Questo lavoro colossale che è quello di reintrodurre l’uomo nel mondo, l’uomo totale, si farà con l’aiuto decisivo delle masse europee che, devono riconoscerlo, si sono spesso allineate circa i problemi coloniali sulle posizioni dei nostri comuni padroni. Per questo, bisognerebbe anzitutto che le masse europee decidessero di svegliarsi, si scuotessero il cervello e cessassero di giocare al gioco irresponsabile della bella addormentata nel bosco.”[1]
Sayad, sociologo e filosofo algerino, scriveva ne “La doppia assenza” della funzione specchio delle migrazioni: guardare al fenomeno migratorio significa guardare nel profondo delle strutture dello Stato. Esso, in quanto conduttore di conflitti e mediazioni, diventa rivelatore, “specchio” delle caratteristiche tanto della società d’origine quanto di quella d’arrivo[2].
In questo senso il “sistema accoglienza” va osservato come fatto totale, come un fenomeno attraverso cui si possono leggere per estensione altre questioni della nostra società che inevitabilmente ne fanno parte e lo costituiscono[3].
Il terzo settore, soprattutto nel pubblico, vive oggi una crisi mai raggiunta: se da un lato dovrebbe offrire servizi che risultano poi essere del tutto scarsi e scadenti, dall’altro si configura come sistema chiuso e propulsore di precarietà.
Dal punto di vista lavorativo, infatti, la figura dell’operatore dell’accoglienza va sempre di più professionalizzandosi senza però un riscontro effettivo in termini di garanzie e salario. Considerato che l’obiettivo dell’accoglienza dovrebbe essere quello di promuovere l’autonomia e l’indipendenza dei soggetti ai quali si rivolge, siamo di fronte ad uno di quei paradossi che mandano in tilt il senso stesso dell’esistenza di certi luoghi. L’operatore sociale dovrebbe lavorare per far sì che non ci sia più bisogno della sua figura, quello che accade realmente è che il tutto prende la piega del più becero assistenzialismo. Ciò genera non solo insoddisfazione e frustrazione nei lavoratori, che si ritrovano spesso ad imporre scelte incompatibili con loro stessi, ma anche una vittimizzazione e destorificazione dei soggetti migranti. Il considerarli come vittime tutte uguali a se stesse, senza alcun riguardo al background personale, e renderli massa indistinta portartice delle stesse richieste, ha generato una enorme passività dei soggetti migranti. Esclusi i detenuti nei Cie, protagonisti della gestione “eccezionale” del sistema, che si ribellano continuamente distruggendo da dentro i centri di detenzione, la maggior parte dei soggetti migranti interni al sistema accoglienza non si attiva spesso sulla sua condizione se non su vertenze specifiche del proprio Centro.
Pratiche positive di autorganizzazione e autogestione si ritrovano nelle lotte sociali che attraversano questo Paese come la lotta per la casa nella quale migranti e italiani insieme impongono un diritto legittimo, quello ad avere una abitazione, e un discorso politico forte rispetto alla gestione della questione abitativa e della città in generale attraverso l’autorganizzazione e la lotta dal basso; lo stesso avviene nelle lotte dei lavoratori migranti, dalle campagne alla logistica, ambiti in cui vengono chiamati in causa temi come quello dello sfruttamento e delle garanzie lavorative che riguardano anche noi autoctoni direttamente.
Inoltre, per quanto riguarda la gestione dell’accoglienza, qualsiasi cooperativa o associazione, a prescindere dall’ambito di intervento, può sperimentarsi nell’esercizio di questa funzione e con Mafia Capitale ciò è diventato palese agli occhi di tutti. Tutto il sistema è gestito in maniera emergenziale: non esiste una vera pianificazione strutturale e a lungo termine, si mettono le toppe di volta in volta. Cosi fu per il Piano Nomadi della giunta Alemanno: le comunità rom sono state sbattute per la maggior parte fuori dal Gra in campi “attrezzati” e, dato che il Piano considerava ancora i rom come popolazione nomade, non si sono posti problemi rispetto alla mancanza totale di servizi e alla marginalizzazione e all’esclusione sociale che questa avrebbe generato. Ad oggi i campi si configurano come buchi neri, voragini che costellano le città, micro-mondi che non vogliamo vedere, o di cui vediamo solo ciò che di negativo esiste al loro interno senza considerare che chi li abita non è sempre uguale all’altro, e con cui non riusciamo a dialogare.
Lo stesso vediamo oggi con i Centri di Accoglienza che di fatto rappresentano ciò che di più lontano esiste dall’“accogliere”. Si viene ospitati in grossi edifici, spesso con problemi strutturali di diversa natura, nei quali poi si passa il giorno a fare niente, si è costretti ad imparare l’italiano nonostante non sempre ce ne sia il bisogno in quanto molti migranti desiderano andare in altri Paesi europei, si è costretti a mangiare ciò che la cooperativa distribuisce e se ti lamenti sei anche un ingrato perché ciò che dovrebbe essere un tuo diritto diventa un regalo, se non si firma per 3 giorni di fila si perde il posto e si finisce per strada.
Spesso questi edifici sorgono nelle zone più periferiche della città perché l’affitto costa meno e gli “ospiti” finiscono per ingrossare le fila degli abbandonati, di quelli che non arrivano a fine mese, di quelli che non conoscono più i loro diritti perché non li hanno mai visti concretizzarsi. Queste periferie (non solo quelle metropolitane ma anche i centri della provincia) sono quegli spazi del nostro Paese che oggi vediamo esplodere di rabbia e che spesso giornali e tv dipingono come razzisti. Dall’episodio del 2014 di viale Giorgio Morandi per finire all’ultimo avvenuto a San Basilio dobbiamo interrogarci su cosa vuol dire essere antirazzisti oggi.
Puntare il dito sugli abitanti che si ribellano alla presenza migrante e limitarci a definirli razzisti o fascisti non ci aiuta e spiana il terreno alle destre. Oggi chi abita le periferie non vuole teorie politiche ma fatti, soluzioni e risposte che spesso non siamo in grado di dare e che forse nemmeno spettano a noi. Manca una presenza costante e continuativa sui territori ed una chiara lettura politica e culturale dei soggetti a cui parliamo: tra chi mitizza l’abitante delle periferie e chi lo disumanizza esistono poche esperienze che sul territorio provano ad andare oltre.
Essere antirazzisti non può voler dire difendere il sistema dell’accoglienza o proporne uno alternativo, non è organizzare la massa migrante con delle vertenze proprie specifiche, non è chiedere alle istituzioni una soluzione. Oggi praticare antirazzismo e antifascismo vuol dire esserci nelle periferie, intessere relazioni solide e proporre un cammino di lotta che non contenga al suo interno “la linea del colore” ma che a partire dalle problematiche che tutti viviamo scardini questa orizzontalità del conflitto per renderlo verticale, per inquadrare in chi ci governa un nemico comune.
[1] Fratz Fanon, “Les Damnés de la terre”, 1961, tr. it. “I dannati della terra”, Einaudi, 2000
[2] Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, a cura di Salvatore Palidda, Milano, Raffaello Cortina, 2002
[3] Marcell Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, (titolo originale Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques, 1ª ed. 1925), Einaudi, 2002
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