Nuovi conflitti urbani e composizione di classe
Gli ultimi quattro anni hanno visto una riemersione dei conflitti urbani su scala globale, molti dei quali hanno avuto come detonatore temi direttamente legati alla questione urbana (trasformazioni urbane, gentrification e deportazione di popolazioni a basso reddito, investimenti immobiliari, costo dei servizi collettivi, ecc… ). Uomini e donne, in numeri corposi, sono tornati ad occupare lo spazio pubblico con manifestazioni, accampamenti, rivolte, assedii alle istituzioni centrali. I grandi centri urbani sono stati il teatro principale di questa improvvisa riemersione del conflitto sociale. Questo non è un fatto di per sé nuovo. Fin dalle origini della modernità capitalistica il tessuto urbano è stato il luogo deputato al manifestarsi delle turbolenze sociali, punto di concentrazione di un proletariato creato ex-novo dal modo di produzione capitalistico, spazio in cui si condensa al massimo la contraddizione tra espropriazione/sfruttamento e possibilità di liberazione.
Altra cosa è invece considerare l’organizzazione e la produzione dello spazio urbano come livello specifico investito e messo in questione dalle lotte. Si tratterebbe quindi di verificare in che misura i conflitti recenti hanno aggredito, direttamente o indirettamente, la segmentazione e la gerarchizzazione capitalistica dello spazio urbano. In che misura l’attacco alla rendita immobiliare e al nuovo rapporto ch’essa intrattiene con la finanziarizzazione (quello che abbiamo definito il mattone come derivato) è stata mesa al centro di queste proteste; se la destinazione delle risorse pubbliche per la speculazione immobiliare e la ristrutturazione urbana hanno fatto parte dei contenuti di queste mobilitazioni; chiedersi insomma, per dirla con Lefebvre, se queste lotte hanno avuto la “capacità di intervenire nello spazio opponendo un contro-spazio, dei contro-piani e dei contro-progetti, alle strategie, ai piani e ai programmi imposti dall’alto”.
Contemporaneamente alla dimensione antagonistica, questi conflitti hanno espresso il bisogno di riannodare legami sociali, mettendo al centro della propria azione non solo la contestazione dell’ordine esistente ma anche l’embrionale costruzione di momenti di cooperazione e mutualismo, ponendo, seppur timidamente la questione della riproduzione sociale dentro un ciclo di movimento. Interrogare queste caratteristiche alla luce della crisi in corso non è un esercizio inutile. Il fatto che questi bisogni emergano ora e non dieci, quindici o vent’anni fa non è senza rapporto con l’approfondirsi di nuove polarizzazioni sociali e l’imposizione di rinnovate e più dure misure di privatizzazione, finanziarizzazione e austerità (taglio della spesa sociale).
Una prima ipotesi di dicussione che avanziamo è che il multiverso prodursi di lotte, resistenze, insurrezioni e riots che hanno increspato lo spazio liscio del capitale, a partire dalle sollevazioni delle “cosiddette primavere arabe”, abbia costituito una prima risposta globale dei movimenti alla crisi emersa nel 2008.
(Almeno nel contesto occidentale) i soggetti che hanno dato vita a imponenti mobilitazioni, spesso caratterizzate dall’occupazione ripetuta nel tempo (abitata) dello spazio pubblico nel centro urbano (Casbah, Tahrir, Zuccotti Park, Puerta del Sol, Gezi Park), si sono mossi in forme qualitativamente differente da quelle cui eravamo stati precedentemente abituati dal movimento No Global. Laddove quel ciclo di movimento mirava soprattutto a smuovere le coscienze per produrre un cambiamento nell’opinione pubblica (per esercitare successivamente una pressione sulla politica istituzionale), tutte le esperienze di questi ultimi anni hanno espresso pittosto un bisogno immediato di concretezza ed efficacia, sia arrivando a mettere in discussione il potere politico centrale dei singoli stati-nazione, sia istituendo spazi di discussione e organizzazione talvolta capaci di attivare o connettersi con mobilitazioni su larga scala, concentrate su specifiche issues (pensiamo al rapporto virtuoso prodottosi in Spagna tra acampadas e mareas).
A partire da queste considerazioni, intendiamo porre alcune domande alla discussione collettiva.
Quali sono stati i punti di forza e quali i limiti delle risposte messe incampo dai movimenti contro la crisi ?
Qual’è stato il significato di Occupy?
Dovesi può dare un salto in avanti? Quali sono le aperture possibili?Sono emersi punti di un possibile “programma”?
E ancora, all’indomani dei piccoli (seppur generosi) percorsi di lottache hanno interessato il nostro paese e all’indomani di un responso elettorale problematico e sconfortante: è sufficiente la lotta contro l’austerity? Come può configurarsi un nuovo “diritto alla città” che tenga insieme la lotta al debito con la battaglia per diritti d’uso collettivo (commons)?
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