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Pasquale Romano. Una questione di classe

«Noi vogliamo parlare, vogliamo gridare. Vogliamo ribellarci. E la società civile deve essere con noi, deve dire basta. Non possiamo dargliela vinta. Perché quello che è successo a Lino che è stato ammazzato per niente, può succedere a chiunque. Non c’è difesa. E allora dobbiamo essere uniti. Dobbiamo dire che questa città è la nostra, non di questa gentaglia che ammazza solo per denaro. Dobbiamo scendere in piazza, dobbiamo riprenderci le strade, dobbiamo dire che questo spazio è nostro, non loro. Le bestie che ammazzano devono andare via. Noi siamo qua, vogliamo resistere.”

Queste le parole di Salvatore, il padre della compagna di Pasquale Romano, ragazzo ucciso con 14 colpi di pistola mentre era a bordo della sua auto in Piazza Marianella. Ucciso come un boss, eppure, era soltanto uno dei tanti che, nel tempo della crisi e dell’austerità, si “arrangiava”.

Pasquale era un ragazzo che giorno per giorno faceva i conti con quella precarietà esistenziale che caratterizza i nostri tempi. Per di più in un territorio difficile, dove da un giorno all’altro scoppia l’ennesima “guerra di camorra” e sei costretto a barricarti in casa.

Un contratto a tempo determinato alla Prysmian di Pozzuoli. La solita precarietà ad impedire di vivere la sua vita in maniera dignitosa insieme alla compagna. Insomma un “bamboccione” come tanti!

Molti dicono che si trovasse nel posto sbagliato al momento sbagliato. Eppure Pasquale stava soltanto attraversando quei luoghi che quotidianamente attraversava. Stava semplicemente vivendo la sua vita, fatta di precarietà lavorativa ed esistenziale.  Ma quando è in corso una guerra, nonostante non la si è scelta, nonostante vorresti restarne fuori,  ci sei comunque dentro. E la morte può arrivare da un momento all’altro.

“Dobbiamo scendere in  piazza, riprenderci le strade!” diceva Salvatore nel vedere la vita di Pasquale stroncata  e una figlia distrutta dal dolore. Eppure nell’VIII municipalità di Napoli tutto tace.

Ai familiari di Pasquale non resta che un inutile appello alla giustizia dello stato e una la lettera alla ministra Cancellieri. Del resto se l’unico conflitto in corso è una fottuta guerra per il denaro in cui ci sei dentro soltanto perchè vivi quei luoghi; se quello è l’unico conflitto capace di attivare quella fetta di proletariato e precariato che vive le tue stesse condizioni, in sella ad uno scooter pistola alla mano o nelle fila della militarizzazione dello stato, c’è davvero poco da fare.

Come per tutte le guerre non bastano movimenti di opinione. Non servono “eroi di carta” alla Saviano. Nessuna inutile fiaccolata. C’è soltanto un’opzione altra da costruire. Un’opzione che vada a scavare un solco tra i cartelli criminali e la militarizzazione dello stato, facendo risuonare forte, tra una barricata e l’altra,  il “que se vayan todos!”, per poter costruire dal basso un altro modo di vivere le proprie vite, senza la paura che un colpo di pistola te la porti via da un momento all’altro. Perché la lotta alla camorra è una questione di classe e non c’è da stare né con l’asfissiante militarizzazione del territorio, né con i cartelli criminali.

Un’opzione che può nascere soltanto dall’inchiesta costante, sul territorio e dentro il soggetto sociale reale, di tutte quelle soggettività politiche che non si riconoscono nella retorica legalitaria dell’anti-mafia da salotto. Indagare il campo e cercare di attaccare quei nodi in grado di creare processi di soggettivazione per costruire quei percorsi di lotta ed emancipazione necessari.  Le “barricate per la pace”. Perché anche questa è una guerra,  una guerra che sfrutta ed opprime!

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