Perché non possiamo non parlare degli anni ’70 a Torino
I malcelati tentativi di censura avanzano sotto la bandiera della legalità. Un commento sugli attacchi di Libera e del Corriere alla proiezione di un documentario all’Università di Torino dalla pagina del Collettivo Universitario Autonomo.
Il Corriere della Sera locale riporta nell’edizione di questa mattina le obiezioni che Libera muoverebbe alla proiezione di un documentario su Pancrazio Chiruzzi prevista per oggi pomeriggio a Palazzo Nuovo. Con grande scontatezza lo strillone di turno cerca di costruire il caso scandalo, additando l’iniziativa come una provocazione del centro sociale Askatasuna ad un giorno dalla marcia di Libera a Saluzzo. Forse l’edizione locale di recentissima apertura del Corriere ha un così disperato bisogno di affermare la sua esistenza da mendicare un po’ di attenzione utilizzando impropriamente il nome di Askatasuna? Come sempre ci ritroviamo a dover fare un po’ di chiarezza.
Oggi alle 17 è prevista nell’aula 39 di Palazzo Nuovo la proiezione del documentario “PAN – Un bandito a Torino”. L’iniziativa è organizzata dall’associazione culturale Senza Pazienza in collaborazione con il Collettivo Universitario Autonomo. L’intento dichiarato dell’iniziativa non è quello della celebrazione acritica di un personaggio, ma piuttosto quello di portare anche in università uno sguardo di parte, approfondito e non scontato, di cui nelle aule universitarie si sente sempre più la mancanza. A partire dalla storia di Pancrazio, e ancora di più con la sua presenza in aula, abbiamo l’occasione di raccontare ed ascoltare una testimonianza diretta degli anni ’70 nelle periferie torinesi. Anni vertiginosi, un coacervo di eventi e contraddizioni, il cui dirompente protagonismo dei giovani proletari delle periferie metropolitane viene raramente approfondito nell’ambiente accademico. Questo è il posizionamento che ci ha sempre contraddistinti: oggi una di queste voci, tacciata ed esclusa dal dibattito storiografico, si è resa disponibile per condividere il racconto in prima persona di quello che è stato uno dei decenni più densi della nostra città ed è nostra intenzione dare risalto ed eco ad uno dei tanti protagonisti di una storia dal basso, povera e proletaria, una storia degna di essere raccontata.
È desueto e scomodo parlare in università di una gioventù proletaria e marginalizzata che dall’essere la banda di ladri di biciclette del quartiere è entrata a gamba tesa nei grandi cicli di politicizzazione degli anni ’70 durante le rivolte in carcere? Certamente, ma proprio per questo per noi si fa ancora più necessario aprire spazi anche per queste tante storie rimosse.
Per quanto ci concerne, l’iniziativa è stata comunicata all’università ed autorizzata secondo le usuali procedure con un ampio anticipo di ben due settimane. Invitiamo i vertici universitari a scomporsi di meno davanti ai giornalisti, a maggior ragione se peccano di non sapere nemmeno che cosa succede all’interno della loro stessa università. Una dichiarazione frettolosa e superficiale di qualche addetto alle pubbliche relazioni o un divieto ad un’iniziativa precedentemente autorizzata? Avremo la misura dell’influenza che un trafiletto a fondo pagina del Corriere della Sera ha sulla libertà di noi studenti di arricchire la nostra esperienza universitaria organizzando e partecipando a iniziative di interesse culturale.
Veniamo infine, con una nota di perplessità, all’intervento di Libera in tutta la vicenda. Non esiste ragione alcuna per accostare alla mafia la figura di Pancrazio Chiruzzi, che anzi deve la sua notorietà al suo agire in modo completamente indipendente. Abbiamo sempre coerentemente affermato il nostro essere antimafia, ma la nostra è una pratica sociale e viva, che non fa del ricordo un feticcio commemorativo ma vive degli insegnamenti e della messa in pratica di chi ha combattuto in prima linea, senza sottrarsi al contesto in cui viveva, ricco di contraddizioni e sfumature come qualsiasi contesto sociale che non sia quello dei tribunali e delle questure.
Quello che non ci interessa invece è fare il gioco di uno Stato Italiano che per trovare una legittimità nella cittadinanza ha bisogno di costruirsi dei riti commemorativi e di bollare tutti i suoi nemici come dei mafiosi, ma che tiene come dirigente della DIA un torturatore condannato a 3 anni e 8 mesi per i fatti della Diaz. Oggi vogliamo raccontare anche questa parte di storia: i nemici dello Stato non sono i nemici di tutti, e non sono tutti mafiosi.
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