Sardegna: scioperi generali e prospettive di movimento
La giornata del 13 marzo si inserisce pienamente nel contesto di opposizione alla crisi che da ormai più di tre anni sta caratterizzando molti settori dell’economia isolana. Non si contano più infatti le proteste a distanza ravvicinata contro lo smantellamento del welfare e il degrado del sistema produttivo. In particolare, il Sulcis vive una situazione che definire drammatica è dir poco; già divenuta la zona più povera d’Italia in seguito a migliaia di licenziamenti in massa, l’opera di spostamento delle attività, in primis siderurgiche, verso nuove colonie con manodopera a costo inferiore, pare destinata a proseguire, nonostante le rassicurazioni che puntualmente arrivano da Roma, Cagliari, o addirittura dagli Stati Uniti, laddove hanno sede i colossi del settore interessati.
Possiamo affermare che l’aggravamento delle condizioni economiche e sociali si sia accentuato brutalmente da 2 anni a questa parte, prendendo come spartiacque lo sciopero generale del 5 febbraio 2010, quando nel capoluogo isolano si riversarono 50 mila persone.
Le cifre complessive della crisi produttiva sono molto più esemplificative di qualsiasi analisi discorsiva: negli ultimi quattro anni, nei settori produttivi, la Sardegna ha perso 30000 posti, 100000 lavoratori utilizzano tutta la varietà degli ammortizzatori sociali disponibili; presenta un tasso di disoccupazione giovanile che con il fenomeno dello scoraggiamento riguarda un giovane su due: 50000 sono senza alcun sostegno al reddito. A fronte delle richieste sindacali di un intervento d’emergenza straordinario del Governo Italiano, che difficilmente si tradurranno in proposte positive e propositive per la comunità sarda, alcune forze movimentiste paiono dal canto loro spinte dalla necesità di darsi una nuova fase progettuale.
Alcune delle principali correnti indipendentiste, identitarie e autonomiste che compongono il frazionato arcipelago del movimento sardo, sia a livello extrapartitico che di rappresentanza hanno infatti raggiunto una Convergenza, da alcuni definita ‘storica’, sulle strategie da adottare nei territori da qui in avanti, non solamente per fronteggiare le emergenze economiche, ma per portare una voce forte e che abbia una reale internità nelle vertenze locali e costruite dal basso. La Carta della Convergenza independentista verrà esposta e dibattuta sabato 17 Marzo.
L’arco temporale di questa crisi, che ormai non è più stato d’eccezione ma regola irreversibile del modus vivendi con la quale fare perennemente i conti, sta vedendo un progressivo e inesorabile distacco della coscienza collettiva dai meccanismi della rappresentanza istituzionale nazionale e regionale. Quest’ultima fatica a legittimarsi, se non rincorrendo con parole adulatrici, ma sterili, le grazie di coloro che paiono diventare sempre più, giorno dopo giorno, ex-elettori illusi da un meccanismo democratico al collasso ma di cui, attualmente, non si intravede organizzazione alternativa.
Rispetto a precedenti periodi di crisi istituzionale, difatti, quello che pare mancare al popolo sardo per dare una scossa vitale a sè stesso nel segno dell’autodeterminazione che lo contraddistingue, è la messa in relazione delle capacità tecniche e realizzative tra le vecchie e l’esigua nuova generazione, che l’atomizzazione dei dispositivi di controllo neoliberista ha messo pericolosamente in discussione.
Si avverte in sostanza il bisogno di aprire una fase di organizzazione seria e radicale che riporti alla luce la questione identitaria e dei rapporti di classe come questione culturale e politica fondamentale anche per riproporsi con vigore nei meccanismi del mercato globale, partendo da posizioni nette e inamovibili (come ad esempio, il rifiuto del potenziamento del Poligono Interforze del Salto di Quirra).
L’auspicio è che in tempi brevi il frastagliato mondo movimentista isolano possa strizzare l’occhio e in qualche modo ‘includersi’ ai movimenti di opposizione e di alternativa popolare alla crisi neoliberista come il NoTav, e alle esemplari forme di organizzazione e resistenza che arrivano dal sempre più vicino NordAfrica, non ultimo il Movimento dei Diplomati Disoccupati.
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