Sfruttamento? Ci pensa Foodora! Intervista con un lavoratore in mobilitazione
La nostra protesta nasce sicuramente per caso. L’estrema individualizzazione cui siamo sottoposti unita alla praticamente assente formazione ci hanno paradossalmente messi in contatto e via via uniti. C’era la necessità di aiutarsi. Solo successivamente abbiamo cominciato a confrontarci. Quando l’azienda ha cominciato a zittire ogni tipo di obiezione personale abbiamo banalmente pensato che se avessimo parlato tutti insieme ci avrebbero ascoltato, così ha avuto inizio la ricerca di modalità collettive volte a porre questioni alla direzione senza ritorsioni personali. Ci siamo organizzati con un gruppo su whatsapp. Buttavamo dentro tutti quelli che incontravamo in giro durante i turni vestiti di rosa. Abbiamo scritto una lettera dai toni molto cordiali e ci siamo fatti in 4 per raccogliere 90 firme ed ottenere un incontro formale con Cocco, l’AD di Foodora Italia, il quale ci ha incontrati dopo 4 settimane di rinvii e scuse. Le richieste vertevano su 4 punti: aumento degli stipendi, convenzioni per la riparazione delle nostre bici, sim aziendali e organizzazione generale del lavoro. L’incontro è finito con vaghe promesse su riparazioni per le bici e un rimborso forfettario per le spese telefoniche. Gli stipendi erano intoccabili (5 euro l’ora) in quanto il delicato equilibrio economico di Foodora era stato raggiunto. A settembre ci siamo ritrovati con le promesse non mantenute e delle assunzioni di nuovo personale in massa pagato con una nuova formula: 2,70€ a consegna, senza un fisso che garantisca di essere pagati per i tempi morti. Al che abbiamo deciso di intraprendere i contatti sindacali e richiedere un incontro tramite loro. Venerdì 7 ottobre è scaduto il termine di 7 giorni che avevamo dato all’azienda senza ricevere una risposta, allora abbiamo dichiarato lo stato di agitazione. Quello che è successo il giorno successivo lo trovate su tutti i giornali. Sostanzialmente vogliamo un fisso orario che rispetti gli standard sindacali nazionali, un eventuale bonus sul numero di consegne effettuate e la garanzia di poter lavorare un minimo durante il mese, contro l’estrema flessibilità a cui siamo sottoposti.
A quanto ho capito la vostra condizione contrattuale è, in un certo senso, studiata apposta perché la figura del rider possa essere rimpiazzata di continuo praticamente senza conseguenze legali sull’azienda. Come pensate di reagire nel caso in cui Foodora decidesse, come extrema ratio, di licenziare tutti coloro che hanno preso parte alla protesta in modo da “eliminare” il fastidio una volta per tutte?
Il nostro è un Contratto di collaborazione coordinata e continuativa (Co.co.co) secondo il quale siamo considerati quasi dei liberi professionisti anziché dipendenti dell’azienda. Il nostro rapporto sussiste di volta in volta per il turno orario stabilito. Nulla li obbliga ad assegnarci turni, quindi invece che rescindere il contratto possono semplicemente limitarsi a non assegnarci più turni fino alla sua naturale scadenza. Questo fa anche sì che loro assumano molto personale di riserva a costo zero da utilizzare nel caso di necessari turnover repentini. Dubito che l’azienda sia così stupida da ricorrere a licenziamenti di massa, vista la forza di mobilitazione che siamo riusciti a mettere in campo e vista la solidarietà che abbiamo raccolto a piene mani da qualsiasi direzione. Resta il fatto che se dovesse esserlo non esiteremo a rilanciare una mobilitazione ancora più dura e parallelamente a seguire una vertenza collettiva per vie legali. Secondo i nostri consulenti infatti il contratto contiene molti illeciti, oltre al fatto che ci sono parecchie prove che testimoniano il nostro essere a tutti gli effetti dipendenti e non collaboratori.
Secondo me una protesta di questo tipo è doppiamente importante perché mette in crisi – forse per la prima volta in Italia – l’immaginario renziano di un superamento del lavoro salariato tradizionale a favore di aziende 2.0 e start-up fortemente incentivate da leggi come il Jobs Act. Ovviamente è una retorica che tenta di silenziare le condizioni di ultraprecarietà a cui vengono sottoposti i lavoratori di queste aziende e che cerca di mettere sullo stesso piano datori di lavoro e dipendenti partendo da un presupposto anagrafico/generazionale secondo cui “tutti i giovani sono uguali”. Voi avete dimostrato che ciò non è realistico, e che anche all’interno di un piano di iniziativa professionale di questo tipo esistono sfruttati e sfruttatori. Secondo te è auspicabile che una lotta di questo tipo investa anche altri settori e altre aziende del mercato del lavoro precario?
Assolutamente si. L’obiettivo che ci siamo posti, oltre al cambiamento della nostra condizione lavorativa, è quello di rifiutare un modello di sfruttamento che trascende in modo trasversale tutte le realtà lavorative odierne. Co.co.co., voucher e lavori gratuiti sono oggi per la stragrande maggioranza le uniche forme di lavoro che si possono trovare. Probabilmente io e altri come me, una volta ottenute condizioni migliori, non resteremo neanche in Foodora. Quello che ci siamo detti però è stato “se per l’ennesima volta lasciamo questo lavoro per cercarne un altro, non potremo che trovare un altro lavoro di merda, lasciato a sua volta da qualcun altro e così via”. Allora abbiamo deciso di agire, e invitiamo tutti ad alzare la testa e dire basta.
La vostra mobilitazione, tra l’altro, ha suscitato molto interesse mediatico e ha raccolto un’immediata solidarietà tra studenti e lavoratori di Torino. In che modo si può aiutare concretamente la campagna #FoodoraETlabora e partecipare alle vostre iniziative? Come pensate di proseguire la vostra mobilitazione?
Marketing e cura della propria immagine sono per Foodora la prima preoccupazione e voce di spesa. Abbiamo deciso di colpirli proprio lì dove sono più sensibili e attenti, perciò abbiamo chiesto e chiediamo non tanto di non ordinare con Foodora (anche) ma soprattutto di far intendere loro che migliaia di persone sono attente a questa questione. I commenti sulla loro pagina facebook e le telefonate al servizio clienti sono degli ottimi strumenti che ad ora stanno funzionando. Per il resto chiediamo che sia tenuta alta l’attenzione mediatica affinché non scompaia tutto come è iniziato tra pochi giorni. Seguite la pagina facebook Deliverance Project e condividete, passate la voce e partecipate alle iniziative pubbliche che sicuramente convocheremo.
da SUAG – Solo Un Altro Giornalino
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