[Sulla prima linea] Un medico di territorio in pieno distanziamento sociale
Abbiamo intervistato un giovane medico di medicina generale (medico di base), che ha ricevuto diverse proposte di lavoro dall’inizio della pandemia, e ci racconta la sua esperienza come medico del territorio nelle settimane del pieno distanziamento sociale. L’intervista è stata realizzata qualche settimana fa, in piena fase 1, quindi alcuni dati citati fanno riferimento a quel momento.
Le scorse puntate:
Prima puntata: Intervista dalla terapia intensiva
Seconda puntata: «Ci sono una serie di limiti e problemi che questo sistema ha sempre avuto»
Terza puntata: Voci dalla corsia, tampone sì tampone no
Quarta puntata: Cosa vuol dire lavorare in una USCA?
Quinta puntata: «Una medicina più medicalizzata e molto meno umana»
Sesta puntata: Il punto di vista di un’epidemiologa
Come è stato trovarsi in questa situazione senza avere un ruolo come medico? Cosa hai trovato come offerte di lavoro?
Io sono un medico con formazione specifica in medicina generale, un medico delle cure primarie, mi colloco come professionista della salute alla base di una piramide che vede la mia figura come primo filtro, come medico del territorio: sono a contatto con sani, malati, giovani, anziani, donne e uomini, qualsiasi patologia.
In queste settimane ci troviamo nel contesto di una pandemia scaturita da un virus, quindi una malattia infettiva, che coinvolge in primo luogo le vie aeree, quindi pneumologia, e che quando si complica porta il paziente ad un’assistenza da terapia intensiva, che coinvolge anestesisti e medici d’emergenza. Questo per dire che io non sono una figura verticale in questo contesto. La medicina è una branca estremamente verticale, ognuno dovrebbe svolgere il proprio ruolo sennò si fa confusione e si fanno sbagli.
Detto questo, in un momento di crisi, perché in emergenza sanitaria c’eravamo già, ogni figura professionista della salute è importante. Ci tengo a specificare che in Italia la medicina generale non è una specializzazione.
Nel ‘78 viene istituito il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) costituito su 3 principi cardine: universalità, uguaglianza ed equità. In questo contesto viene destituita la figura nota come “medico della mutua”. La mutua era un istituto previdenziale che gestiva l’assistenza medica solo per le categorie dei lavoratori, quindi per definizione non era universale. Il medico di medicina generale dal ‘78 al ‘99 poteva essere un medico qualunque iscritto all’Ordine dei medici, senza specializzazione, che si recava alle vecchie USL (Unione Sanitaria Locale) e si collocava con uno studio e seguiva un certo numero di assistiti. Nel ‘99 viene istituito il corso triennale di medicina generale organizzato dalle Regioni. Non è un’università, non c’è un apparato universitario dietro, io l’ho fatto in una zona buona a Roma, il territorio di competenza dell’ASL Roma 3, e ho seguito un ospedale non universitario, il San Camillo-Forlanini. Ma ci sono enormi differenze in questo corso perché ogni regione lo gestisce in maniera indipendente, anche se ci sono alcuni standard. Insomma il medico di medicina generale in Italia non è un medico specialista propriamente detto, cioè tu non hai una specializzazione, cosa assurda perché nel resto del mondo il titolo di medico di medicina generale equivale ad una specializzazione come tutte le altre. Leggevo un articolo di un medico di base di Lisbona che raccontava come veniva gestita lì la situazione del corona virus, le unità di salute familiare, insomma lì risulteresti specialista.
Quindi nella mia formazione non ho avuto una vera figura di riferimento, non mi ha insegnato nessuno nello specifico come affrontare a livello professionale questa situazione.
Durante questi mesi inizialmente sono stato senza lavoro, e ci sono state tantissime proposte, sia sul territorio sia no.
Ad esempio data la carenza di personale all’interno delle strutture sanitarie, alcuni tipi di bandi ospedalieri sono stati aperti a noi medici di base. Un ospedale della provincia di Roma apriva con contratti a 6 mesi o comunque a tempo determinato, tarati sull’emergenza, a qualsiasi tipo di medico per andare a lavorare all’interno dell’ospedale nelle unità Covid o in reparti di Medicina Interna in fondo affini a queste Unità che venivano “improvvisate”. A mio parere è una cosa pericolosa quella che è stata fatta, non puoi buttare così tutti nel mucchio, qualsiasi figura medica. E lo dico anche perché ho un amico che sta lavorando in situazioni simili, a tappare buchi in assenza di personale.
Teniamo sempre in considerazione che la mia è una voce di un medico che sta a Roma, mentre i luoghi che hanno vissuto in maniera più grave l’epidemia sono al nord Italia, noi non abbiamo vissuto quel livello di saturazione delle strutture sanitarie.
Nel Lazio sono stati allestiti 4 hub, la Columbus vicino all’ospedale Gemelli, lo Spallanzani, uno a Casal Palocco e un altro vicino a Tor Vergata. l’unico che è rimasto operativo è stato lo Spallanzani per fortuna.
Torniamo alle proposte di lavoro, ma devo prima fare un’altra premessa: il medico di medicina generale è un libero professionista convenzionato con il sistema sanitario. Non siamo dipendenti pubblici in senso stretto, come è in diversi paesi in Europa. Periodicamente si stabilisce tramite i sindacati corporativi l’ACN (Accordo collettivo nazionale): dei rapporti e delle convenzioni con le singole regioni per regolare il lavoro, le responsabilità e le libertà del medico di base. Quindi il medico di base nel suo studio ha tutti i pro e i contro di essere un libero professionista con la garanzia dietro del sistema sanitario pubblico. Però ad esempio non abbiamo la malattia e le ferie. Se uno si ammala non può lasciare lo studio scoperto, ma devo cercare una sostituta o un sostituto. Si crea ogni tanto solidarietà territoriale, ci sono gruppi Facebook, o liste dei sindacati. Alcune Asl virtuose hanno delle liste di medici che sostituiscono.
Tornando alla domanda: il lavoro che sto svolgendo in questi giorni mi è arrivato tramite una chiamata diretta di un medico di base che già conoscevo. Ho scelto questo lavoro perché il medico che sono andato a sostituire è un medico di cui ho stima e fiducia, e aveva bisogno perché lui è andato con la protezione civile in un’ospedale in provincia di Brescia dove tutti i 180 posti letto sono stati adibiti a pazienti Corona virus positivi, con la sindrome Covid. Ha aderito alla domanda di volontario, che comunque prevede anche un rimborso spese, una sorta di stipendio, ed è andato 4 settimane al nord a dare una mano a questo ospedale in maniera mirata, e mi ha chiamato per sostituirlo. Ripeto, ho accettato questo posto proprio perché non si trattava, con tutto il rispetto, di un medico che ha scelto di restare a casa con la famiglia per paura dei pazienti.
Si è trattato di una sostituzione ad un medico che lavora in una zona di Roma molto popolosa. Lui è un medico massimalista, che ha raggiunto il suo massimale di assistiti (1500), per dire che il suo studio nel territorio è un punto di riferimento e fa solo il medico di base. Hai un ruolo sociale grosso se scegli di farlo. Al contrario dell’immaginario, spesso confermato, del medico di base che passa le carte, o come era 40 anni fa quando l’accesso alle cure era molto più semplice. Oggi se io come medico di base ti prescrivo una TAC, e poi passano 8 mesi prima che ti chiamano, è una disagio per la persona. E’ un lavoro all’interno di un sistema più complesso, che sta subendo una metamorfosi negli ultimi anni. Secondo me oggi più di prima è una scelta provare a fare seriamente il medico di base. Io ad esempio ho lasciato una specializzazione in medicina interna per fare questa professione, perché non volevo fare il medico ospedaliero.
Faccio un altro esempio di offerta di lavoro che ho ricevuto: ho rifiutato una chiamata del 118 ARES, un lavoro d’emergenza, ben pagato, dovevo solo rispondere al telefono al centralino della regione. L’ho rifiutato perché volevo fare qualcosa di più incisivo. Però questo centralino dove ci sono solo medici che rispondono è un supporto psicologico fondamentale. Si sono sconvolte le attività quotidiane delle più minime, le persone vivono un forte stress psicologico.
Com’è il lavoro del medico di base durante la pandemia? Il servizio è rimasto effettivamente attivo? Ci sono i DPI?
Il lavoro ovviamente cambia molto da zona a zona, ma la pandemia ha abbastanza uniformato il lavoro del medico di medicina generale, ad oggi ci sono delle linee guida che rispettano tutti. Il lavoro c’è, e come, perché per definizione siamo i medici delle cure primarie, che a maggior ragione durante una pandemia non si fermano. Però sicuramente la pandemia ha dovuto ridimensionare alcune cose, come il contatto con gli assistiti.
Il paziente che sta a casa e ha un dubbio ti contatta, sei il suo medico di fiducia. In alcune realtà sono stati fatti video o note informative che sono state mandate ad ogni assistito. Ovviamente il lavoro è stato completamente stravolto nella situazione attuale, come in tutta la società in questo momento c’è un distanziamento, quindi si seguono i malati avendo un distanziamento fisico con la persona. A studio l’accesso delle persone non è limitato, di più. Si parla moltissimo, già da prima, di telemedicina, questa pandemia è un esperimento enorme anche da questo punto di vista.
Io sono un po’ vecchia maniera e non sono molto favorevole, per me la medicina clinica va fatta di persona, e quindi ho trovato difficoltà per questo. Certo ha snellito il lavoro, ad esempio chi viene per una ricetta che deve avere periodicamente per una cura di una malattia cronica ha iniziato ha riceverla via mail, senza la necessità di passare a studio. Però ovviamente seguire tutte le persone per telefono è molto difficile. Dall’inizio della pandemia è stato comunicato che in caso di febbre o sospetti sintomi non bisogna né andare al pronto soccorso, né dal medico, ma telefonare al tuo medico di base o al pediatra. Quindi è stato fatto questo, io sono ricorso alla visita solo in pochi casi selezionati per minimizzare il contatto. Nel mio caso specifico ho fatto molta consulenza telefonica, però molta gente viene a studio, un po’ perché è testarda, ma soprattutto perché ha bisogno del contatto diretto, e quindi nei limiti e con tutte le accortezze le ho visitate. Ovviamente tutto questo è stato una mia scelta. Sono andato di persona allo Spallanzani a prendere dei flyer informativi, li ho messi sulle porte, insieme alla segretaria dello studio abbiamo messo un nastro a terra con un cartello sul suo computer, così i pazienti lo sapevano, venivano uno alla volta con la mascherina. Ho fatto molta educazione sanitaria, quelli che venivano senza mascherina gli dicevo: “Scusi che sta facendo? Non è un comportamento adatto né per lei né per la collettività girare senza un minimo presidio, soprattutto in uno studio medico”.
Come medico di base non mi è stato fornito nessun DPI, né per me né per gli assistiti, proprio perché sono un libero professionista. Io avevo già a casa 4 FFP3 e una quarantina di mascherine chirurgiche. Fra l’altro sulla questione delle mascherine l’OMS ha creato una grande confusione, dicendo prima che non hanno un’efficacia, e poi dicendo a tutti di usarle. Ora ad esempio si parla di riapertura in Piemonte, con la consegna a tuti di mascherine. E’ un discorso molto delicato. Io avevo i miei presidi a casa, perché sono un medico, e quindi ce li avevo già da prima della pandemia, in casi di evenienza, ovviamente non immaginavo questa situazione. Poi personalmente tramite contatto diretto con due farmacie nei primi giorni dell’emergenza sono riuscito a reperire due mascherine per me, ma dopo poco qui a Roma si sono iniziate a trovare, non è stato come al nord. Il fatto è che sono mascherine molto “rimediate”, io le ho riutilizzate più volte cambiandomi i guanti e proteggendomi come potevo. La USL sa che io ho fatto questa sostituzione, sotto i 2 giorni non si comunicano, ma erano più di 20 e lo abbiamo comunicato. Però se vai lì non ti danno i presidi. Il rischio lavorando qui non era altissimo, anche se dove lavoro c’è stato un caso accertato e 5 casi che ho messo io in quarantena, di contatti diretti con questa persona.
Ti dico anche come funziona questo procedimento: metti in quarantena, mandi una mail al servizio di epidemiologia della USL (SISP), che prende in carico completamente il caso. Quindi tu da medico delle cure primarie lanci la catena, poi se ne occupa il territorio specializzato, però sei tu che valuti il caso come primo operatore. Sul sito della federazione nazionale dell’ordine dei medici c’è l’elenco dei medici morti, e su 160 ad oggi 59 sono sono medici di base , quasi la metà, sono tanti. Questo perchè tu sei il primo filtro, il primo contatto. Ovviamente questi numeri la maggior parte riguardano le prime settimane della pandemia, quando non c’era tutta l’emergenza, il lockdown, ecc. Detto questo è un dato significativo. Quindi io ho preso tutte le misure che potevo, e sui pazienti a rischio li ho indirizzati al SISP della USL e loro li hanno monitorati telefonicamente per vedere se peggioravano, come evolvevano i sintomi, se la quarantena procedeva regolarmente. Ad altri più a rischio sono andati a casa a fare il tampone, per accertare o meno la positività.
Le persone sul tuo territorio riuscivano a fare il tampone quindi?
Questo problema dei tamponi è reale. Il tampone lo decide il SISP, io sono fortunato che lavoro nel territorio di competenza dello Spallanzani. Io come medico delle cure primarie non ho possibilità di richiedere direttamente un tampone per un caso sospetto, quindi non sono stati dati gli strumenti diagnostici. Ad oggi il tampone naso oro faringeo con ricerca di RNA e amplificazione tramite PCR è il gold standard per la diagnosi, è il test che con più affidabilità ci dà la diagnosi di questa patologia. Però vanno dette due cose: la prima è che si stima che abbia un 30% di falsi negativi, quindi se c’è un forte sospetto clinico si dovrebbe ripetere. Detto questo è lo strumento più efficace ad oggi, l’OMS dice di fare i tamponi. Ad esempio a Vo, nella provincia di Padova, dove hanno tamponato tutto il centro, hanno ottenuto dati importanti, cioè che molti non avevano avuto sintomatologie. Seconda cosa i tamponi non ci sono per soddisfare il bisogno totale, non sono un kit diagnostico economico e di facile gestione. Poi ci sono state notizie non simpatiche, quando ho letto che sono partiti dei tamponi da un’azienda di Brescia su un aereo militare per gli Stati uniti della base militare di Aviano. Mezzo milione di tamponi. E’ un’azienda privata che fa come gli pare, però tamponi che partono il 19 Marzo in piena pandemia, su un aereo militare, in un territorio dove ci sono interi focolai ti fa un po’ stranire.
Detto questo ad ora i tamponi non sono di facile accesso e non sappiamo quando lo saranno.
Con la fase 2 sta subentrando la diagnostica con la sierologia, dove si valutano nel sangue gli anticorpi che segnalano la malattia in fase acuta o se sei entrato in contatto col virus. In Emilia Romagna e nel Lazio lo stanno iniziando a fare. Però non sappiamo ancora bene se questi anticorpi proteggono realmente dal contatto successivo col virus, non sappiamo quanto questi anticorpi sono correlati con una positività al tampone. Quindi questa fase sarà ancora tutto un grande business, dove a 35 euro a carico del cittadino molti ospedali privati si sono già attivati, e il test è disponibile senza ricetta medica. Quindi potete immaginare che tutti vanno, poi magari ti trovi positivo, però non ci sono linee guida a riguardo, ti metti in quarantena?
Il test sierologico a mio parere non ci dà un quadro reale ad ora della situazione.
Finché non ci sarà un vaccino comunque tutto il discorso diagnostico ha un ruolo per controllare la malattia, o anche per iniziare a parlare di concetti come quelli della patente immunitaria: chi può andare in spiaggia? Chi può tornare a lavoro?
Il fatto che dei laboratori privati mi fanno il test a 35 euro, ma l’organizzazione mondiale della sanità dice che il test sierologico non è affidabile se non lo correli almeno ad un tampone, è un problema, può creare il panico fra le persone. Quindi gli strumenti diagnostici ad ora non ci sono per tutte e tutti, e non sono soprattutto a facile reperibilità per il medico del territorio.
Ultima cosa sui presidi di protezione: la USL mi ha mandato a studio un kit di protezione per l’intera UCP – Unità di Cure Primarie – a cui il mio studio faceva riferimento. Il kit per 5 medici era costituito da: un camice monouso, un occhialino di protezione, 50 mascherine chirurgiche, un paio di calzari, un pacco di guanti, e una cuffia protettiva. Che se un medico li usa una volta è finito. Io poi faccio parte della (SIMG) Società italiana della medicina generale che si è mossa nel territorio, mi è arrivata ieri una mail che distribuiscono mascherine agli iscritti. Però è una situazione particolare, e non basta per il fabbisogno.
Hai detto più volte che il medico di medicina generale è il medico del territorio, quale dovrebbe essere il rapporto tra medicina e territorio?
E’ proprio questa la cosa più importante: la medicina non può essere solo ospedaliera. Lo stanno dimostrando i numeri, lo stanno dicendo tutti dal politico, all’economista, al medico, all’ordine dei medici: in questa pandemia, con questo virus, si è visto che se tu porti i pazienti in ospedale hai un alto tasso di mortalità. Devi tenere la cura nel territorio, che significa tantissima prevenzione. Il medico di medicina generale ha delle funzioni specifiche, molte delle quali sono di prevenzione, in particolare di educazione.
Questa settimana l’OMS ha dichiarato che in Europa la metà dei morti per Covid sono in casa di cura ed RSA (Residenze sanitarie assistenziali). E questo è un problema che riguarda di nuovo la medicina del territorio. Ci vogliono più unità, maggiore organizzazione delle unità del territorio del medico delle cure primarie, e più investimento. Il dato è solo questo: hai levato più di 37 miliardi di euro negli ultimi 10 anni a fronte delle manovre finanziarie dei vari governi e l’Italia ha speso al 2018 l’8,8% del PIL nel sistema sanitario ma il 6,5% è per quelli pubblici, il restante è per tutti i servizi convenzionati, cliniche private, le RSA. Questo investimento è ben sotto la media europea, insieme a Portogallo, Grecia e Spagna. Però spendiamo 70 milione di euro al giorno per la Nato, e tra i 13 e i 17 miliardi di euro per comprare un centinaio di aerei militari F35. Viviamo in un paese dove nel 2012 c’erano 404 medici ogni 100.000 abitanti, e 553 infermieri, a fronte di 453 di personale delle forze dell’ordine. E’ abbastanza chiaro come venga sempre di più maltrattato il sistema sanitario. Forse adesso qualcuno se ne è reso conto. Io sono un po’ incazzato da medico, perché questa è una crisi sull’emergenza.
Io parlo di numeri perché il primo problema è il definanziamento, ma anche come è strutturato in qualità il sistema. Ma fondamentalmente bisogna assumere le persone. Nei prossimi 5 anni andranno in pensione 14.900 medici di famiglia, e si rischia che 14 milioni di italiani potrebbero rimanere senza medico. E’ un fatto di numeri, devi aumentare le borse e far lavorare le persone.
Devi potenziare le strutture e le persone, 1500 per i medici di base è un numero veramente limite per i pazienti, e dovresti uniformare il compenso per non far fare la corsa, dove chi ha più pazienti guadagna di più perché è ridicolo in termini di prestazioni.Il sistema come è strutturato dovrebbe essere revisionato. Non so se creare un contratto a metà fra pubblico e libero professionista o meno. Ma comunque i medici di base sono realtà territoriali molto lasciate a se stesse, che vanno reintegrate con i servizi territoriali. Non ci può essere solo l’ospedale e il medico di base. Andrebbero implementate delle unità per fare degli ambulatori più strutturati, però devi formare le persone per usare degli strumenti e mettergli delle figure di riferimento. Nel Regno Unito, che non è un buon esempio perché hanno distrutto il sistema sanitario, però negli studi del medico territoriale hanno un dipendente amministrativo e un infermiere.
Nel mio settore ci vorrebbe tanto questo: una cooperazione fra più figure professionali e un alleggerimento di un lavoro burocratico. Il medico di base è molto un lavoro da ufficio, invece che da studio medico.
Nei tuoi studi e nella formazione/esperienza lavorativa si parla di questo tipo di situazioni pandemiche? Venite messi al corrente del dibattito accademico sul salto di specie dei virus e della possibilità dell’arrivo di un virus pandemico?
Io sono un medico del territorio, per come è strutturato il nostro sistema sanitario, noi siamo il primo contatto col malato. E questa pandemia ce lo sta mostrando ma ne parleremo meglio più avanti. E no, noi non siamo stati formati per situazioni di questo genere e non abbiamo percezione all’interno dei percorsi di studi di questo tipo di dibattito che esiste fra gli epidemiologi sui virus.
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