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[Sulla prima linea] Voci dalla corsia, tampone sì tampone no

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Per la terza puntata di [Sulla prima linea] riportiamo le voci raccolte tramite alcune interviste rivolte a diverse persone che lavorano nell’ambito della sanità. L’intento è quello di tracciare fili rossi tra le differenti interviste, cercando di porre l’accento sui temi che stanno emergendo con insistenza dalle testimonianze e che trovano poco riscontro nelle narrazioni ufficiali sulla pandemia in corso. In questa puntata ci proponiamo di mettere in luce la questione dei tamponi a cui viene (o no!) sottoposto il personale medico-sanitario. Un tema su cui si sta dibattendo molto a livello politico, su cui si stilano classifiche delle regioni virtuose o meno, su cui si sciorinano dati, ma che troppo poco è declinato a partire dalle esperienze delle persone e dalle implicazioni conseguenti sotto il profilo sanitario e psicologico. Gran parte delle interviste riportano come l’accesso al tampone permetterebbe di vivere con minore ansia il contesto familiare e la quotidianità dentro e fuori l’ospedale, essendo in capacità di far fronte consapevolmente alla paura di contagiare i pazienti e i propri cari. Gran parte delle interviste sono state raccolte nel territorio del nord-ovest, la maggior parte di queste a personale ospedaliero e, in particolar modo, infermieristico. Questa limitata inchiesta sconta una parzialità territoriale, ciononostante, ci sembra di poter evidenziare delle differenze nella gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni, pubbliche e private: esse rivelano una discontinuità dell’intervento, non solo nelle diverse regioni, ma anche all’interno di uno stesso contesto territoriale, logica che dipende dalla tendenza all’aziendalizzazione assunta dai dirigenti ospedalieri.

 Qui le precedenti puntate:

Intervista dalla terapia intensiva

«Ci sono una serie di limiti e problemi che questo sistema ha sempre avuto»

 

S., infermiere in reparto malattie infettive a Genova, e A., operatore socio sanitario in reparto covid a Torino, riassumono chiaramente i principali limiti nella gestione della somministrazione dei tamponi : tempistiche inadeguate, paura di essere veicolo di contagio nell’attesa del risultato, accesso al test non universale.

«Io per esempio il tampone l’ho fatto il 12 marzo e mi è stato comunicato il risultato il 31, a distanza di venti giorni quasi. Il problema è che io in questi giorni non sapevo se fossi positivo o negativo o asintomatico e comunque sono dovuto andare a lavorare a contatto con altre persone. La questione tamponi è stata gestita un po’ male. Addirittura qua sono arrivati anche referti sbagliati a persone positive poi risultate negative, i tempi di attesa sono lunghissimi e comunque tutt’oggi se non sei sintomatico il tampone non ti viene fatto. Questa per me è una cosa assurda, soprattutto per quanto riguarda il personale sanitario. Secondo me bisognerebbe farli non ti dico a tutti – che so che sarebbe una cosa fantastica e fantascientifica, anche perché le risorse sono limitate – ma penso che almeno al personale sanitario debba essere garantito un tampone e un risultato in tempi brevi. E non come per me in 20 giorni, nei quali io avrei potuto infettare tutti i miei famigliari tra cui mio padre che fino all’altro giorno ha dovuto continuare ad andare a lavorare facendo un lavoro definito essenziale».

“All’interno degli ospedali Cirio ha voluto fare sta cosa dei tamponi una tantum, che è stata una presa per il culo, perchè ad esempio tu mi fai un tampone adesso e sono negativo, ma chi mi dice che il giorno dopo non vengo a contatto e divento positivo ? O lo fai uno ogni 10 giorni o 15 giorni, altrimenti se me ne fai uno se sono esposto 24h per 60 giorni di seguito, non ha alcun senso farlo a gente che è a rischio contagio sempre.. insomma, fare un tampone come è stato fatto una volta ogni tanto è una cosa assolutamente inutile. O si dispone che ai commessi, agli oss, agli operai fai un tampone ogni 10 giorni altrimenti farne uno solo per far vedere che lo fai, beh oggi sono negativo ma domani posso essere positivo e magari asintomatico e contagiare tutti.”

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La rivendicazione è molto semplice: tamponi a tutt* gli/le operatori e operatrici della sanità! Tuttavia, la realtà sembra essere molto differente e i tamponi, che in un primo momento almeno in alcuni ospedali venivano garantiti, ora non vengono fatti se non a chi mostra sintomi evidenti. Rispetto a questo serpeggia una determinata sensazione da parte di alcun* intervistat*, ossia che gli ospedali, non potendosi permettere di perdere personale, preferiscano evitare di scoprire chi è veramente positivo in modo tale da non lasciare scoperti troppi turni, rischiando quindi di minare il funzionamento della struttura stessa.

 «Io penso che [i tamponi] si sarebbero dovuti fare da subito a tutti gli operatori sanitari almeno perché così dividevi i positivi dai negativi, purtroppo la realtà non è stata questa. […] Quella dei tamponi è stata una questione gestita in maniera non corretta e trasparente, perché comunque il dubbio che ho io è che non ce lo fanno finché non siamo sintomatici perché sennò dovrebbero lasciare a casa mezzo ospedale e non se lo possono permettere. Poi questa è la mia idea, non dico che sia sicuramente così. Però è assurdo che se ho lavorato in un reparto chiuso per Covid aspetti a farmi il tampone solo se ho febbre e tosse», dice S.

Anche A., spiega così la ragione sottostante : “Io sono uno di quegli operatori a cui non è stato fatto perchè faccio parte di uno studio privato che vince appalti, insomma uno studio di infermieri associato.. perche non è stato fatto?  è semplice : il ragionamento che sappiamo ma non ci hanno detto è che se sei asintomatico e puoi andare a lavorare è meglio che non te lo faccio il tampone .. perchè se fai il tampone e poi sei positivo devi stare 15 giorni a casa e togli forza lavoro. Infatti, c’è stato il caso che alcuni colleghi del pubblico sono risultati positivi asintomatici e sono stati a casa – giustamente – quindi hai fatto i tuoi turni e quelli degli altri. Nei casi migliori il ragionamento che è stato fatto è stato se hai sintomi te lo facciamo se invece sei asintomatico non te lo facciamo.”

Inoltre N., infermiera in pronto soccorso a Genova, intervistata a proposito aggiunge: «Io sono una persona che cerca di non vedere il marcio anche se c’è una situazione difficile. È stata gestita in due modi: inizialmente a chi era sintomatico o comunque era stato a contatto con dei pazienti Covid senza delle protezioni adeguate gli era stato fatto il tampone, ma si parla di un mese fa e si parla di un quantitativo di persone importante. Tutti quei tamponi sono risultati negativi o sono “mai arrivati”: sono stati persi, erano troppi da analizzare…quindi inizialmente nessuno è risultato positivo. È stata una fortuna o forse è stato un po’ indirizzato, io questo non lo so. Fatto sta che adesso ci hanno invece fatto l’analisi su sangue – che hanno fatto per uno studio sperimentale che era stato fatto e pensato per tutelarci. Lì qualche mio collega è risultato positivo diciamo perché nell’analisi del sangue calcolano due cose: o il fatto che tu sei stato in contatto con il virus e l’hai già fatto e adesso stai bene, oppure il fatto che ce l’hai adesso. Quindi vari miei colleghi sono risultati magari positivi al fatto che sia già stato fatto, che però magari risulta qualcosa anche ora e quindi a questo punto a queste persone è stato fatto il tampone. Io ad esempio che ho sempre usato le protezioni e fortunatamente non ho mai avuto sintomi…a me il tampone non è stato mai fatto, ecco![…] Sono d’accordo anch’io che avrebbero dovuto fare i tamponi a tutti, ma sono anche convinta del fatto che non lo potevano fare perché troppi positivi sarebbe stato, dal punto di vista proprio del reggere l’ospedale, una cosa infattibile. E hanno fatto una scelta di convenienza»

L’ipotesi è inquietante, ma non ci sembra infondata; in particolare modo se a queste testimonianze si aggiungono quelle dei lavoratori delle case di riposo dove, come stanno dimostrando i dati sulla mortalità e come sostiene N., evidenziandone i rapporti tra la gestione di questi istituti e la sanità pubblica, «hanno fatto una mattanza, una mattanza proprio. Adesso la maggior parte della gente che arriva [in ospedale], la buona parte, sono vecchiettini delle case di riposo che se rigirano il virus tra un paziente e l’altro».

L’esempio della comunità di Brandizzo, in provincia di Torino, è importante: solo in seguito alla pressione sul sindaco da parte dei cittadini i tamponi sono giunti nella RSA. Un educatore della comunità racconta così la vicenda “Questa logica qua, dei tamponi all’interno del più ampio sistema sanitario secondo me ce la dice lunga. Nel senso che la comunicazione che noi abbiamo quotidianamente sui numeri del coronavirus rispetto alla percezione del mondo reale è sicuramente disconnesso, secondo me, non c’ connessione. I numeri reali sono molto più elevati dei numeri raccontati. Questo ci da secondo me un’idea di un sistema che, non so se sia una cosa voluta o meno, non posso saperlo, ma sicuramente ha delle responsabilità e all’interno di questa logica di numeri, chiamiamoli un po’ come i sommersi e i salvati, te li ricordi? Ecco, parliamo dei sommersi, i sommersi sono quelli che gridano vendetta, sono quelli che gridano ai limiti di un sistema che non è vero che è uguale per tutti.”

 

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Come viene evidenziato dall’analisi che viene proposta da uno dei medici intervistati, l’esecuzione o meno dei tamponi, sia al personale sanitario sia alla totalità della popolazione, implica incertezza e poca affidabilità rispetto ai dati ufficiali riguardanti il tasso di mortalità e di contagio, compromettendo dunque le valutazioni stesse sull’andandamento del virus e sulla percezione del miglioramento in termini di guarigioni.

“Non si sa se effettivamente se ci sia una diminuzione dovuta al fatto che molti dati vengono pure falsati dal fatto che si eseguono meno tamponi. Se si eseguono meno tamponi effettivamente risultano meno contagi. Ma dal momento che non c’è un parametro a livello europeo o mondiale di esecuzione dei tamponi, ma cambia da regione a regione addirittura, non c’è uniformità nell’eseguire un protocollo su questo aspetto, sono tutti dati falsati un po’ ovunque. Che si dica che in Cina la mortalità è del tot percento mentre in Italia la mortalità media è del 6% e in Lombardia del 10%, questi sono dati falsati, perchè in Lombardia è la regione in cui si eseguono il maggior numero di tamponi. In Cina ne hanno eseguiti tantissimi, in Cina si eseguivano pure su persone asintomatiche, in Italia si eseguono per lo più sui sintomatici. Se tu esegui i tamponi solo su persone sintomatiche è normale che la mortalità ti risulta più alta, perchè tu stai facendo un’analisi su campioni di popolazione contagiata che già sta molto male non sugli asintomatici. Un sacco di persone magari hanno contratto il virus, si sono fatti la convalescenza a casa, non hanno mai avuto un tampone e sono guariti. In Germania probabilmente falsano i dati o fanno campioni a tappeto e da loro risulta una mortalità più bassa, ma non perchè il virus sia meno letale. Più tamponi fai, più si riduce la mortalità. Regione per regione ognuno raccoglie i dati in una maniera diversa e quello è anche un problema che ti complica la possibilità di fare previsioni.”

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La situazione di incertezza ha acuito la preoccupazione nei confronti dei propri cari e l’ansia di essere un possibile vettore di infezione non solo nel contesto lavorativo, ma anche familiare, paura che accomuna la totalità degli intervistat*. «Diciamo che quello è il pensiero che ci accompagna tutti e ci accompagnerà fino alla fine di questa pandemia. […] La rete famigliare crea molta ansia». (N. infermiera in reparto di pronto soccorso).  A fronte della situazione, nella maggior parte dei casi le istituzioni non hanno proposto soluzioni che potessero venire incontro ai disagi degli operatori e delle operatrici medico-sanitari. In pochissime delle strutture, per esempio, è a disposizione un servizio gratuito di supporto psicologico per i dipendenti. Inoltre, praticamente inesistenti sono le proposte di soluzioni abitative alternative per non rischiare di contagiare i propri parenti o coabitanti: «Ripeto, è una situazione stressante. Io già lo sento con i miei genitori, ma immagino tutti quegli operatori che hanno magari figli piccoli, bambini, la nonna in casa.. […] Per questo io dico che i 100 euro vanno bene, ma ci sono altre proposte che sarebbero molto più intelligenti. Per carità, sono soldi e indubbiamente saranno utili per molte persone, però ecco secondo me anche un sostegno più psicologico non sarebbe male» (S. infermiere in malattie infettive).

Anche in questo caso scaricare la responsabilità sulle singole azioni messe in campo da ognuno secondo i propri mezzi e strumenti è all’ordine del giorno. A. parla infatti di “buon senso” dell’operatore nel mettere in pratica le indicazioni previste per limitare il contagio, soprattutto perchè i DPI sono pochi e vige l’indicazione di consumarne il meno possibile. Non c’è quindi possibilità di avere la garanzia sulla propria positività al virus ma l’attenzione ai comportamenti individuali è al primo posto nella strategia di gestione dell’emergenza.

“Poi qua rientra il buon senso dell’operatore sanitario, io non esco di casa, non vado a fare la spesa o se vado metto la mascherina, però io o tutti quelli a cui non è stato fatto il tampone, certo siamo una bomba a orologeria! Allora evitiamo di stare più persone insieme, anche tra colleghi parliamo a 1 metro di distanza, ma sono misure che adotta l’operatore sanitario e il suo buon senso. Ma immagina chi vive con persone anziani, colleghi che vivono con i genitori, persone a rischio, soggetti potenziali.”

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Ci sembra fondamentale, dunque, porre l’accento sulle condizioni di sicurezza in questi luoghi di lavoro, reclamando che vengano fatti i tamponi a tutto il personale sanitario e che i risultati siano forniti in tempi brevi e comunicati in maniera trasparente e rispettosa del lavoro e delle legittime preoccupazioni quotidiane delle persone. E, per concludere, lasciamo spazio alle parole di P., tecnica di radiologia medica in ospedale:

«Per quello che riguarda la definizione di “eroi”, non ho molto da dire. Non sono d’accordo, facciamo solo il nostro dovere e lo abbiamo sempre fatto. In ospedale non abbiamo solo malati Covid-19, abbiamo anche malati con HIV, malati di sifilide, malati di TBC e quant’altro… Invece che chiamarci ora eroi, preferirei ci ricordassimo tutti, quando tutto questo prima o poi finirà, di quanti problemi sono emersi con questa emergenza nella sanità pubblica, di quanti soldi dovrebbero essere investiti nella sanità pubblica, invece che nella privata. A causa della mancanza di fondi e dei tagli fatti negli anni, ci troviamo reparti con personale dimezzato già normalmente. Ora, il personale che non si è ammalato si trova a lavorare in condizioni di estremo stress, con un carico di lavoro due, tre volte superiore, per la mancanza dei già pochi colleghi, che sono rimasti a casa in quarantena. In molti ospedali, come il nostro, hanno trovato la soluzione: non ci viene fatto il tampone, solo le analisi del sangue. A seconda dell’esito, viene fatto il tampone, ma, se il dipendente risulta asintomatico, deve continuare comunque a lavorare, sapendo di essere positivo al coronavirus. Questo perché manca il personale e questa mancanza è nota da anni. Abbiamo forse sbagliato noi a non protestare attivamente, ma in questa situazione si ha una possibilità. Chiediamo solo, per una volta, di non avere la memoria corta. Non siamo eroi, siamo cittadini, come tutti”.

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