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[Sulla prima linea] «Una medicina più medicalizzata e molto meno umana»

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Continuiamo con le interviste [Sulla prima linea] pubblicando questa interessante conversazione con un’infermiera di alcune settimane fa. Particolarmente significativa la risposta sui limiti già presenti nella sanità prima dell’emergenza Covid. Una riflessione a tutto tondo sul ruolo della cura, sulla distanza tra salute e sanità per come è intensa oggi e sul paradigma di “medicina difensiva”. Buona lettura!

Qui le precedenti puntate:

 

Prima puntata: Intervista dalla terapia intensiva

Seconda puntata: «Ci sono una serie di limiti e problemi che questo sistema ha sempre avuto»

Terza puntata: Voci dalla corsia, tampone sì tampone no

Quarta puntata: Cosa vuol dire lavorare in una USCA?

Che lavoro fai, che formazione hai? Fino all’inizio di marzo eseguivo i prelievi di sangue a domicilio per un laboratorio privato (convenzionato). Ho studiato tra il 2008 e il 2012 infermieristica e tra il 2013 e il 2017 ostetricia. Sono due lauree triennali, come le altre professioni sanitarie (fisioterapista, terapista occupazionale, educatore professionale…).  

In che condizioni state lavorando in questo momento? In queste settimane non sto lavorando e non so se continuerò una volta finito il periodo emergenziale. Non ho un contratto con il laboratorio: si suppone (ma non mi hanno chiesto mai nulla) che io abbia la partita iva e svolga quindi questo lavoro come libera professionista; in realtà non è il laboratorio a pagarmi le prestazioni, è direttamente la persona a cui faccio il prelievo che mi paga 10euro. Di fatto lavoro in nero, una cosa abbastanza insolita per queste professioni che al massimo usano il nero per arrotondare. Più prelievi faccio più guadagno. Lavoro con un’altra collega e la media del nostro guadagno è 500euro a testa. Non ho mai voluto aprire una partita iva perché aspetto i concorsi per lavorare nel pubblico (più per convinzione); inoltre avere una partita iva come ostetrica significherebbe versare, a prescindere dal guadagno, una cifra di circa 3000euro alla cassa commercianti (un’anomalia tutta italiana!), averla come infermiera significherebbe pagare i contributi alla cassa previdenziale degli infermieri. Con questo lavoro di prelievi a domicilio finirei per usare il guadagno di più di sei mesi per pagare la partita iva, un’assicurazione, e l’iscrizione a entrambi gli albi professionali.  

 

Appena iniziavano le misure di contenimento del contagio in tutta Italia mi sono posta il problema se il laboratorio avesse i dispositivi di protezione individuale da darmi. Come ormai tutti sanno, gli operatori possono essere dei veri e propri vettori, quindi andare di casa in casa senza dispositivi o comunque inadeguati, non mi sembrava un comportamento giusto nei confronti delle persone a cui faccio i prelievi. Inoltre lavorando in nero, nella remota ipotesi di sviluppare i sintomi del covid, nemmeno sarei stata coperta dall’Inail (visto che di infortunio biologico si tratterebbe).  

Perciò posso solo raccontare a grandi linee come è cambiato il lavoro in queste settimane. Al laboratorio sono aumentate le richieste di prelievi domiciliari perché le ASL hanno iniziato a procrastinare o annullare appuntamenti di esami ritenuti non essenziali (prelievi, elettrocardiogrammi, ecografie)… quella domanda viene in parte assolta dal privato che quindi ci sta guadagnando, anche solo in termini di pubblicità e accaparramento di “clienti”.  

Come è stata gestita l’emergenza? Essendo un laboratorio privato, le misure messe in atto sono state propaganda di presunta affidabilità di igiene e sicurezza più che reale gestione e contenimento del contagio. Prima sono arrivati dei dispenser di amuchina con tanto di sagoma cartonata pubblicitaria, poi dispenser di fazzoletti monouso, a cui si sono aggiunti cartelli informativi diversi ogni giorno (raccomandazioni sul lavaggio delle mani, hashtag #noi ci siamo e ci prendiamo cura di te, rassicurazioni ai “clienti” sul mantenimento inalterato degli orari e delle attività di laboratorio oltre che l’implementazione dei servizi a domicilio), per passare a nuove disposizioni su come effettuare le normali procedure “secondo le indicazioni per la gestione dell’emergenza sanitaria” (più per risparmiare presidi -guanti/telini/disinfettanti- che rafforzare le conoscenze sulla trasmissione del virus), e finire con comunicazioni sull’affidabilità del laboratorio in merito a sistemi di sanificazione ambientale (pubblicità ingannevole a tutti gli effetti).  

Come è stato riorganizzato il tuo lavoro? Fino a prima dell’emergenza, la segreteria prendeva gli appuntamenti dei prelievi domiciliari e a fine giornata inviava a noi l’elenco. Iniziata l’emergenza, quando abbiamo sollevato il problema dei dispositivi di protezione (che comunque mi venivano chiesti dalle persone a cui dovevo fare il prelievo) è stato imposto ai segretari di annotarsi soltanto il numero di telefono per far sì che noi ci occupassimo di un triage telefonico. A noi quindi la responsabilità di annullare o differire un prelievo qualora la persona avesse sintomi indicativi di un’infezione da coronavirus. Sono stati inoltre sospesi tutti quei tamponi la cui procedura di raccolta comporterebbe un rischio, per chi la esegue, di venire a contatto con il virus (tamponi oculari, naso e oro-faringei, esami su espettorato, ecc). Dubito sia stata una scelta di tutela del lavoratore (altrimenti non lavorerei come lavoro/lavoravo), forse più la tendenza del privato a puntare, adesso più che mai, su quelle fette redditizie -le patologie croniche- di un sistema sanitario nazionale che le sta tralasciando perchè deve fare fronte all’emergenza delle terapie intensive e alla creazione di reparti solo covid. In pratica, meglio accaparrarsi un cardiopatico come “cliente” a cui stanno saltando le visite alle ASL o agli ospedali, che un malato covid che farebbe guadagnare giusto il costo del tampone. Di fatto riempiono un vuoto sul territorio, offrendo vicinanza alle persone che hanno bisogno di una risposta sanitaria adesso, pubblica o privata che sia, che esula dall’emergenza in atto.    

Quali sono le condizioni di lavoro che hai individuato come dei limiti già prima dell’emergenza covid e che si ripercuotono nella gestione attuale?  A questa domanda posso rispondere in maniera più teorica che pratica, perlomeno non basata sulla pratica attuale che appunto non sto svolgendo. Nel senso che, personalmente, per le esperienze lavorative pregresse, posso dire che fin dall’inizio dell’università non mi veniva facile collocarmi in un sistema sanitario basato unicamente sull’ospedale. I tirocinii che ho fatto (ho totalizzato oltre 6 anni di tirocinio tra entrambe le lauree, -lavoro non pagato!) sono stati esclusivamente svolti in ambito ospedaliero. Ambito interioriorizzato dalla maggioranza degli operatori sanitari come l’unico possibile. Questo perché siamo immersi in un modo di vedere la salute come qualcosa di cui occuparsi quando questa inizia ad avere problemi, se non più tardi, a problema avanzato. Da qui la delega totale al medico (o comunque il sistema medico-operatori-medicine-diagnostica ecc, in ogni caso “ospedale”), che comporta quindi i due aspetti opposti: fiducia sconfinata ma anche sospetto che non si facciano le cose giuste. Il primo provoca banalmente un senso di onnipotenza (specie nella classe medica, ma anche in tutte le altre visto che il paziente è in fondo alla piramide gerarchica), il secondo provoca la cosiddetta “medicina difensiva”, ossia una serie di atti medici –non sempre appropriati, giustificabili, efficaci- per ridurre la possibilità di denunce da parte dei pazienti. Io credo, e me ne sono convinta soprattutto con il lavoro di ostetrica, che se non c’è un rapporto di conoscenza e fiducia verso l’operatore sanitario e al contempo un processo di “empowerment”-”empoderamiento-(in italiano non esiste!!) della persona, la medicina e tutto il processo di cura, vanno a farsi benedire in termini di migliori risultati auspicabili. Ho faticato a laurearmi in ostetricia perché il periodo di tirocinio in sala parto è stato uno dei più sofferti dal punto di vista umano che abbia mai trascorso. Non si parla molto di “violenza ostetrica”, ma se si capisce questo concetto non è difficile allargarlo all’intero ospedale. Basta pensare che il parto è come l’atto sessuale perché coinvolge tutti quegli ormoni che si liberano in casi di tranquillità, sicurezza, intimità… Partorire in ospedale impedisce quasi a priori queste condizioni: essere assistiti da estranei in luogo estraneo, magari in una condizione di poca fiducia in sé stessi, nel proprio corpo, nelle proprie competenze, quasi sempre porta a esiti meno positivi di chi, a parità di situazione, gli viene data la possibilità di viverla in condizioni migliori (di conoscenza degli operatori, del luogo, di ciò che accadrà). Per tornare al discorso della medicina difensiva, l’ambito ostetrico-ginecologico è quello più esposto a denunce e le assicurazioni dei ginecologici sono quelle più costose. 

Questi che identifico come limiti (una medicina più medicalizzata e molto meno umana, molto meno sincera e trasparente che tende sempre a infantilizzare la persona ma si nasconde dietro i “consensi informati”, una medicina supertecnologica che si dimentica dei problemi di base da cui derivano poi i problemi da affrontare tecnologicamente), credo si ripercuotano nella gestione attuale. Da quel poco che vedo e sento da qualche collega, l’emergenza viene gestita esclusivamente dall’ospedale in termini di assistenza superavanzata e, o la và o la spacca, l’ospedale avrà fatto la sua parte. In generale, non mi riferisco a questi giorni, credo che se le persone fossero abituate a vedere l’ospedale per quello che è concretamente, forse prenderebbero decisioni diverse sulla propria salute. Sembra che si scopra adesso che in ospedale uno dei grandi problemi sono le infezioni nosocomiali, quelle derivate dall’assistenza (dagli operatori, ma che sono frutto dell’organizzazione del lavoro non necessariamente di imperizia o negligenza). Un anno, quando lavoravo in un reparto di medicina e nefrologia (quindi persone con degenze mediamente lunghe) di piu di 40 ricoverati, abbiamo avuto una serie di casi di clostridium, un’infezione che provoca soprattutto diarrea, che va gestita con l’isolamento perché si trasmette per contatto. La persone positive aumentavano di giorno in giorno, ma dove ricercare le cause se non nel fatto che eravamo in due infermiere per 40 persone, senza o quasi dispositivi di protezione, senza chiare indicazioni su come si gestisce una situazione simile al di là delle conoscenze e competenze personali? Oggi siamo davanti a una situazione in cui non aiutano i farmaci e non aiuta la risposta immunitaria del singolo,  ma tutto il resto? Tra gli operatori sanitari chi si è ammalato, i più, sono stati i medici di base e gli operatori al di fuori delle terapie intensive, a riprova che se hai gli strumenti adeguati, procedure chiare che tutti eseguono, e sopratutto personale in gran numero, non ci sarebbero tutti questi effetti collaterali che si stanno verificando e che stanno pagando gli operatori, le persone e i propri cari, in termini emotivi e di salute. 

Cosa pensi della narrazione di medici e infermieri in quanto eroi? [Di che supporti necessitate e cosa vi viene offerto (a livello psicologico, fisico ..) ?]Su cosa penso di questi termini di eroismo, dedizione, vocazione, ho scritto nel testo che si è pubblicato. Derivano da una visione militaresca mista all’eredità religiosa che è all’origine di questi lavori come li conosciamo ora (dal medico condotto al medico di guerra, dalla croce rossa alle infermiere suore). A parte la mia personale difficoltà a vedere il mio ruolo collocato in una gerarchia, con il lavoro dell’ostetrica e l’approfondimento dell’ambito della gravidanza, ho rafforzato l’idea che scrivevo prima: la cura è un processo continuo tra entrambe le parti, la delega (“ti faccio partorire” vs “assisto il tuo parto”) è dannosa. Sarebbe la prevenzione, il lavoro sul terriorio, magari casa per casa, comunità per comunità, in cui gran parte dei miei colleghi sanitari dovrebbe trovare lavoro, e ritenerlo un lavoro utile, entusiasmante, e apprezzabile tanto quanto saper impostare un respiratore, pompe infusioni, strumentare operazioni chirurgiche, soccorrere un incidente stradale a sirene spiegate. La formazione universitaria è una minuscola infarinatura del lavoro, questi lavori si imparano sul campo, e si presuppone che sul campo ci siano persone che come te hanno imparato e vogliono condividere il sapere perchè è solo così che tutti si lavora al meglio. Purtroppo per mia esperienza di tutti quegli anni di tirocinio non è stato così, e io questo lo imputo al fatto che finchè il sistema della medicina è questa roba qua, gerarchica e militare, si riproducono soprusi e angherie, non certo buone pratiche di condivisione per quanto sia evidente che ne gioverebbero tutti.

 

Avete accesso diretto alle informazioni scientifiche e mediche rispetto al covid19 ? pensi che le informazioni in vostro possesso siano adeguate per rispondere all’emergenza? In generale le informazioni che servono per la pratica clinica sono generalmente accessibili, vuoi che sia l’OMS o l’accesso alle banche dati, non credo ci sia proprio un probelma di accessibilità alle informazioni. Ma, per tornare sul paragone con l’ostetricia, la gravidanza e il parto: nonostante ci siano evidenze scientifiche che dicano che meno medicalizzi meglio è (tagli cesarei inappropriati, posizione sdraiata obbligata, anestesia epidurale troppo precoce, latte artificiale e tanto altro), di fatto nella pratica clinica nulla o quasi cambia, anzi, sono sempre ambiti particolari, dovuti alle personali insistenze e caparbietà di operatori, che eventualmente fanno sì che si agisca in maniera più appropriata e giusta per la donna.

Come cambierà la sanità secondo te? Cosa pensi della sanità ora e cosa dovrebbe cambiare secondo te finita l’emergenza? Finita l’emergenza quello che dovremmo domandarci come operatori sanitari è se con gli strumenti e le condizioni che avevamo prima dell’emergenza, abbiamo fatto davvero le cose appopriate… E poi ritornando al discorso di cosa è l’ospedale, mi chiedo: se le terapie intensive lavoravano con sei posti letto (comunque numeri bassi), e ora sono 50, significa che chi sta lavorando adesso in prima linea non è preparato allo stesso modo di quelli che gestivano prima i sei posti letto; significa che i colleghi staranno insegnando ai “nuovi” colleghi, perchè adesso bisogna lavorare tutti e supportarsi, d’altronde fuori si viene chiamati eroi, angeli, tutti hanno i segni della mascherina, ci sono elogi di stato, gli applausi e gli striscioni…. Impareremo da questa solidarietà tra lavoratori indispensabile in questo momento? Forse questa gerarchia, in questo momento e chissà se tornerà a strutturarsi più forte di prima, si sta sgretolando, e in queste crepe andrebbero messe nuove idee, nuovi modi di fare salute, e soprattutto un altro rivolgersi alle persone. Leggevo a inizio marzo, la testimonianza di un collega centralinista del 118, che fu chiamato da una signora che gli chiedeva se secondo lui faceva bene a tenersi la madre con difficoltà respiratorie a casa. Di lì a un’ora la signora richiamava per ringraziarlo di averla ascoltata, perchè la madre era morta lì in casa e lo ringraziava più che altro per non aver insistito a mandare lì un ambulanza che l’avrebbe portata via per non vederla certamente più. Questi drammi che i colleghi, i pazienti e i parenti stanno vivendo, li dovremmo elaborare collettivamente, perchè si arrivi al punto che siano le persone a scegliere liberamente e consapevolmente quale cura vogliono; e che il personale sanitario del territorio e dell’ospedale diventi, non degli eroi o degli angeli, ma i vicini di casa di cui avere fiducia, che non si credono onnipotenti e onniscienti. Credo che a queste condizioni si ridurrebbe molto l’attuale modello di medicina difensiva e spersonalizzata.

 

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