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Supportiamo il diritto al ritorno dei profughi palestinesi

Il diritto al ritorno è un obiettivo centrale della lotta di liberazione palestinese.

Dal 1947-1948, quando oltre 750.000 palestinesi sono stati espulsi con la forza dalle loro case – e più di 700.000 hanno subito la pulizia etnica dal loro paese tutto – essi e i loro discendenti si sono organizzati per chiedere la rettifica di questa ingiustizia storica.   I profughi della guerra dei Sei Giorni nel 1967 (dopo la quale le forze israeliane hanno espulso 300.000 palestinesi dalla Striscia di Gaza e Cisgiordania), l’amministrazione israeliana dei territori occupati nel 1967-1994 (durante la quale Israele ha negato a 140.000 palestinesi i propri diritti di residenza), la colonizzazione della Palestina in corso e la deportazione dei suoi abitanti originari, hanno aggiunto le loro ragioni al crescente movimento per il diritto al ritorno.   Negli ultimi anni, il diritto al ritorno è emerso anche come richiesta chiave degli attivisti nei movimenti di solidarietà alle aspirazioni di libertà dei palestinesi. Il 9 luglio 2005, per esempio, l’appello della società civile palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS)- il documento fondante di un movimento globale guidato dai palestinesi per la giustizia in Palestina – ha affermato che “le misure punitive nonviolente devono essere mantenute fino a quando Israele rispetterà l’obbligo di riconoscere il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione e si conformerà pienamente a quanto sancito dal diritto internazionale … rispettando, proteggendo e promuovendo i diritti dei profughi palestinesi a tornare alle loro case e proprietà”.   Oggi i sette milioni di rifugiati palestinesi rappresentano il più grande gruppo di rifugiati al mondo, un terzo della popolazione totale dei rifugiati. Il loro diritto di tornare alle proprie case, e di ricevere un indennizzo per i danni causati a queste, sono sanciti dal diritto internazionale. La risoluzione 194, che l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato in data 11 dicembre 1948 e che Israele ha accondisceso ad attuare, come condizione della sua successiva l’ammissione alle Nazioni Unite,   sancisce che i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo al più presto possibile, e che deve essere pagato un risarcimento per le proprietà di coloro che scelgono di non tornare e per la perdita o il danneggiamento delle proprietà che, secondo i principi del diritto internazionale o in equità, dovrà essere versato dai governi o dalle autorità responsabili.   Inoltre, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani , adottata dall’Assemblea Generale il 10 dicembre 1948, afferma che “ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.”  risoluzione 3236, che l’Assemblea Generale ha adottato il 22 novembre 1974, “…ribadisce il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare nelle case e proprietà da cui sono stati sfollati e sradicati, e chiede il loro ritorno”.   Nonostante i suoi chiari obblighi secondo il diritto internazionale, Israele continua a opporre resistenza alle richieste da parte dei rifugiati palestinesi che hanno il diritto di tornare alle loro case. Più recentemente, domenica 15 maggio, durante la 63° commemorazione della Nakba, o “catastrofe”, della pulizia etnica della Palestina 1947-1948, le truppe israeliane hanno risposto alle manifestazioni da parte dei rifugiati inermi in marcia verso le loro case con una forza letale.   Le forze israeliane hanno ucciso almeno 15 manifestanti su tre confini (con Gaza occupata, Libano e Siria e tra le alture del Golan occupate), ferito centinaia di persone con armi da fuoco, proiettili di artiglieria e gas lacrimogeni, e scatenato una ondata di arresti e repressione nella Cisgiordania occupata. Questa massiccia violenza potrebbe essere stata progettata come una dimostrazione di forza bruta, finalizzata, assieme alle affermazioni di Benjamin Netanyahu che ripete  “non sta per succedere”,  per dissuadere i profughi palestinesi dal far valere i propri diritti storici e sfiancare il consenso mondiale per il diritto al ritorno.   Ma la storia che più a lungo resterà impressa nelle nostre menti dal 15 maggio potrebbe essere quello diHassan Hijazi. Profugo siriano di 28 anni, ha sfidato la sparatoria che ha ucciso altri quattro lungo il confine con la alture del Golan occupato, ha fatto l’autostop e, infine, ha preso un autobus, fino a casa della sua famiglia a Jaffa.Prima di andare lui stesso dalla polizia di Tel Aviv, ha detto ai giornalisti israeliani, “non ho avuto paura e non ho paura. Sul bus a Jaffa, mi sedetti accanto a soldati israeliani. Mi resi conto che avevano più paura di me. ” ( http://youtu.be/GgEuoJRqXs8 )   Altri milioni di persone hanno deciso di seguire il percorso di Hijazi. Domenica 5 giugno, durante la commemorazione del 44 ° Naksa, o battuta d’arresto, l’espulsione israeliana nel 1967 di 300.000 palestinesi dopo la Guerra dei Sei Giorni, i rifugiati palestinesi torneranno in massa alle frontiere. Il 18 maggio, annunciando la mobilitazione, la “Third Intifada Youth Coalition” ha detto, “Gli ultimi giorni hanno dimostrato che la liberazione della Palestina è possibile e concretamente ottenibile anche con una massiccia marcia disarmata se la nazione decide che è pronta a pagare tutto in una volta per la liberazione della Palestina”.   La Commissione preparatoria per il diritto al ritorno, un organismo di coordinamento non schierato con nessun partito, ha chiesto ai sostenitori della lotta di liberazione palestinese di attivarsi per il 5 giugno, organizzando manifestazioni, marce e proteste in tutto il mondo esigendo il diritto dei rifugiati per i palestinesi a ritornare alle loro case. Luoghi adatti potrebbero includere le ambasciate, i consolati, e le missioni israeliane, gli obiettivi della campagna BDS, governi stranieri e organizzazioni internazionali che avallano i crimini israeliani.   Afferma una dichiarazione da parte della Commissione :   “Le manifestazioni del 15 maggio non sono state un caso isolato, ma sono state piuttosto l’inizio di una nuova fase di lotta per la storia della causa palestinese, dal titolo: ‘il diritto dei profughi a tornare alle loro case ‘”…   Per la prima volta, i palestinesi sono passati dal commemorare la loro deportazione con le dichiarazioni, festival e discorsi, a tentativi reali di tornare alle loro case. L’immagine di profughi in marcia da tutte le direzioni verso la loro terra di Palestina ha inviato un forte messaggio al mondo intero: i rifugiati sono decisi a tornare alle loro case nonostante il tempo che ci vorrà: 63 anni non sono stati sufficienti a uccidere il loro sogno di tornare, e le nuove generazioni nate in esilio forzato che non hanno mai visto la loro terra d’origine non sono meno collegate ad esse dei loro nonni e padri che hanno assistito alla Nakba. Quello che è successo il 15 maggio era solo un piccolo esempio di quello che accadrà presto, una marcia che sarà portata avanti dai profughi palestinesi e da coloro che li sostengono. Passeranno il filo spinato e torneranno ai loro villaggi e le città occupate. La folla si radunerà da ogni dove: ci saranno rifugiati palestinesi dalla Cisgiordania, dalla Striscia di Gaza e dai confini della Palestina occupata con Giordania, Siria e Libano, in marce pacifiche alzando la bandiera palestinese e il nome dei loro villaggi e le città, le chiavi delle loro case, e i documenti di certificazione.   I “venti di cambiamento” della primavera araba soffiano tra i campi profughi, non meno che nelle capitali arabe, verso la Palestina. E non mostrano segni di volersi fermare.

International Solidarity Movement

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