Termini chiude ma con le macchine dentro
Dopo la dismissione dello stabilimento, operata facendo ricorso ad ogni bassezza (ad esempio rimangiandosi accordi e promesse o falsificando dati e statistiche), anche nella “riconversione” del distretto industriale FIAT si inserisce in questo solco col rifiuto della società torinese di provvedere ai 17 milioni necessari per la mobilità di oltre seicento lavoratori.
La risposta operaia a questa nuova soverchieria, che arriva beffarda nell’ultimo giorno di vita dello stabilimento, è il blocco alla consegna delle vetture in magazzino. Pur nella sconfortante assenza di iniziativa che caratterizza l’operato sindacale di questi giorni, da parte operaia è giunto un segnale chiaro e preciso. Senza un minimo di garanzie per tutti, le oltre cinquecento Y ferme a Termini non si muoveranno.
Il picchetto ad oltranza lanciato questa mattina, a bloccare le ultime lancia prodotte, è la risposta ad uno solo dei tanti problemi che comunque affliggono Termini. Le soluzioni messe in atto per riconvertire lo stabilimento sono infatti assai poco credibili ed è poco meno di una certezza la convinzione che i mille e trecento futuri operai Dr siano destinati, anch’essi, in poco tempo, alla disoccupazione. Inoltre, se è incerto il futuro degli ex-operai del gruppo FIAT, quello dei lavoratori dell’indotto appare disperato, mancando quasi del tutto la possibilità che le varie piccole attività che lo compongono trovino un posto nella nuova, e del tutto aleatoria, filiera produttiva.
Questa chiusura, che oggi viene, falsamente, giustificata anche come risposta dolorosa ma necessaria alla crisi, avviene, è bene ricordarlo, per precise scelte di management, che assai poco hanno a che fare con le ragioni della produzione e molto con la predazione dei territori. Ridotta la possibilità di accedere a sovvenzioni e regalie sul territorio siciliano si chiude Termini e si riapre altrove, non che politiche ‘serie’ di gestione industriale non comportino esiti simili, quando non peggiori, ma la retorica che FIAT va costruendo, anche altrove, per giustificare il suo operare qui, a Termini, si confuta da se.
Il tutto nell’immobilismo di maniera del nuovo governo che ben si guarda da un qualsiasi intervento sulla questione che non sia l’ipocrisia delle rituali manifestazioni di rammarico per la chiusura della fabbrica. Un rammarico mosso poi più dal dispiacere per la perdita di capacità produttive che dal disastro sociale che questa chiusura significherà per una grossa parte della Sicilia occidentale.
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