Torino: la restaurazione passa per il voto per censo
Eccoli in foto i campioni di quel Sistema Torino che l’Appendino aveva promesso di cancellare, salvo poi diventarne parte.
Il day after dei ballottaggi è tutto un florilegio di pacche sulle spalle e complimenti a Lo Russo, neosindaco del PD e scolaro disciplinato della dinastia Chiamparino – Fassino. C’è chi arriva a definirlo un outsider, lui che da ex Margherita è già stato Assessore all’Urbanistica e consigliere comunale, nonché tra i più feroci fautori della privatizzazione della GTT.
Le elezioni di quest’anno sono state tra le meno partecipate della storia di Torino. Una sfida quasi ottocentesca tra due rappresentanti di correnti differenti della borghesia piemontese che si misurano per assicurare il potere alla propria cordata affaristica. Si stenta ad intravedere le differenze tra i due candidati, e obtorto collo il voto diventa un’esercizio ad uso quasi esclusivo degli abitanti della Torino bene. Un ritorno al voto di censo, in cui in base al proprio reddito si poteva esercitare il diritto di voto. Dalle periferie, alle sacche di povertà più vicine al centro cittadino si preferisce rimanere a casa in assenza di qualunque rappresentanza in grado di raccogliere almeno parzialmente le istanze di questa parte di popolazione. Non c’è nessuna “Torino bellissima” all’orizzonte per i settori popolari.
La restaurazione è un teatrino ad uso e consumo del giornale unico Corriere – Stampa – Repubblica, che stancamente ripete il mantra sulla fine dell’anomalia populista nella città della Mole. Fine, poco dignitosa, di cui tutti i torinesi si erano accorti già da anni, non tanto perché il sogno di cambiamento si fosse trasformato in un incubo, quanto perché nessun cambiamento è realmente avvenuto. I giornali di sistema dunque chiariscono come stanno le cose, a loro dire, a Torino “o ti mangi sta minestra, o ti butti dalla finestra”.
Il neosindaco Lo Russo è stato votato di fatto dal 25,5% degli aventi diritto al voto, un torinese su quattro.
Intanto la città continua a morire lentamente, e la parentesi appendiniana, per quanto infelice, si può ascrivere al limite tra i sintomi di una più generale decadenza.
Il ceto politico della città è ridicolo: nel centrodestra tra macchiette SI TAV e postfascisti presuntamente ripuliti per trovare un candidato che non sembri uscito da un film di Vanzina tocca andare nelle Langhe. Nel centro sinistra invece le primarie meno votate e più pilotate da quando esiste il PD consegnano la vittoria al figlioccio politico del Chiampa, che rischia persino di essere battuto da un civico, ma per sua fortuna l’apparatick era tutto ben schierato a suo favore.
Eppure nei palazzi si applaude, perché di fatto dell’esercizio democratico non frega niente a nessuno, si tratta solo di salvare le apparenze, per poter dire la prossima volta che una contestazione arriverà in Piazza Palazzo di Città che il popolo ha scelto e quindi il pasto è servito, non importa cosa ci sia nel piatto.
Torino intanto invecchia, si spopola e diventa sempre più una città spaccata in due, da un lato chi produce la ricchezza, dall’altro chi ne gode i benefici. Il modello olimpico, del turismo, della città universitaria impatta con la pandemia come un’unica bolla finanziaria in bilico, sull’orlo del fallimento, dei cui frutti positivi godono in pochissimi, mentre le avversità le stiamo pagando tutti.
Ecco che le origini della decadenza sono sempre lì, e come nella tradizione delle monarchie assolute, tornano a imporre il loro modo di vedere le cose in un mondo che è cambiato radicalmente e che non tornerà indietro.
I cantori della grande vittoria di Lo Russo, in una città che è sfinita, sono d’altronde come la Corte di Versailles chiusa tra le meraviglie del palazzo. Il popolo per adesso si disinteressa e rumoreggia, poi chi sa…
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