A Gaza si comincia a parlare di suicidi, nonostante il darsi la morte sia culturalmente considerato riprovevole
Queste morti indicano la perdita di ogni speranza, riferisce Robert Fisk. E Hamas, tanto profondamente religioso quanto profondamente corrotto, non ha reagito con compassione, ma con grande ostilità.
Fonte: English Version
Robert Fisk – 24 luglio 2020
Immagine di copertina: Ci sono stati 4 suicidi in una settimana a Gaza (Paddy Dowling / EAA)
C’era un tempo in Medio Oriente in cui quando un uomo o una donna sceglievano di diventare un/a kamikaze suicida, ottenevano immediatamente la qualifica di “martiri” agli occhi della propria gente. È ancora così, se si guardano le fotografie dei necrologi sui muri delle strade della città, in particolare nei campi profughi. Al contrario, chiunque si fosse tolto la vita per disperazione o per depressione, era condannato.
Il fuoco dell’inferno lo attendeva, o almeno così si doveva credere. L’Islam proibisce il suicidio nel Corano (4: 29): “E non uccidetevi …” dice. Ma forse, il giudizio dei musulmani nei confronti di coloro che muoiono suicidi perché hanno perso il proprio senso di resilienza – una qualità molto ammirata dai palestinesi – dovrà cambiare.
Ci sono stati quattro morti per suicidio in una settimana a Gaza e 12 dall’inizio dell’anno. Questo costituisce uno shock nella più grande concentrazione di rifugiati del mondo, in cui la volontà di vivere, e di morire per mano propria solo per la causa della “liberazione”, ha uno status ideologico oltre che religioso.
Siti di notizie locali riportano che 10 palestinesi si sono uccisi nella Striscia di Gaza nel 2015, 16 l’anno successivo, 23 nel 2017, 20 nel 2018 e 22 l’anno scorso. Il vero trauma, tuttavia, è che coloro che hanno tentato il suicidio nello stesso periodo sono 543, 610, 543, 484 e 111.
In Gran Bretagna, aggiriamo l’elemento morale della morte per suicidio registrando che tali atti si verificano “mentre l’equilibrio della sua mente era disturbato”. Personalmente, anch’io ho sempre preferito questa conclusione, sebbene i coroner britannici non siano più obbligati a usare quella formula specifica. L’idea che l’equilibrio mentale di un essere umano possa essere travolto, con risultati devastanti, è perfettamente accettabile.
Certo, ci sono quelli che potrebbero affermare che persino un kamikaze suicida soffre di uno squilibrio mentale, ma ciò eliminerebbe la questione dell’immoralità – l’atto stesso dell’omicidio – di cui il killer è colpevole.
Tornando al Medio Oriente, la tosta Amira Hass, l’unica giornalista israeliana che vive in Cisgiordania, si è focalizzata sui tassi di suicidio a Gaza. Come sottolinea questa settimana, i palestinesi hanno prestato particolare attenzione al suicidio del 23enne Suleiman al-Ajouri, morto il 3 di questo mese, poiché era uno degli attivisti che più di un anno fa aveva creato il movimento “We Want To Live”.
“We Want To Live” era un movimento di protesta contro l’economia in bancarotta e la disoccupazione (oltre il 45%, il 69% tra i giovani) che è stato crudelmente soppresso da Hamas. Come osserva Hass, “ogni movimento di protesta che cerca il cambiamento sociale porta un messaggio di speranza e di potenziamento”. La morte di Ajouri porta quindi il messaggio opposto: perdita di ogni speranza e totale impotenza. Hamas, tanto profondamente religioso quanto profondamente corrotto, non ha reagito con compassione, ma con grande ostilità.
Il giorno del suo funerale, secondo il Centro per i Diritti Umani Al Mezan, un gruppo molto rispettato con sede in Cisgiordania , Hamas ha arrestato nove persone, tre delle quali in lutto, due delle quali giornalisti che avevano denunciato il suicidio e quattro altri, a casa della famiglia Ajouri.
Come i coroner occidentali Hamas, ovviamente per ragioni politiche, preferisce considerare il suicidio come un problema di salute mentale piuttosto che un problema politico. Ma tutti a Gaza sono a conoscenza della morte di Ajouri, così come sono ben consapevoli del suicidio di un altro giovane, Ayman al-Ghoul, avvenuta anch’essa il 3 luglio. E della morte dell’impiegato dell’agenzia per i rifugiati UNRWA, che è morto lo stesso giorno una settimana dopo aver tentato di porre fine alla sua vita. E della donna di Rafah morta per suicidio ugualmente lo stesso giorno.
È facile incolpare per queste morti il blocco israelo-egiziano a Gaza, iniziato nel 2007 dopo che Hamas ottenne il governo della Striscia con una battaglia campale seguita a sua volta da elezioni che Hamas vinse in modo inopportuno. Ma Hamas ha avuto 13 anni per migliorare la vita dei quasi due milioni di palestinesi che vivono a Gaza, questa vasta prigione isolata dal mondo.
Se questi giovani hanno perso il gusto per la vita, che dire della famosa resilienza del popolo palestinese? Come ha dichiarato questo mese un direttore del ministero della salute palestinese, Samah Jabr, la morte è diventata così naturale agli occhi di molti a Gaza che ora vale più della vita stessa.
La banalizzazione della morte, ovviamente, accompagna tutte le guerre, e Gaza non è diversa in questo. Secondo Human Rights Watch, 189 manifestanti palestinesi, tra cui 31 bambini e tre operatori sanitari, sono stati uccisi dal fuoco vivo israeliano tra la fine di marzo e la metà di novembre dello scorso anno e altri 37 palestinesi sono morti sotto l’artiglieria israeliana o attacchi aerei nello stesso periodo. Alla fine del 2019, le cifre delle vittime dei cecchini israeliani hanno raggiunto i 214 morti, tra cui 46 bambini. (Tre israeliani sono stati uccisi dal lancio di un razzo palestinese da Gaza nel 2019). Una donna palestinese di 34 anni di Rafah è morta la settimana scorsa per le ferite sofferte durante il bombardamento israeliano di Gaza nel 2014.
Anche la macchina della morte della magistratura di Hamas continua a macinare; questo mese un tribunale ha condannato a morte due fratelli palestinesi per omicidio: la sesta volta in cui la pena di morte è stata applicata a Gaza quest’anno. Hass registra anche l’uccisione di una giovane donna palestinese da parte di suo padre, perché voleva visitare sua madre divorziata.
E dopo la morte di Ajouri, un sopravvissuto al massacro dei campi di Sabra e Chatila a Beirut nel 1982 – sì, quasi 40 anni fa – ha dichiarato sui social media che anche lui aveva considerato il suicidio; aveva perso tutti i suoi risparmi. Nel frattempo ad Haitham Arafat, adottato da Yassir Arafat e portato a Gaza nel 1994, è stato impedito di commettere suicidio.
Mentre la morte per suicidio è ancora considerata una vergogna nella società musulmana palestinese, l’apparente volontà di giovani uomini e donne di porsi come obiettivi durante le manifestazioni della “Marcia del Ritorno” suggerisce che la disperazione, il risentimento e l’ingiustizia, e la necessità di opporsi fisicamente al una forma di oppressione esercitata su Gaza per così tanti anni , avrebbe potuto essere un’altra forma di suicidio, sottoposta a meno tabù.
No, i palestinesi non sono soli nella loro onta. I libanesi hanno registrato molte morti per suicidio durante il crollo economico del loro Paese. E un giovane tunisino nel 2011 non si è forse dato fuoco, dando inizio a una rivoluzione? Mohamed Bouazizi non è stato il primo tunisino a scegliere una tale strada, ma questi sono stati i primi suicidi politici che non hanno mai tentato di uccidere nessun altro: attentatori suicidi senza bomba, ma in grado di rovesciare un tiranno .
Forse, a Gaza, troveranno una nuova definizione per quegli uomini e quelle donne, e le donne potrebbero rappresentare più della metà delle morti per suicidio ivi registrate, la cui battaglia contro la propria forzata indignazione e la fame è stata abbandonata per un semplice perdita di speranza.
Una morte così violenta e prematura al di fuori di una lotta nazionale, merita sicuramente una definizione.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org
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