Abraham Accords: scompiglio attraverso “normalizzazione”
Il Medio Oriente è da decenni in subbuglio, è quasi in costante disequilibrio da sempre, rappresentando così una sorta di congelata stasi.
Così quando avvengono improvvise accelerazioni portano con sé conseguenze a catena. Gli accordi perseguiti dall’amministrazione Trump allettando con promesse di scambi di commerci e vendite di armi (la consegna degli F35 agli Emirati è già stata notificata al Congresso), o velate minacce nei confronti di quelle economie più a rischio, o – come nel caso del Sudan – eliminando sanzioni e depennando da liste di proscrizione. Come ricorda Chiara Cruciati in questo intervento, l’Iran lo ha definito “estorsione” da parte degli Usa che si sono anche fatti consegnare dal Sudan 335 milioni per le vittime del terrorismo.
Il caso sudanese è la preda di maggior impatto sull’immaginario globale, perché è stata negli ultimi decenni tra le nazioni più fieramente avverse allo strapotere dello stato d’Israele nella regione; la condizione economica e il processo in corso di superamento dell’era al-Bashir rendevano la succulenta preda particolarmente esposta alle lusinghe israeliane, così è andata a unirsi agli Emirati e al Barhein, in un momento di particolare esposizione economica dovuta anche al prezzo del petrolio ai minimi storici, che avevano semplicemente sancito ufficialmente uno stato di fatto che da lungo tempo li vede partner commerciali dell’“entità sionista”, come in altre epoche sarebbe stato definito lo stato d’Israele, che non si è lasciato sfuggire l’opportunità offerta dalla contingenza attuale, fatta di una presidenza americana particolarmente vicina al governo di Tel Aviv e di debolezza del fronte arabo, mai stato realmente compatto sulla questione palestinese.
Al di là delle foto celebrative di Trump e Nethanyahu con le prede, si tratta del coronamento in parte di un antico progetto sionista, come ha ricordato un vecchio reporter come Eric Salerno, che proprio in Sudan aveva assistito ai tentativi del Mossad di fare acquisti tra gli stati arabi. E anche ora a condurre l’“operazione” è il capo dell’intelligence, Yossi Cohen. E proprio a quell’epoca dei primi anni Settanta (e ancora prima) risalgono i legami con il popolo palestinese, perciò i sudanesi non hanno digerito l’estensione degli Abraham Accords al loro paese e sono scesi furiosamente in piazza, accusando di tradimento il governo di transizione. E anche le avance fatte al Libano (con una forma di sciacallaggio simile all’immediato intervento di Macron sul suolo libanese all’indomani dell’esplosione del 4 agosto) sono state rintuzzate, proclamando che gli incontri per un riconoscimento delle Zee marine sono esclusivamente a livello di accordo commerciale e non costituiscono presa d’atto della esistenza di Israele.
Sicuramente per Bibi come per The Donald è una vittoria a livello internazionale, perché isola ulteriormente la causa palestinese e causa qualche grattacapo all’Iran, ma a livello interno le reazioni sono tiepide in entrambi i paesi, che hanno ben altre problematiche da affrontare.
Chiara Cruciati ha focalizzato per noi gli eventi legati agli Abraham Accords, preconizzando scenari bellici a fronte di quelli di nuova era di pace sbandierata dai vertici militari israeliani:
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