Conversazioni a Betlemme: sinistra palestinese e nuovo conflitto
Aleen, studentessa alla facoltà di Economia e marketing all’Università, ci accompagna nel campus dove le ragazze esibiscono gli Hijab – i “veli” – in una sorprendente moltitudine di colori e outfit: che arrivano fino al design leopardato. Città tendenzialmente laica, con una sinistra forte e un’importante presenza cristiana, Betlemme è lontana tanto dal rigore musulmano di Nablus quanto dalla pervasività istituzionale (e internazionale) di Ramallah. Aleen mostra le lapidi in ricordo degli studenti uccisi da Israele durante la seconda Intifadah, poi ci indica le colonie sulle alture di fronte all’Università, costruite secondo un’architettura seriale che, anche esteticamente, segnala la separazione dalla Cisgiordania di sempre da quella di chi la vorrebbe completamente, in futuro neanche tanto lontano, interamente diversa.
La doppia cittadinanza di questa ragazza, giordana e palestinese, è chiave d’ingresso nella sua storia personale. La nazione in cui si riconosce è palestinese, ma il suo popolo è quello aramaico, antichissima comunità risalente all’epoca pre-alessandrina che ha continuato a custodire la sua lingua, la sua identità e il suo rito cristiano siriaco fino ai giorni nostri. La famiglia di Aleen è originaria della Turchia orientale, dove subì il genocidio che l’ultimo sultano e i giovani turchi perpetrarono contro aramei e armeni. Per questo il nonno di Aleen riparò con il suo nucleo in Giordania, quindi nella Palestina occupata dall’esercito di quel paese nel 1948, per poi finire sotto occupazione israeliana dal 1967. Lei è violinista e, quando Rogers Waters dei Pink Floyd (uno che di muri se ne intende) ha dichiarato la sua adesione al boicottaggio di Israele, ha avuto l’opportunità di esibirsi con lui durante un tour orchestrale negli Stati Uniti.
“Ho avuto difficoltà a comunicare la mia identità agli statunitensi. Non capivano come potessi essere palestinese e cristiana, figuriamoci aramea. Ho dovuto litigare quando i più ignoranti sono arrivati a ipotizzare che Betlemme stessa fosse in Israele…”. Come tutto il medio oriente, la Palestina presenta un mosaico di vissuti, eredità e identità che ha ben poco da invidiare all’Europa. Soltanto una piccola parte dei conflitti umani presenti in quest’area sono noti oltre questa sponda del mediterraneo. “Avresti detto che esiste una tensione decennale, dopo il genocidio, tra aramei e armeni? Quando vado a Gerusalemme nella città vecchia, nel quartiere armeno, mi scontro spesso verbalmente con loro. Sono cose che chi non ha queste radici storiche difficilmente può capire…”.
Ben più importante per Aleen, naturalmente, sono i soprusi dell’occupazione. “Abito nella zona della Natività, e durante la Seconda Intifadah l’esercito ci sbattè fuori di casa e trasformò il nostro palazzo in una caserma. Devo patire le angherie dei soldati ad ogni checkpoint, ed anche ai blocchi stradali improvvisati quando mi sposto con le mie amiche per la Cigiordania”. Si incupisce sempre più: “Posso dirti una cosa: tra i soldati israeliani ci sono anche degli arabi, e sono i peggiori. Quando ci umiliano ai check point, non smetto di fissarli negli occhi, e non capisco come possano non vergognarsi di quello che fanno”. La politica, il servilismo e il potere abbattono, a loro modo, le identità, ma la resistenza le unisce: si dichiara entusiasta del fatto che, nel reportage di Infoaut e Radio Onda d’Urto, sono previste anche interviste ai combattenti siriaci-aramei di Hasake in Rojava, che si battono assieme ai curdi (che pure ebbero una responsabilità nel massacro che impose la fuga alla sua famiglia) nelle Forze Democratiche Siriane contro lo stato islamico.
Il prof. Walid Atallah, direttore del dipartimento di Scienze Umane, ci offre la sua visione dell’attuale rivolta: “I palestinesi stanno resistendo contro l’occupazione anche per produrre un nuovo clima politico, che può riassumersi in una domanda indirizzata all’Anp: cosa abbiamo ottenuto dopo venticinque anni di negoziati?”. La sinistra palestinese, ci spiega, è attivamente all’interno di questo processo, e ciononostante versa in una crisi storica. Forte nella società e all’interno dell’Olp negli anni Sessanta e Settanta, dagli anni Novanta ha subito il contraccolpo della caduta dell’Urss, tanto sotto il profilo del supporto internazionale (esiziale per i palestinesi) quanto sotto quello della credibilità generale della sua proposta politica. “E’ qualcosa che è avvenuto anche in Egitto, Giordania, Iraq, Siria e, a ben vedere, in tutto il mondo”.
Gli islamisti escono favoriti da questo processo? “I fratelli musulmani, principale movimento islamico palestinese, hanno adottato una strategia passiva fino al 1987: ritenevano che prima occorresse re-islamizzare la società dopo il crollo del sultanato (1918), poi passare alla lotta contro Israele”. Quando hanno visto che tale tattica non aveva che aumentato la popolarità delle fazioni nazionaliste e comuniste, attive contro il sionismo, ha creato il proprio movimento politico, Hamas. La crisi del comunismo e del nazionalismo arabo li ha favoriti, ma oggi l’Islam politicamente organizzato sconta la sua sconfitta in altri paesi arabi, come l’Egitto e la Tunisia e, come la sinistra, le divisioni interne al movimento palestinese. Una formazione come lo stato islamico, d’altra parte, appare ai palestinesi come un burattino degli americani, e per questo non è amata”. Come ci era stato detto anche da altri analisti, tuttavia, il loro futuro successo dipenderà dall’azione che eventualmente intraprenderanno contro Israele. “In ogni caso è vero che c’è un maggiore interesse degli studenti per le questioni religiose, ciò che interpreto anche come una mia e una nostra sconfitta. È un argomento di cui mi infastidisce persino parlare”.
Per Yasser, compagno di Beit Sahour, sobborgo alla periferia della città, tutto nella lotta palestinese è sforzo soggettivo: “Non abbiamo le armi, a volte non abbiamo neanche la partecipazione popolare. Tutto sta nella capacità dei militanti, o di chi sceglie il martirio, di rilanciare ogni volta il grido della rivolta in una situazione sfavorevole, e produrre sempre nuove dinamiche di resistenza”. Il conflitto in Palestina è squisitamente economico, ci piega: Israele non vuole uno stato palestinese perché i tre milioni di abitanti della Cisgiordania sono la sua forza lavoro, vuole le loro braccia per la propria borghesia. “Nel 1999, 100.000 palestinesi lavoravano nell’edilizia israeliana; poi c’è stata l’Intifadah ed è stato loro negato l’ingresso in Israele, allora nello stato ebraico hanno cominciato ad arrivare migliaia di manovali stagionali romeni, bulgari, tailandesi. Queste persone, però, spendevano i soldi in patria o li inviavano alle famiglie. Israele preferisce la manodopera palestinese perché, oltre che essere sottopagata, diviene anche esercito consumatori dei suoi prodotti, che un’economia palestinese sottomessa è costretta a importare dallo stato ebraico”.
Il colonialismo capitalista non ha, tuttavia, soltanto il volto sionista: “Tutti questi soldi che arrivano all’Anp dall’Onu, dagli Usa, dall’Unione Europea; tutte queste migliaia di Ong che lavorano sul campo con fondi internazionali servono ad addomesticare la resistenza palestinese, a cambiare la nostra prospettiva, a renderci più docili e dipendenti dall’esterno”. Concorda con lui Nassar, storico militante mediorientale e compagno attivo nell’Alternative Information Center: “Sono compradores che usano parole come ‘sviluppo’, ‘diritti’, ‘donne’ e ‘democrazia’ per imporre un’economia coloniale. La sinistra fa fatica a rispondere, è orfana di ciò che avevano rappresentato l’Unione Sovietica e l’internazionalismo novecentesco”. Se l’Arabia Saudita e il Qatar supportano Hamas e gli Stati Uniti e l’Europa supportano Fatah, si chiede, chi supporta la sinistra? “La popolazione stima il Fronte Popolare ma (al netto delle problematiche legate al suo ateismo) si chiede quale potere internazionale esso possa candidare come elemento d’appoggio”.
Nassar, come il prof. Atallah, ammette che i dibattiti della sinistra mondiale non hanno lambito che marginali circoli studenteschi della sinistra palestinese. Zapatismo, Negrismo, Confederalismo Democratico curdo non sono mai stati reale oggetto di discussione in Palestina. Non è disposto, tuttavia, ad accettare lezioni dalla sinistra europea: “I compagni europei mi sembrano dei preti. Sono sempre intenti a discettare e discutere, intanto il capitale domina e si rafforza sempre più. Vogliamo parlare dello stato della sinistra europea? Dove eravate durante la crisi del 2008? Cosa avete fatto per sfruttare quell’occasione per costruire lotte europee contro i responsabili di questo disastro?”. Anche l’atteggiamento della sinistra mondiale verso la Palestina è espressione, dice, di un terribile limite culturale. “I compagni o gli attivisti vengono qui e hanno l’atteggiamento di chi affronta una ‘questione morale’. C’è un bassissimo livello politico, nessuno sforzo di scorgere le radici materiali del problema, di collocarlo nella sfera internazionale di un comune interesse sociale. Un atteggiamento che, con il tempo, ha contagiato la sinistra palestinese stessa, contribuendo ad approfondire la sua crisi”.
Corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d’Urto da Betlemme
(la foto in testa all’articolo è stata reperita dal web)
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