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Demolire le case vuol dire demolire la pace

Un’analisi spietata dell’avanzata della pulizia etnica praticata da Israele.

MaanNews 26 marzo 2014 

 

La “giudaizzazione” di Gerusalemme e della Cisgiordania va avanti rapidamente, nonostante la (e di fatto a causa della) cosiddetta “Iniziativa di Kerry”.

Negli ultimi mesi il governo israeliano ha intensificato la campagna di demolizioni a Gerusalemme, nella strategica area E1 tra Gerusalemme e l’insediamento dei coloni di Maale Adumim, sulle colline a sud di Hebron e nella valle del Giordano.

In base ai dati dell’ONU, 231 palestinesi sono stati cacciati dalle loro case nei primi due mesi del 2014. Durante questo breve periodo 132 strutture sono state demolite, un ritmo superiore a quello del 2013, quando 1.103 edifici sono stati demoliti e 663 persone espulse, che di per sé è stato il livello più alto negli ultimi 5 anni. Oltre alle case, il termine “strutture” si riferisce anche a recinti per il bestiame, staccionate, serbatoi per l’acqua, e persino strutture pubbliche come scuole, tutti vitali per il sostentamento e la vita comunitaria dei Palestinesi.

Nel complesso, l’ICAHD stima che dal 1967 circa 29.000 abitazioni palestinesi e strutture vitali siano state demolite nei Territori Occupati – e questa cifra non include le demolizioni attualmente in corso di migliaia di altre case dei palestinesi e dei beduini che sono cittadini israeliani.

Allo stesso tempo, ovviamente, il governo israeliano ha annunciato la costruzione di migliaia di nuove case e progetti infrastrutturali nelle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Quindi, mentre recentemente ha approvato altre 1.500 unità abitative nell’ insediamento illegale di Ramat Shlomo, a Gerusalemme est, 558 in altre colonie nella stessa zona e altre 3.500 in Cisgiordania,[il governo] emette ordini di demolizione per 2.000 unità abitative nelle zone limitrofe di Ras al-Khamis e nel campo dei rifugiati di Shuafat.

Naturalmente la “Demolizione” è solo la parte più visibile del problema. L’espulsione provocata dalla mancanza di accesso all’acqua o a terre coltivabili e l’attuale espropriazione di terre necessarie alla persistenza del modo di vita comunitario dei palestinesi è il vero scopo della politica delle demolizioni.

A Gerusalemme est, il governo israeliano sta istituendo un “parco nazionale” sulle terre di Issawiya e al-Tur, nel nordest della città, separando le comunità di Gerusalemme est e creando un “ponte” tra la parte israeliana di Gerusalemme e Maale Adumim – per creare la cosiddetta “Grande Gerusalemme (israeliana)” che divide a metà la Cisgiordania e di fatto pone fine ad ogni prospsettiva di uno Stato palestinese limitrofo [a Israele].

In base a un processo che Israele chiama ufficialmente “giudaizzazione”, il 40% degli ebrei residenti a Gerusalemme attualmente vive nella parte palestinese della città, in insediamenti in espansione che relegano i palestinesi in angusti ghetti.

 

 

[Una donna è confortata da un parente mentre guardano le scavatrici israeliane demolire la loro [casa],nel sobborgo di Beit Hanina a Gerusalemme est, 27 genn. 2014. (AFP/Ahmad Gharabli)]

Il villaggio palestinese di Sheik Jarrah è stato spopolato e occupato da ebrei israeliani; recentemente il Comune ha annunciato la costruzione di un enorme “campus” di dodici piani con dormitori e aule per studenti ebrei della scuola religiosa nel cuore del sobborgo.

Anche Silwan sta per essere cancellato dalle carte geografiche: è già stato ribattezzato “la città di David”, dichiarato un parco nazionale israeliano ed “giudaizzato”da dozzine di famiglie di coloni. Il governo progetta di demolire 88 case palestinesi per fare spazio a parcheggi e strutture del parco.

In altre zone di Gerusalemme – per esempio Al-Tur, o Jabal Mukkaber, Sur Baher e Beit Hanina – le demolizioni avvengono con ritmo più lento ma costante, inosservato per evitare le critiche internazionali ma abbastanza da impedire alle famiglie palestinesi di migliorare il proprio livello di vita. Qui il messaggio è l’altra faccia della’“giudaizzazione”: la de-arabizzazione. Anche mantenere la popolazione palestinese della città- un terzo degli abitanti di Gerusalemme- in condizioni di vita miserabili (basta confrontare le infrastrutture di Gerusalemme est rispetto a quelle di Gerusalemme ovest) fa parte della strategia per espellerli.

C’è anche un’altra trovata. Israele ha una politica dichiaratamente razzista per mantenere una maggioranza del 72% di Ebrei rispetto agli arabi a Gerusalemme. Come ottenere questo risultato? Bene, la sua duplice politica di demolizione delle case e della mancata concessione di permessi di edificazione per i palestinesi ha portato alla carenza di circa 25.000 unità abitative nella parte palestinese.

Questo ha fatto salire il prezzo delle poche abitazioni a disposizione dei palestinesi, obbligandone migliaia – il 70% dei palestinesi che vivono a Gerusalemme est vivono al di sotto della soglia di povertà- a cercare prezzi più abbordabili nei sobborghi arabi appena oltre i confini, tracciati in modo fraudolento, di Gerusalemme, come Bir Naballah, al-Ram, Hizma, al-Eizariya, o Abu Dis.

Spostando il “centro delle loro vite” da Gerusalemme, comunque, quegli sventurati palestinesi, che non sono cittadini israeliani ma solo “residenti permanenti” di Gerusalemme, perdono i loro diritti di residenza e sono esclusi dalla possibilità di rientrare in città, anche se ci lavorano. HaMoked [Centro israeliano per la difesa dei diritti umani] ha obbligato il ministero dell’Interno a rivelare che, dal 1967, 14.309 palestinesi hanno perso la loro residenza, favorendo in questo modo il processo di “giudaizzazione” della città.

Le stesse politiche di espulsione, de—arabizzazione e “giudaizzazione”sono attuate in Cisgiordania, che Israele ha diviso in zone quasi tutte come “ terreno agricolo”, fornendo così le basi legali per non concedere permessi di edificazione ai palestinesi, demolendo qualunque edificio essi cerchino di costruire e, come nella valle del Giordano e nell colline a sud di Hebron, espellendo intere comunità. (inutile dirlo, Israele ha ridiviso ripartito ridisegnato le proprie zone di colonizzazione, dove costruire è legale).

 

[Hayla Bany Maniya vicino alla propria casa nella valle del Giordano dopo che è stata demolita dalla autorità israeliane il 31 gennaio 2014]

 

Nel 1967 tra i 200mila e i 320.000 palestinesi vivevano nella valle del Giordano; oggi ne restano solo circa 55.000 , e di questi solo 15.000, metà dei quali beduini, nell’Area C fuori dalla città di Gerico – un’area che comprende il 30% della Cisgiordania.

Le comunità dell’Area C, [vivono] sotto la tremenda minaccia delle demolizioni e dell’espulsione. In totale il 94% delle loro terre coltivabili gli è vietato.

Naturalmente la distruzione di case palestinesi non avviene solo nei Territori Occupati. L’intero paese è in via di “giudaizzazione” la Palestina è trasformata in Terra di Israele. Negli ultimi anni il governo israeliano ha demolito tre volte più case all’interno di Israele che nei Territori Occupati.

Il villaggio beduino-palestinese di al-Araqib, i cui abitanti sono cittadini israeliani, al momento è stato demolito 61 volte (ed ogni volta ricostruito dagli abitanti e dai loro sostenitori). Gli ufficiali israeliani spesso dicono:” Non abbiamo ancora finito [il lavoro del] 1948.” Ciò non significa che abbiano rinunciato a provarci.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

(*) Jeff Halper è il direttore del Comitato Israeliano contro le Demolizioni di Case. (ICAHD)

Jeff Halper sarà a Torino il 7 aprile per il ciclo “Palestina Raccontata”

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