Dopo una settimana di disordini, nel Rojhelat curdo è sciopero generale!
Nei primi tre giorni dei disordini, segnati da tumulti in vari centri e tentativi da parte dei manifestanti di raggiungere le locali sedi governative, sono morti sei dimostranti – mentre più di 700 persone, tra cui molti giovani, sono state arrestate o interrogate nelle città di Mahabad, Bukan, Saradasht, Marivan ed Oshnavieh. Molte di esse sono state deportate altrove su ordine del ministero della sicurezza e dell’intelligence – operazioni supervisionate da alti ufficiali della Guardia Rivoluzionaria.
Una strategia repressiva che non ha mancato di infiammare gli animi. Da giovedì, infatti, è stato proclamato lo sciopero generale in tutta la regione. Con l’appello, oltre che agli operai, per tutte le attività commmerciali del Rojhelat di astenersi dal lavoro in risposta “alle pratiche ostili alla popolazione curda da parte del regime iraniano”, “agli assalti contro le donne” ed “alla repressione delle manifestazioni pacifiche”, e l’esortazione anche per le organizzazioni politiche e della società civile di fare la propria parte. Da almeno 14 città si è aderito alla chiamata, tra cui i mercanti del bazar del popoloso centro di Sinne (Sanandaj, capoluogo della regione), che hanno calato le saracinesche dei loro negozi. Solidarietà è venuta anche dalla diaspora curda nel mondo, con presidi in alcune metropoli europee come Stoccolma, Vienna, Parigi e Londra.
Nel frattempo continuano le operazioni militari della Repubblica Islamica contro le posizioni della guerriglia del PJAK sulle pendici iraniane dei monti Qandil, nelle località di Dola Kokê ed Şehit Ronahî. Sebbene sia stato di recente consentito l’insegnamento privato in lingua curda (a differenza della vicina Turchia), nel parlamento di Teheran siedano dei deputati originari del Rojhelat e siano state tollerate manifestazioni filo PYD (la formazione politica che controlla i cantoni curdi nel nord della Siria) in funzione anti-ISIS, tutti i partiti politici curdi restano al bando – ed almeno 30 attivisti languono nel braccio della morte per presunti collegamenti con il partito armato.
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