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Il Vicino Oriente tra disintegrazione e speranza

di Lorenzo Carrieri

(Borsista presso la Saint-Joseph University di Beirut)

Il Medio Oriente per come lo conoscevamo fino ad oggi (quello per intenderci dei confini tracciati da Mark Sykes per il Regno Unito, e François Georges Picot per la Francia, nel 1916) sembra essere finito. La disintegrazione dell’integrità territoriale di alcuni stati-nazione è accompagnata da una porosità dei confini, che vengono attraversati quotidianamente da movimenti di profughi e formazioni combattenti.

In questa disintegrazione della forma-stato entra in gioco la peculiare storia della formazione dello stato-nazione nella regione. Essa è stata il risultato di un mercanteggiamento delle potenze coloniali e mandatarie, che hanno imposto, letteralmente, confini arbitrari, spartendosi la regione per zone di influenza. Al Regno Unito era stato assegnato il controllo delle zone comprendenti approssimativamente la Giordania, l’Iraq ed una piccola area intorno ad Haifa, alla Francia quello della zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria ed il Libano, mentre la zona che successivamente venne riconosciuta come Palestina doveva essere destinata ad un’amministrazione internazionale.
Al tempo stesso le potenze mandatarie hanno imposto élite clienti e classi dirigenti nei nuovi stati, che hanno conservato (e conservano in molti casi tuttora) un interesse a mantenere rapporti di dipendenza da un patron esterno, vuoi per la sovrapposizione di interessi economici, vuoi per il mantenimento della sicurezza: l’esempio lampante di questa politica è l’Arabia Saudita, che, in cambio dell’approvvigionamento petrolifero a prezzi contenuti agli Stati Uniti, ha garantita la protezione del patron a stelle e strisce.
La storia dello forma-stato in Medio Oriente è dunque storia di imposizione esterna, una imported commodity: se in Europa la forma stato si è sviluppata, in embrione, a partire dal Medio Evo per giungere a completamento tra il XV e il XIX come risultato della formazione di una classe borghese e di un sistema di produzione capitalistico, lo stato arabo non è stato invece il diretto prosecutore di sistemi di potere e burocratici con tradizioni secolari, ma una creazione artificiale e fragile fin dall’inizio. Lo stato arabo, dunque, è nato debole, perché mancante di egemonia ideologico-culturale (Gramsci docet!), in quanto non era stato in grado di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso, quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato (come sostiene Ayubi nel suo Overstating the Arab State).
Dall’altra lo stato arabo è stato costruito con l’irredentismo al suo interno, in quanto contestato da forti identità sovra e sub-statali, data la precaria congruenza tra identità e sovranità territoriale, tra nazione e stato che avrebbe dovuto favorire il riconoscimento e la lealtà da parte dei cittadini.
I deboli processi di state-building nella regione hanno avvicinato, almeno parzialmente, il sistema di stati medio orientale ad un modello europeo soltanto negli anni ’70-’80. Il consolidamento statale ha sfruttato le identità sub-statali e sovra-statali per compensare l’esigua identificazione con lo stato: così nelle monarchie la formula favorita è stata l’uso di lealtà patriarcali e/o l’Islam, mentre nelle repubbliche, insieme al panarabismo, si è ricorsi a identità/lealtà sub-statali (come la solidarietà tikrita in Iraq o quella alawita in Siria). Contemporaneamente questo consolidamento ha avuto un effetto anche nella conduzione delle politiche degli stati nella regione: l’adesione ai principi realisti della ragion di stato e dell’interesse nazionale nel dettare il comportamento degli stati ha oscurato completamente i principi panarabi e panislamici, allineando il modello degli stati arabi ad un modello westphaliano.

Oggi questo (debole) ordine westphaliano nella regione è in crisi. Le frontiere che segnavano i territori assegnati a Siria, Turchia, Iraq e Libano sembrano essere realtà solo sulle mappe.
La Siria, dove un conflitto armato che contrappone il regime di Assad e i “ribelli” va avanti dal 2011, è suddivisa in zone di influenza differenti, e la sua integrità territoriale, uno dei baluardi dello stato-nazione, è in discussione. Il regime controlla buona parte del territorio (60%), mentre il restante è diviso tra il fronte ribelle e i kurdi: questi ultimi controllano la parte nord-orientale al confine con la Turchia, mentre lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS/Daesh) mantiene un’area che si estende dalla città di al-Bab nella parte nord-ovest (a ridosso di Aleppo), con Raqqa come sua capitale, fino a giungere in territorio iracheno, inglobando una gran parte della regione dell’Anbar, della provincia di Falluja e di Mossul. Ed ecco che la frontiera Siria-Iraq non corrisponde più ad una realtà sul campo.
Così come non ha più senso parlare di frontiera tra Siria e Turchia: i jihadisti di ISIS la attraversano senza incontrare ostacoli, così come le forze di Nusra, altra formazione qaedista, e altre forze ribelli al regime di Assad.
La stessa frontiera Siria-Libano, considerata da molti un’imposizione coloniale per dividere il Libano dal sogno di una Grande Siria negli anni ’20, sembra più una realtà sulle mappe che altro. Già negli anni della guerra civile libanese e, in seguito al protettorato di Damasco sul Libano, la Siria di Hafez al Assad aveva fatto della zona di confine, ad Anjar nella valle della Bekaa, la sede del suo quartier generale, di fatto annullando l’esistenza di un confine tra i due paesi; oggi invece la frontiera, attraversata dai ribelli siriani (che hanno basi logistiche a Tripoli, nel nord del Libano) e dai jihadisti che decidono di farsi esplodere a Beirut, sembra almeno parzialmente rimessa in sicurezza, grazie all’intervento di Hezbollah che ha riconquistato la regione di Qalamoun e la città di Homs.
Anche l’Iraq, come detto sopra, vede sfaldarsi la sua integrità territoriale, e non solo quella. L’invasione americana del 2003, oltre a deporre Saddam Hussein, ha avuto anche il “merito” di  esacerbare il fazionalismo settario: la società irachena si trova oggi divisa su linee di faglia confessionali, dove ad una maggioranza sciita, al governo con al-Maliki, si contrappone la comunità sunnita, messa ai margini del potere e della condivisione della ricchezza petrolifera del paese. La rivolta degli ultimi mesi, da molti media mainstream dipinta come un semplice conflitto settario, pare invece poter esser ricondotta proprio a queste politiche esclusiviste del governo Maliki. L’ascesa di ISIS in buona parte delle zone sunnite sarebbe dunque da imputare ad una unione con le forze della (vecchia) Resistenza irachena, laica e nazionalista, composta da molti ex membri dell’esercito baathista di Saddam (che hanno formato l’Esercito Naqshbandi sotto il comando di Izzat al-Douri, ex comandante dell’esercito iracheno), laddove ISIS avrebbe funzionato da forza aggregante del malcontento sunnita.
Lo spill-over dei conflitti in atto nella regione determina anche altri tipi di movimenti attraverso le porose frontiere degli stati: i movimenti dei rifugiati. Le massicce migrazioni forzate dei rifugiati riguardano soprattutto i siriani e gli iracheni, nonché i profughi palestinesi ospitati nei campi in Siria: due milioni sono gli iracheni sfollati, due milioni e ottocento mila quelli siriani, di cui più di un milione solo nel vicino Libano, mentre quasi 55 mila rifugiati palestinesi-siriani sono fuggiti anch’essi nel paese dei cedri.

Se la forma stato nell’area medio-orientale è in crisi, questo è anche il risultato, come visto brevemente sopra, delle divisioni confessionali e del settarismo sunniti/sciiti. Alla base della divisione tra Sunna (lett. “tradizione”) e Shia (lett. “fazione”) c’è un conflitto di natura politica, e non religiosa, sulla successione del Profetta Maometto alla sua morte, dato che quest’ultimo non aveva lasciato nessuna indicazione su chi dovesse succederlo. Se i sunniti (90% musulmani nel mondo) sostenevano che la leadership spettasse ai più capaci della comunità, indipendentemente dal grado di parentela diretta col Profeta, gli sciiti affermavano che invece dovesse essere un membro della famiglia di Maometto a prendere il suo ruolo.
Come affermato da Alterman, “la religione è la continuazione della politica con altri mezzi, e le crescenti tensioni Sunna vs Shia in Medio Oriente ne sarebbero una conferma”.
Il discorso settario, e la sua influenza sulla crisi della stato-nazione in Medio Oriente, si è andato approfondendo dal 1979 in avanti, a seguito della Rivoluzione Islamica in Iran: è qui che la realtà dello “scontro” Sunniti/Sciiti ha preso corpo. La politicizzazione del “sect” di appartenenza ha avuto le sue radici anche nell’uso strumentale dell’Islam politico come contrappeso alle ideologie laiche e nazionaliste del panarabismo degli anni ’60-’70. L’affievolirsi del nazionalismo arabo, e la contemporanea rivoluzione islamica in Iran, hanno determinato una crescita del discorso settario, alimentata dal conflitto per l’egemonia, interno allo spazio di senso islamico, tra un Iran sciita e rivoluzionario, che si poneva come avanguardia dell’islamismo politico, e un’Arabia Saudita (con al seguito buona parte del mondo arabo) sunnita e guardiana dei luoghi santi della Mecca. L’Islam è diventato così, da fattore di unificazione della Umma (comunità) islamica, fattore di divisione: ma la questione non è tanto lo scisma sunna/shia quanto la paura araba dell’influenza iraniana sulle minoranze sciite, da sempre perseguitate ed escluse dalla partecipazione politica e dalla ricchezza.

É oggi che il discorso settario ha attecchito e ha messo in discussione lo stato-nazione e i suoi confini, soprattutto in quei paesi ad alta frammentazione sociale (Libano, Iraq, Siria). Esso dunque, più che essere un discorso religioso ed essenziale nella storia dell’area, come buona parte del mainstream tende a far passare, è il risultato delle specifiche convergenze di potere intra-regionali ed internazionali, abilmente dipinte da certi attori regionali come battaglie religiose e confessionali: questo per dire che gli stessi conflitti in Medio Oriente, nonostante la retorica religiosa, celino dietro di sé la volontà molto materialistica di cambiare i rapporti di forza sul campo.

Uno dei fattori di unificazione che ha oltrepassato le frontiere in mezzo al caos, al settarismo e alla disintegrazione degli stati in Medio Oriente, possono essere le insurrezioni del 2011, le cosiddette Primavere Arabe.  
L’idea di giustizia sociale e di cambiamento in senso rivoluzionario delle società e dei regimi ha accomunato tutte le sollevazioni, e ha contribuito a ricomporre una unità araba che non si vedeva dai tempi del nazionalismo arabo. Queste insurrezioni hanno dimostrato come al centro delle domande di cambiamento non ci sia una semplice richiesta di ballot box e processi elettorali (tanto cari agli studiosi della transizione alla democrazia e della società civile!), ma un rovesciamento totale dei rapporti socio-economici preesistenti, attraverso un abbattimento di economie predatorie e patrimonialistiche, portatrici di interessi di élite legate a doppio filo con poteri esterni. L’ascesa di attori islamisti nel momento elettorale, come i Fratelli Musulmani in Egitto (oggi fuorilegge sotto il governo Sisi) e Ennhada in Tunisia, non ha esaurito la spinta di queste insurrezioni, come molti tendono a credere: questi attori infatti rappresentano l’altra faccia della medaglia dell’ancien regime, in quanto non intendono mettere in discussione le relazioni di potere dei modelli socio-economici, di cui sono parte integrante.
Nonostante molti vedano ormai finita l’onda lunga di queste insurrezioni e parlino apertamente di “Inverno Islamico”, tutti noi sappiamo che i processi rivoluzionari sono di lunga durata e complessi. É dunque compito delle popolazioni arabe tornare a essere artefici del proprio destino, ricomponendo le forze rivoluzionarie e costruendo nuove egemonie, per riguadagnarsi la giustizia sociale che è stata loro negata: come diceva un vecchio adagio infatti “non bisogna mai giocare con l’insurrezione, ma quando la si inizia bisogna mettersi bene in testa di andare fino in fondo”.

 

Una chiacchierata con Lorenzo Carrieri su “Conflitti Globali” (Radio Blackout)

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Il dossier di LeMonde Diplomatique del luglio 2014 cui si fa riferimento nell’intervista (pp. 1, 7-10):

http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/07/15/lemonde2014-0708-2014.pdf

 

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