In USA la più grande manifestazione antisionista di Jewish Voices for Peace
Alla prima bomba caduta su Gaza, il movimento pro-Palestina ha invaso immediatamente le strade e piazze delle maggiori città Americane – New York, Chicago, San Francisco, Los Angeles – per chiedere a gran voce al governo americano e alla presidenza Biden di non essere piu’ complice di una guerra che ha sempre piu’ il sapore di un vero e proprio genocidio.
Ogni anno gli Stati Uniti forniscono ad Israele aiuti militari per un valore di quasi 4 miliardi di dollari. A questi se ne devono aggiungere altri 14 promessi proprio ieri da Biden in un discorso trasmesso a reti unificate, al ritorno da un viaggio lampo proprio in Israele. Cifre spaventose, che sembrano confermare la storica parzialita’ con cui gli Stati Uniti hanno da sempre affrontato la questione palestinese.
Eppure in queste settimane qualcosa sembra essere cambiato, almeno nella societa’ americana e sicuramente nella comunità ebraica. In particolare nell’ultima settimana, le due piu’ importanti organizzazioni ebraiche con orientamento anti-sionista sono state protagoniste di importanti azioni di protesta in supporto della popolazione di Gaza.
Fondata nel 1996, Jewish Voices for Peace e’ la piu’ grande organizzazione ebraica anti-sionista and insieme a If not Now (un’altra organizzzazione ebraica anti-sionista) hanno organizzato due giorni fa la piu’ imponente azione di attiviste e attivisti ebrei in supporto dei Palestinesi nella storia degli Stati Uniti. Prima hanno circondato la Casa Bianca, poi hanno occupato l’atrio del Congresso Americano mentre alcune delegazioni hanno incontrato alcuni parlamentari per chiedere un immediato cessate il fuoco. Mai si era vista una tale mobilitazione della comunita’ ebraica in supporto del popolo palestinese.
Ancora prima delle recenti azioni, Jewish Voices for Peace si era già impegnata in importanti campagne che avevano l’obiettivo di mettere in discussione i legami politici/economici esistenti tra gli Stati Uniti e Israele. Per esempio negli scorsi mesi, l’organizzazione aveva portato avanti la campagna No Tech for Apartheid chiedendo l’immediata interruzione del Progetto Nimbus.
Il progetto consiste in un contratto di quasi un miliardo di dollari che lo Stato di Israele ha firmato con Google e Amazon per lo sviluppo di tecnologie che verranno usate per sorvegliare e opprimere il popolo Palestinese. La campagna aveva due obiettivi. Il primo era quello di contattare i maggiori azionisti di queste due compagnie e convicerli a presentare una risoluzione in cui si condannava l’apartheid israeliano. Il secondo obiettivo era quello di aiutare lavoratrici e lavoratori dei due giganti tech ad organizzare una giornata di azioni per protestare contro il contratto. Il risultato e’ stato una serie di azioni distribuite in 4 citta’ americane che hanno coinvolto più di mille tra lavoratrici e lavoratori.
Jewish Voices for Peace ha avuto anche un ruolo fondamentale nel sottolineare il legame tra le varie polizie americane e le forze militari israeliane. L’organizzazione ha infatti portato avanti un’ imponente campagna contro il programma di addestramento tra le forze di polizia statunitensi e quelle israeliane. Le loro azioni miravano ad evidenziare il legame tra il tipo di addestramento che la polizia statunitense riceveva dai colleghi israeliani e la crescente militarizzazione e brutalità delle forze dell’ordine americane.
Quest’ ultima campagna e’ secondo me molto importante perché ci permette di capire come siamo arrivati a questo punto. Fino ad ora, gli organi di informazione e la politica istituzionale era sempre riuscita a presentare la comunita’ ebraica come monolitica nel suo supporto ad Israele. Questa volta invece assistiamo ad una spaccatura che rende molto difficile, soprattutto per il partito Democratico, utilizzare il lutto degli ebrei come giustificazione per il continuo aiuto militare e politico ad un regime che pratica un apartheid spietato nei confronti del popolo palestinese.
Cominciamo col dire che storicamente una larga parte della comunità ebraica negli Stati Uniti ha sempre avuto un ruolo molto importante nei movimenti radicali dal basso. Questo e’ in parte dovuto alle migrazioni tra la fine dell’800 ed inizio ‘900 di molti ebrei – soprattutto dai paesi dell’Europa dell’Est- con forti simpatie socialiste, comuniste e anarchiche. Questa tradizione non si e’ mai pero’ tradotta in un’aperta critica alle politiche israeliane.
Negli ultimi 10 anni, però, il movimento dal basso americano si e’ contraddistindo per la sua capacita’ di creare coalizioni intorno a temi che hanno permesso di creare una piu’ larga piattaforma politica. Nel 2016, per esempio, i leader e membri di varie tribù di nativi americani hanno portato avanti una dura protesta contro la costruzione di un oleodotto che sarebbe dovuto passare all’interno della riserva Standing Rock. La protesta ricevette il supporto di molte realta’ antagoniste americane le quali riuscirono a mobilitare le persone mostrando come la lotta dei nativi americani contro l’oleodotto non era solamente una lotta ambientalista, ma anche una lotta anti-colonialista con le tribu’ dei nativi pronte a rivendicare il diritto di riprendersi e proteggere le loro terre. Anche la dura repressione che quel movimento subì fu usata dal movimento per collegare le proteste dei nativi americani con la ribellione che le comunita’ nere stavano portando avanti contro la brutalita’ poliziesca. Ecco che allora questi due movimenti, il movimento dei nativi americani e quello del Black Lives Matter si ritrovano insieme in una lotta che ha molti punti in comune.
E’ a questo punto che il linguaggio usato per descrivere la violenza razzista della polizia si fonde con la retorica anti-colonialista dei nativi americani. A questo si deve aggiungere un terzo elemento rappresentato dal profondo lavoro che i gruppi anti-razzisti hanno fatto all’interno di molte comunita’ bianche (quello ebree incluse) per far capire che i bianchi avevano un importante ruolo in questo progetto politico. Il punto è che lo stato di polizia razzista americano e lo sterminio e marginalizzazione dei nativi americani non esisterebbero senza il supporto attivo dei bianchi.
E’ in questo contesto che molti membri della comunità ebraica cominciano a vedere come il rapporto tra gli Stati Uniti e lo Stato di Israele si basi su una comune visione politica che negli Stati Uniti aveva generato i movimenti di protesta di cui loro gia’ facevano parte.
Gli stretti rapporti tra la polizia americana e l’esercito israeliano e gli insediamenti illegali dei coloni israeliani vengono ora letti attraverso le lenti politiche del movimento dei Black Lives Matter e dei nativi americani. Ecco allora la realizzazione che la creazione di un forte movimento ebreo anti-sionista rappresentava un importante contributo ad una lotta che a questo punto ha assunto una dimensione internazionalista.
Le storiche ed eccezionali azioni di protesta a cui molti ebrei americani hanno preso parte in questi giorni devono allora essere lette come un grande successo di tutto il movimento radicale americano. Queste proteste segnano un importante cambiamento delle dinamiche politiche interne agli Stati Uniti rispetto alla questione palestinese.
L’impossibilta’ di tacciare il movimento sceso in piazza in supporto dei Palestinesi di anti-semitismo, costringera’ il partito Democratico ha fare una riflessione seria su come comportarsi ed esprimersi, soprattutto alla vigilia di una cruciale campagna elettorale che culminera’ con le elezioni presidenziali nell’autunno del 2024. Non e’ un caso allora che già 16 parlamentari democratici abbiano deciso di sponsorizzare una mozione che chiede l’immediato cessate il fuoco. O che piu’ di 400 membri mussulmani ed ebrei dello staff del partito democratico abbiano firmato una lettera aperta in cui si chiede ai parlamentari di fare di piu’ per il raggiungimento del cessate il fuoco e di una soluzione politica che risolva veramente la quesitone palestinese.
Ovviamente la reazione dell’ala più conservatrice della comunità ebraica americana non si è fatta attendere. Per esempio nelle ultime settimane, importanti benefattori delle maggiori università americane hanno fatto pressione perché nei campus fossero vietate qualsiasi tipo di manifestazione pro-Gaza e chiesto una piu’ aperta condanna dell’attacco condotto dai militanti di Hamas da parte dei rettori. Ma è quando si aprono i maggiori giornali americani e si ascoltano i principali network che si avverte come il linguaggio stia lentamente cambiando.
Ancora una volta bisogna guardare alle lezioni imparate durante le proteste del movimento Black Lives Matter. In quei giorni, gli attivisti bianchi hanno imparato che e’ importante usare il loro privilegiato accesso ai media per amplificare la voce delle comunita’ nere perche’ la societa’ americana ascoltera’ e valutera’ quegli argomenti in maniera diversa semplicemente perche’ a parlare e’ un bianco.
In maniera simile, in questi giorni i giornali, le radio e le televisioni americane hanno dato spazio – anche se a volte limitato – a voci della comunità ebraica che apertamente criticavano le politiche israeliane. E’ facile tacciare un arabo di antisemtismo. Piu’ difficile e’ zittire migliaia di ebrei che chiedo a gran voce la fine del genocidio palestinese.
Certo il recente viaggio di Biden in Israele sembra suggerire che la politica istituzionale sia sorda rispetto alle richieste del movimento sceso in piazza, ma la sensazione che si ha guardandosi intorno e’ che in questi giorni qualcosa sia veramente cambiato.
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