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La guerra dei dazi incombe sulla civiltà-mondo capitalista

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L’annuncio da parte di Trump di dazi che tassano per 60 miliardi di dollari i prodotti importati dalla Cina segnano la concretizzazione di un passaggio largamente annunciato nel suo programma elettorale: quello che traduce in nazionalismo economico la narrazione del Make America Great Again. Sottinteso: se l’America non è più grande, la colpa è della cessione di parti di sovranità alle istituzioni del commercio globale, e non a caso per svincolarsi da queste viene richiamata la clausola della sicurezza nazionale.

Si tratta di una messa in discussione dall’interno degli Stati Uniti della funzionalità dell’architettura neoliberale da essi stessi costruita (sulle basi degli accordi di Bretton Woods del dopoguerra) e che sorregge la civiltà-mondo capitalista. Una costruzione applicata anche in maniera opportunistica (considerate le deroghe protezioniste perfino da parte dello stesso Reagan) e che prevedeva l’assunzione di un ruolo globale di leadership militare, economica e politica (oltre che tecnologica e culturale). Ma che dall’inizio del mandato di Trump è stata sottoposta alla continua delegittimazione da parte statunitense di una serie di tavoli, istituzioni ed accordi multilaterali. Dalla richiesta agli altri paesi NATO di sobbarcarsi una maggiore quota dei contributi per l’operatività dell’alleanza al naufragio degli accordi TTIP e TPP, dall’attacco alla WTO fino al prospettato vertice USA-Corea del Nord: la strategia economica e diplomatica (pur in forme spesso espresse in maniera caotica) di Trump è quella di accordi bilaterali fortemente asimmetrici verso i partner minori e di attacchi frontali verso i competitori.

Quadro completato dalle politiche del neoeletto presidente della Federal Reserve (la Banca Centrale USA) Jerome Powell di aumento dei tassi d’interesse statunitensi. Una misura che favorisce il rientro di capitali nelle casse nazionali (specialmente quelli di investimento in paesi ritenuti a rischio come la Turchia o il Venezuela), ma anche posizioni di rendita come quella immobiliare (a cascata aumentano interessi su mutui ed acquisti a rate), preludendo a scenari inflattivi e scompensi nelle economie più deboli. Basti guardare alla disastrosa parabola di paesi come il Brasile – fino a cinque anni fa candidato al ruolo di potenza regionale sull’onda del boom economico e dei grandi eventi – per rendersi conto degli effetti prodotti dall’accoppiata tra guerra finanziaria (in quel caso valutaria) e politiche clientelari (oltreché fortemente dipendenti dagli investimenti esteri) di sviluppo nazionale.

Come reagiranno le altre potenze economiche globali a questa sfida? Una Cina in pieno sommovimento politico con la rielezione a vita di Xi per ora resta in attesa. Conscia dell’effetto a breve termine che avrebbero i propri dazi verso particolari settori dell’economia statunitense: da un lato aumenterebbero i prezzi di beni tecnologici di largo consumo per il cittadino statunitense, dall’altro finirebbe in crisi il settore agricolo, forte base di consenso a Trump in vista delle imminenti elezioni di mid-term. Però nel medio termine si produrrebbe una rilocalizzazione negli Stati Uniti di aziende trasferitesi in Cina, scenario dai risvolti ancora nebulosi in merito alla qualità delle ricadute su modello di sviluppo e standard di vita.

Mentre per l’UE, finora e temporaneamente esente dai vecchi e nuovi dazi a stelle e strisce, si apre ora un mese di transizione in cui sarà sottoposta all’esame del presidente americano – che alla fine deciderà se confermare lo status quo o meno. Una dichiarazione di Trump – ridicolizzata in maniera elitista su certa stampa mainstream – è che “le guerre commerciali sono buone e facili da vincere”. Le guerre commerciali si vincono facilmente se possono far danni tangibili ad un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni come quella tedesca, e se fattori economici e politici (la Brexit e le fratture aperte nel sud e nell’est europa) possono permettere a Trump di scardinare la (presunta) compattezza del competitor europeo. Uno scenario in cui l’Italia, stretta tra l’appeal dell’amico amerikano ed i vincoli di Bruxelles, rischia di finire stritolata.

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