La guerra fredda tra Nato e Russia passa per Erdogan
Chi vincerà avrà il controllo del cuore del Medio Oriente, ancora una volta strappato dalle mani dei popoli e preda del neocolonialismo globale.
Cameron non ha perso tempo: ha atteso due anni per avere luce verde dal parlamento britannico e, appena ottenuta, ha ordinato all’aviazione di Londra di partire per la Siria. A poche ore dal voto dei parlamentari britannici (397 sì contro 223 no), la Raf ha bombardato postazioni dell’Isis in territorio siriano. Quattro jet sono decollati da Cipro e dopo i raid sono tornati alla base.
Il premier Cameron ha investito tutto nel voto del parlamento, giocando sull’auto-difesa contro gli islamisti del sedicente califfato: “Complottano per ucciderci e per estremizzare i nostri figli”, ha detto con una spropositata drammaticità. Ha spaccato il partito laburista del rivale Corbyn nell’obiettivo di salire a bordo della coalizione internazionale che sta aiutando a devastare la Siria senza intaccare troppo le conquiste del “califfo” al-Baghdadi. Nel mirino, ha detto Cameron, ci sarà Raqqa e il business del petrolio dell’Isis.
Tutti puntano su Raqqa, la proclamata “capitale” dello Stato Islamico: russi, francesi, statunitensi e ora inglesi. Eppure le voci che arrivano dalla città, devastata dalla guerra civile, dalle barbarie dell’Isis e ora dai bombardamenti poco precisi dell’Occidente, raccontano un’altra storia: i civili stanno pagando un prezzo alto, usati come scudi umani dagli islamisti che gli impediscono di andarsene e che si mescolano a loro per evitare gli attacchi della coalizione. «Oggi Raqqa vive in un incubo – racconta a Middle East Eye Abdullah K., ex residente riuscito a fuggire e ora in Turchia – L’Isis si arrovella per affamare in ogni modo la popolazione civile e ci riesce.
Non c’è elettricità, l’acqua non è sterilizzata. Il centro sembra una città fantasma, eccetto per le case occupate dai membri dell’Isis, le uniche a ricevere servizi. Qualsiasi intervento militare non segnerà la fine di Assad. I miei concittadini sono stati massacrati e sfollati dai paesi stranieri».
L’altro grande target occidentale, da qualche settimana, sono i camion di petrolio che l’Isis contrabbanda fuori garantendosi tre milioni di dollari ogni giorno. Quei camion non sono però solo il modo per indebolire l’Isis: sono un modo per definire equilibri di potere e influenze, per tagliare fuori gli avversari. Lo sa bene lo zar Putin che ieri ha ordinato i suoi ministri di demolire il presidente turco Erdogan. Con un’accusa non nuova, ma che stavolta va oltre, arriva fino alla casa del presidente e lo lascia nudo: la famiglia Erdogan fa affari diretti con il petrolio venduto sottobanco dallo Stato Islamico.
Nella conferenza stampa di ieri i russi hanno mostrato una serie di foto satellitari e video con le quali intendono dimostrare i legami tra al-Baghdadi e Erdogan: “Tre principali vie di trasporto del petrolio in Turchia – ha spiegato il funzionario militare russo Rudskoy – Una termina nei porti turchi sul Mediterraneo, una alla raffineria di Bartman e la terza a Cizre”.
Da tempo si vocifera di rapporti stretti tra turchi e islamisti: foto e video scattate al confine sud con la Siria dai kurdi turchi e da quelli siriani fuggiti da Kobane hanno dimostrato le relazioni amichevoli tra gendarmeria e polizia turche e miliziani, a cui veniva permesso senza grossi problemi il passaggio da una parte all’altra della frontiera; i giornalisti turchi Gül e Dündar sono oggi dietro le sbarre per aver pubblicato articoli che racontavano della consegna di armi da parte di membri dei servizi segreti turchi agli islamisti attivi in Siria.
Ma l’accusa di Mosca va oltre: prima di tutto si tratta della super potenza che in Siria sta dettando legge; in secondo luogo, va dritta al cuore del potere turco, il presidente Erdogan. Che non è più semplicemente accusato di non saper gestire il confine, ma di fare affari sul greggio di contrabbando. “Il primo consumatore di petrolio rubato dai legittimi proprietari, Siria e Iraq, è la Turchia. Secondo le informazioni a disposizione, il più alto livello della leadership del paese, il presidente e la sua famiglia, sono coinvolti nel business criminale”, ha detto il vice ministro alla Difesa Anatoly Antonov.
E se la Turchia risponde rigettando le accuse e tagliando del 25% le importazioni di gas russo per il 2016, è chiaro che il guanto di sfida non viene lanciato solo in faccia ad Ankara, ma ai suoi più stretti alleati, Stati Uniti e Nato. Putin si vendica, si vendica per il jet abbattuto e per gli ostacoli posti dalla Turchia alla stabilizzazione del processo negoziale sulla Siria.
Ora Washington si ritrova senza appoggio: il Dipartimento di Stato Usa ieri ha subito rigettato le accuse, difendendo Erdogan e la Turchia e rigirando la frittata, imputando al presidente siriano Assad l’acquisto di greggio dell’Isis.
In corso c’è una guerra fredda che va dall’Ucraina alla Siria e che serve agli avversari in campo di definire la rispettiva autorità, quella necessaria ad avere l’ultima parola sul futuro del Medio Oriente.
La guerra civile siriana non è scoppiata perché il popolo chiedeva maggiore democrazia. La protesta popolare è cominciata così, nella primavera del 2011, ma è stata presto stravolta dall’intervento esterno che ha armato e guidato le milizie anti-Assad, lasciando in un angolo le reali richieste della popolazione. Questa guerra è costata molto in termini di credibilità e di potere globale e nessuno – né la Nato, né gli Usa, né la Russia – intende mollare all’ultimo momento. Con la finzione degli accordi di Vienna hanno gettato le basi per la guerra diplomatica che si combatterà nei prossimi mesi. Chi vincerà avrà il controllo del cuore del Medio Oriente, ancora una volta strappato dalle mani dei popoli e preda del neocolonialismo globale.
da NenaNews
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